LA BATTAGLIA DI LEPANTO
Dall'episodio relativo alla battaglia di Lepanto un esempio, sempre valido anche per i
nostri giorni, di solidarietà internazionale e cristiana di fronte al comune pericolo,
allora rappresentato dalla minaccia turca. L'eroica resistenza dei cavalieri di S.
Giovanni di Gerusalemme in Malta assediato dai turchi. La Lega Santa tra gli Stati
cattolici nella Cristianità della Contro-Riforma, modello di unità del mondo cattolico,
raggiunta superando interessi temporali divergenti grazie soprattutto alla decisa
mediazione dell'allora regnante Pontefice, san Pio V. La gioia della Cristianità alla
notizia della vittoria di Lepanto, che preservò intere nazioni europee dalla dominazione
musulmana.
All'alba del 7 ottobre 1571, aveva inizio, nelle acque di Lepanto, porto della costa
ionica, situato di fronte al Peloponneso e non distante da Corfù, una delle più grandi
battaglie navali della storia, frutto glorioso degli sforzi della Cristianità
controriformistica. Non pare affatto fuori luogo ricordarne l'anniversario, e ricordarlo
nel modo più serio, cioè riassumendone la storia e inquadrando l'evento nella situazione
del Mediterraneo negli anni immediatamente precedenti e seguenti, così da comprenderlo
meglio e da poterlo valutare nella sua portata e nel suo significato.
Ecco l'inizio della battaglia di Lepanto attraverso il racconto di un marinaio della
nave cristiana "San Teodoro", narrato da Gianni Granzotto nel libro: "La
battaglia di Lepanto":
"...L'armata cristiana stava ferma sulla sua linea. Il solo movimento ordinato da
don Giovanni riguardò le galeazze, che si andarono a schierare un miglio davanti a noi,
come isole avanzate. Le galeazze erano sei, e dovevano mettersi a due per due all'innanzi
di ciascuno dei nostri corpi, due per l'ala di Barbarigo, due per il centro di don
Giovanni, due per l'ala del Doria. Se non che costui, comandato dall'argarsi verso il
pieno del golfo, girò fin troppo il bordo allontanandosi al largo più di quanto si
credeva opportuno. Per quella mossa si aprì una specie di varco sulla parte destra del
nostro schieramento e le due galeazze che dovevano andare a proteggere il corno dei
genovesi si trovarono un po' sperdute nel mezzo del mare.
Ma le altre furono pronte a scatenare tutto l'inferno dei cannoni di cui erano strapiene,
immobili in mezzo al mare sotto quel peso come enormi tartarughe galleggianti. Sui turchi
che avanzavano a tutta voga, senza più vele ai trinchetti per la caduta del vento,
piovvero i colpi ed il fuoco in una terribile tempesta d'improvviso infuriante sul mare
tranquillo. Davanti al nostro corpo di navi sparavano le galeazze di Francesco Duodo e di
Andrea da Pesaro. Vidi le palle lanciate dal Duodo sfracassare il fanale più grande della
Reale dei Turchi, che per altezza dominava il gruppo dei legni nemici avventati
all'assalto. Un secondo colpo frantumò la spalla d'una galera vicina, un terzo mandò in
pezzi il fasciame di un'altra, che si mise ad imbarcare acqua a fiotti sprofondando nel
mare come in una sabbia. Uomini con i turbanti in capo si buttarono a nuoto dagli spalti
divelti, tra remi spezzati, frammenti di chiglia, tronconi d'alberi dimezzati che cadevano
da altre galere colpite travolgendo soldati e rematori, mentre il fuoco prendeva a
divampare su questo e quel bordo illuminando le acque di inverosimili bagliori
Intorno alla metà del secolo XVI la situazione della Cristianità era delle più
difficili. Il secolo si era aperto, è vero, all'insegna delle promettenti conquiste di
nuove terre in Africa, in Asia, in America (1). Ma, già nel secondo decennio, l'incendio
acceso dall'ex monaco Martin Lutero era divampato in tutta Europa, approfittando del
fertile terreno costituito e preparato da molte tendenze affermatesi nel secolo
precedente: dalla diffusione di un movimento culturale umanistico sostanzialmente
acristiano, quando non anticristiano (2), alla decadenza della scolastica, con prevalenza
in campo filosofico di un neoplatonismo paganeggiante e magico-esoterico o di un
aristotelismo averroista; dalla decadenza delle élite aristocratiche e guerriere alla
diffusione, nei vari ceti sociali, di una ricerca del lusso e dei piaceri, dal ricorrere
di gravi crisi nella Chiesa, come l'esilio del papato ad Avignone e il successivo lungo
scisma, alle difficoltà dei Papi rinascimentali di portare a termine una riforma della
Chiesa, a parte qualche intervento pur significativo (3).
Mentre Carlo V tentava, attraverso una serie continua di guerre, di salvare l'unità
dell'Impero, la Chiesa avviava, col grande Concilio di Trento, insieme uno sforzo di
rinnovamento e di riaffermazione solenne delle verità dogmatiche minacciate dall'errore
protestante. Come spesso è accaduto nella sua bimillenaria storia, essa trovava al suo
interno una straordinaria capacità di reazione, documentata dal fiorire di santi e di
nuovi ordini religiosi, dei quali il più importante fu certamente la Compagnia di Gesù,
fondata da sant'Ignazio di Loyola, destinata a rappresentare l'arma di punta della
riconquista cattolica di una parte dell'Europa.
Questa, d'altra parte, era tormentata dalle contrapposizioni politiche fra Stati
cristiani. Così, la Francia - del resto tormentata da decennali e sanguinose guerre di
religione - non esitava, talora ad appoggiarsi, nella sua politica antiasburgica, a
principati protestanti, e giungeva a vedere con qualche sollievo la forza minacciosa dei
turchi nel Mediterraneo.
In questo mare, poi, al pericolo turco si aggiungevano i divergenti interessi, anche
comprensibili, degli altri Stati cristiani. Così, mentre Venezia era preoccupata
soprattutto delle minacce e degli attacchi che i sultani e le loro forze portavano alle
posizioni che essa conservava nello Ionio e nell'Egeo, la Spagna si preoccupava in
particolare della presenza musulmana nel bacino occidentale del Mediterraneo, cercando di
combatterla nelle sue basi nordafricane (4). Quando la generale situazione europea
consentì a Carlo V di tentare di assumere una contro-iniziativa nel Mediterraneo, essa si
articolò in due grandi spedizioni contro Tunisi e contro Algeri, delle quali solo una
poté considerarsi riuscita (5).
E' questo un primo elemento da tenere presente: la vittoria di Lepanto e, prima ancora, la
costituzione di una flotta congiunta, non fu il risultato di interessi politici
convergenti. Essi, semmai, divergevano, come si vide negli anni precedenti e seguenti la
battaglia stessa. Essa fu piuttosto il frutto di scelte coraggiose e responsabili di
alcuni principi e uomini politici e militari cristiani, nonché della persistenza, ancora
notevole, anche a livello popolare, dello spirito di crociata (6).
Comunque, dalla fine del Trecento, l'espansione turca si era fatta sempre più minacciosa
e, pur avendo conosciuto qualche battuta di arresto - sia per vittorie cristiane che per
alcune crisi interne -, nel complesso essa appariva quasi inarrestabile, mentre, negli
intervalli tra le vere e proprie guerre, un continuo stillicidio di incursioni, attacchi
corsari, saccheggi, catture di schiavi, massacri, manteneva, sui mari e lungo le coste, il
terrore nei confronti degli aggressivi infedeli. Ed è questo un secondo elemento da
tenere presente per valutare Lepanto: il senso di liberazione provato non solo e non tanto
per la scomparsa di un pericolo - che fu, come vedremo, temporaneo -, ma anche per la
prova raggiunta che fermare i turchi, volendo, era possibile.
I Turchi avevano vinto:
- nel 1389 nel Kossovo contro i serbi;
- nel 1396 a Nicopoli contro i crociati guidati dal re d'Ungheria;
- nel 1414 a Negroponte contro i veneziani;
- nel 1417 a Valona;
- nel 1418 a Girocastro;
- nel 1430 a Salonicco contro i veneziani;
- nel 1453 a Costantinopoli mettendo fine all'Impero Bizantino;
- nel 1462 a Lesbo contro i genovesi;
- nel 1463 contro i greci dell'Impero di Trebisonda;
- nel 1463 contro i bosniaci a Jace;
- nel 1480 a Otranto contro gli italiani;
- nel 1521 a Belgrado contro gli ungheresi;
- nel 1522 a Rodi contro i Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme;
- nel 1527 a Mohacs contro gli ungheresi;
- nel 1571 a Cipro contro i veneziani.
Nel 1529 avevano assediato gli austriaci a Vienna.
Nella seconda metà del secolo XVI i Turchi dominavano la Grecia, l'Albania, la Serbia, la
Bosnia, l'Ungheria, la Transilvania, la Moldavia e la Valacchia.
La vittoria della Lega Santa a Lepanto fu un evento d'importanza simile alla battaglia di
Poitiers. Nel 732 vennero fermati gli Arabi, nel 1571 vennero fermati i Turchi.
Ancora una volta la spada dell'Islam era stata spezzata dall'Occidente.
Nella impossibilità di rievocare in questa occasione il lungo elenco di vittorie e sconfitte, di piccoli e grandi episodi, di tentativi di sforzi comuni e di prevalenze di interessi particolari, mi pare utile prendere il 1565 come anno di avvio del racconto degli eventi che culminarono nella giornata di Lepanto. Ciò soprattutto per l'importanza che ebbe il fallimento del tentativo turco di conquistare Malta, tentativo che ebbe luogo proprio in quell'anno. Si può ben dire che esso segnò la fine di un periodo di netta prevalenza turca e l'avvio di un'azione cristiana di controffensiva, ancorché marcata da quei ritmi lenti e da quelle diffidenze reciproche di cui ho sopra fatto cenno (7). L'importanza di Malta non era legata soltanto alla perdita eventuale di una posizione geograficamente e strategicamente del massimo rilievo, ma anche al fatto che l'isola era la base di quell'ordine militare dei cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme il quale, adattandosi alle nuove circostanze, non aveva perso il suo antico spirito e il senso della sua tradizione, legati alle Crociate e alla Terrasanta. Le sue non numerose galee agivano con decisione sul mare, impegnate regolarmente in una spesso vittoriosa, sempre fastidiosa contro-guerriglia navale, mentre le sue basi costituivano un punto d'appoggio vitale per tutte le navi cristiane (8). L'attacco a Malta, con tutte le forze turche disponibili, fu deciso in persona dal vecchio Solimano, detto il Magnifico, per vendicare i danni patiti per opera dei Cavalieri di Malta e per dare prova che, dopo vari anni di regno, era ancora capace di sferrare offensive in grande stile contro il mondo cristiano; ciò benché, tra i suoi consiglieri, ve ne fossero alcuni contrari, timorosi delle grandi capacità militari dei Cavalieri - dimostrate anche durante il lungo assedio turco di Rodi - e favorevoli, semmai, ad attaccare le posizioni spagnole di Tunisi e di La Goletta, magari con una manovra diversiva contro Otranto. Comunque, il sovrano turco non era un avventato e si preoccupò di garantirsi la neutralità della Francia e di Venezia (9). La flotta turca si mosse con grande velocità e rapidità mentre in Occidente ci si interrogava sui possibili obiettivi che essa avrebbe potuto perseguire; a Malta, allorché 18 maggio 1565 la immensa flotta turca si presentò o all'isola, non erano stati fatti quei preparativi militari - perfezionamento delle opere difensive già esistenti, ammasso di viveri e munizioni - che sarebbero stati dettati dalla consapevolezza di dovere affrontare un così terribile assedio. In altra occasione, semmai, racconterò in dettaglio vicende della resistenza dei Cavalieri e dei molti episodi degni di essere conosciuti (10). Qui basterà dire che essa fu eroica, talora ai limiti dell'incredibile. Uno storico, certo non accusabile di facili entusiasmi o di intenti apologetici, Fernand Braudel, dopo aver esposto come la situazione si presentasse favorevole ai turchi, non esita a scrivere: "Ma il gran maestro, Jean Parisot de la Vallette, e i suoi cavalieri si difesero meravigliosamente. Il loro coraggio salvò tutto" (11). In effetti, quasi tutta l'isola fu occupata, tranne alcune fortificazioni che resistettero a oltranza, nonostante lenti bombardamenti e i ripetuti assalti. I difensori del piccolo forte di Sant'Elmo morirono tutti, ma ai turchi fu necessario più di un mese per conquistarlo. Il forte di San Michele resistette ancora più a lungo anche grazie alle coraggiose sortite del gran maestro e di un pugno di cavalieri che gettavano il panico nelle fila del grande esercito turco e alleggerivano la pressione degli assedianti. Malta ebbe così il necessario respiro. Poterono arrivare i primi rinforzi inviati dal viceré di Napoli, don Garcia de Toledo. I turchi decisero di rinunciare all'impresa, abbandonando l'isola il 12 settembre. E' stato scritto che "la vittoria delle armi cristiane - vittoria piena e decisiva - aveva richiesto dolorosi sacrifici: duecentodieci i cavalieri caduti, sessantanove i serventi d'arme morti e, diciassette i dispersi, cinque cappellani caduti, cui devono essere aggiunti i soldati morti in combattimento dei quali settemila maltesi e duemilacinquecento di altre nazioni " (12). Ma Solimano il Magnifico, il conquistatore di Rodi e di Belgrado, di Buda e di Tabriz, era stato sconfitto e il mito della invincibilità delle sue armate era stato scosso.
Tuttavia, gli avvenimenti del 1565, pur favorevoli, nelle loro conclusioni, alle armi cristiane, avevano confermato i pericoli che derivavano dalla disunione politica e militare della Cristianità. La vittoriosa resistenza di Malta fu un motivo di incoraggiamento per la riscossa cristiana, ma anche un campanello di allarme. Ma altri fattori resero possibile la grande giornata di Lepanto, fra i quali, a parere di quasi tutti gli storici, anche non cattolici, decisiva fu l'azione di san Pio V, salito al pontificato all'inizio del 1566. Il nuovo Papa era nato presso Alessandria nel 1504. Entrato giovane nell'ordine domenicano, si era distinto per l'austerità della vita e l'impegno nella difesa del cattolicesimo. Lo notò il cardinale Carafa, il quale, nel 1551, lo fece nominare commissario generale dell'Inquisizione; divenuto questi Papa con il nome di Paolo IV (1555-1559), nominò lo stimato padre Michele prima cardinale e, poi, grande inquisitore. Fu, invece, messo da parte dal successivo Papa, Pio IV, il quale, se pure ebbe il merito di chiudere il Concilio di Trento e di avviarne l'applicazione, seguiva una linea più moderata del suo predecessore. L'elezione del cardinale Ghislieri all'inizio del 1566 costituì, perciò, una sorpresa. Essa, dovuta in buona parte alla influenza in conclave san Carlo Borromeo, segnò la definitiva affermazione, in seno alla Chiesa cattolica, di quelle forze che perseguivano lucidamente ed energicamente una strategia di contro-riforma basata sul rinnovamento della Chiesa stessa; sulla integrale applicazione delle decisioni di Trento; su un'azione, improntata a severità e decisione, di difesa della Cristianità sia sul piano esterno che sul piano interno, a tutti i livelli, da quello politico a quello culturale (13). Fedele allo spirito di crociata e perfettamente consapevole della minaccia turca - rinnovata, dopo la morte di Solimano, dal nuovo giovane sultano, Selim, salito al trono nel 1566 -, san Pio V si adoperò in ogni modo per appianare i contrasti tra le potenze cristiane mediterranee e per spingerle a uno sforzo comune. Di lui Fernand Braudel ha giustamente scritto: "Certo, non un papa del Rinascimento: un'età ormai finita" (14). Meno giustamente, mi sembra, aggiunge che egli fu "intransigente e visionario" (15); intransigente certamente, ma visionario è termine equivoco, nella misura in cui sembra alludere non soltanto alla sua santità e alla sua tensione spirituale, ma anche a una astrattezza che la sua azione non ebbe. E' spesso, purtroppo, con accuse simili che vengono liquidati i progetti la cui magnanimità spaventa; e si fanno valere le ragioni di una pseudo-prudenza politica, le quali sono, sovente, ben più irreali e astratte, anche se molto più comode. Intanto, mentre le guerre di religione infuriavano in Francia e nei Paesi Bassi, l'espansione turca riprendeva minacciosa, non solo sul mare, ma anche alle frontiere ungheresi dell'impero. Inoltre, non senza sospetti di manovre turche, una rivolta dei musulmani di Granada, scoppiata nel 1569, si estendeva a gran parte dell'Andalusia, protraendosi a lungo. Mentre le forze spagnole erano impegnate in questa difficile guerra, alla fine vinta sotto la guida di don Giovanni d'Austria - venticinquenne fratellastro del re di Spagna Filippo II -, Tunisi cadeva in mano musulmana e i turchi si apprestavano ad attaccare Cipro, approfittando delle difficoltà di Venezia, della quale, tra l'altro, era bruciato quasi completamente il famoso Arsenale, per un incendio dì cui non si può escludere l'origine dolosa (16). Nel luglio, in effetti, i turchi sbarcavano a Cipro e nel settembre conquistavano la capitale, Nicosia. La resistenza cristiana continuò nella più fortificata Famagosta, sotto la guida dell'eroico Marco Antonio Bragadin, poi destinato a orrendo supplizio quando, nell'anno successivo, la città dovrà cadere, nonostante le promesse e i patti. San Pio V colse l'occasione dell'attacco a Cipro per superare la politica, ormai insufficiente, dei piccoli e occasionali aiuti. Fin dall'inizio perseguì la costituzione di una vera e propria lega. Le trattative furono lente; bisognava superare interessi divergenti. Alla fine la Sacra Lega fu firmata il 20 maggio 1571, nonostante gli sforzi della Francia, che cercava di dissuadere Venezia; nonostante la riluttanza di Filippo Il a impegnarsi nel Mediterraneo orientale; nonostante lo scetticismo dei veneziani, rafforzato da una deludente campagna fiaccamente condotta nell'autunno del 1570; nonostante i contrasti tra il granduca di Toscana Cosimo I e il sovrano spagnolo. Ed essa ebbe anche rapida attuazione, nonostante le obbiettive difficoltà di radunare e concentrare una forza ingente, come previsto dall'accordo e come necessario per la situazione, costruendo e armando navi, arruolando marinai e soldati, provvedendo ai rifornimenti resi tanto più difficili, per il blocco navale delle forze turche.
Il comando militare della flotta venne affidato a Giovanni d'Austria, figlio naturale
di Carlo V e fratellastro del re di Spagna Filippo II.
Suoi luogotenenti furono:
- Marcantonio Colonna, comandante della flotta pontificia.
- Sebastiano Venier, comandante della flotta veneziana.
I preparativi si protrassero a lungo e la flotta si poté riunire a Messina solo il 24
agosto.
La flotta era costituita da:
- 104 galee sottili sotto il comando della Repubblica di Venezia; 54 erano con equipaggi
provenienti da Venezia, 30 da Creta, 7 dalle Isole Ionie, 8 dalla Dalmazia, 5 da città di
terraferma.
- 6 galeazze sotto il comando della Repubblica di Venezia. Le galeazze erano munite di 40
o più cannoni, in grado di sparare palle da 13 chilogrammi in coperta e da 23 chilogrammi
da sottocoperta. Si trattava di vere e proprie fortezze galleggianti.
- 36 galee sotto il comando del re di Spagna con equipaggi di Napoli e Sicilia.
- 22 galee sotto il comando del re di Spagna con equipaggi di Genova; si trattava di navi
prese a nolo dal finanziere Gian Andrea Doria.
- 12 galee mandate da Cosimo I dei Medici, armate ed equipaggiate dai Cavalieri
dell'ordine pisano di Santo Stefano
- 12 galee dello Stato Pontificio, concesse dai veneziani ed armate ed equipaggiate a
spese del papa.
- 3 galee dei Cavalieri di Malta.
In totale 195 tra galee e galeazze.
Gli equipaggi erano scarsi e costituiti essenzialmente da cristiani volontari e forzati.
La penuria costrinse a mettere solo 3 uomini per remo.
La truppa era costituita da:
- 20.000 soldati a spese della Spagna;
- 5.000 militari al soldo di Venezia;
- 2.000 soldati pagati dallo Stato Pontificio;
- 3.000 volontari provenienti da tutta la Cristianità.
Complessivamente circa 30.000 uomini.
Sulle galee e sulle galeazze vennero imbarcati 1815 cannoni.
Le galee veneziane erano in buono stato, ma con pochi soldati. Don Giovanni d'Austria vi
fece imbarcare 4.000 soldati italiani e spagnoli.
La flotta cristiana salpò il 16 settembre dirigendosi verso Corfù. Le navi esploratrici
confermarono che la flotta turca era nei pressi del golfo di Lepanto.
I Turchi fin da febbraio avevano allestito una flotta di 250 galee e 100 navi da
rifornimento e supporto.
I costruttori delle galee erano abili carpentieri rinnegati, che il Sultano ricompensava
molto bene. Molti dei capitani delle navi erano anch'essi greci o veneziani rinnegati. Gli
equipaggi non avevano grande esperienza. I rematori erano cristiani catturati e ridotti in
schiavitù.
Il comandante della flotta era Mehemet Alì Pascià.
Parte della flotta andò a sostenere l'assedio di Famagosta a Cipro.
Un'altra parte della flotta si diresse verso Creta. 3.000 contadini cretesi furono uccisi.
Ma l'ammiraglio veneziano Marcantonio Querini riuscì a respingere l'attacco e i Turchi si
dovettero allontanare.
Veleggiarono verso Zante (odierna Zakynthos) e Cefalonia (odierna Kefallenia), dove
catturarono 7.000 cristiani e li misero a remare sulle loro galee.
Poi le galee turche si diressero verso l'Adriatico.
I Turchi si impadronirono di Durazzo (odierna Durres), Valona (odierna Vlore), Dulcigno
(odierna Ulcinj), Antivari (odierna Bar), Lesina (odierna isola di Hvar), attaccarono
Curzola (odierna isola di Korcula).
Intanto le 80 galee del corsaro Uluj Alì attaccarono Zara e altre città della Dalmazia.
Uluj Alì, chiamato anche Occhiali, era un pescatore calabrese rinnegato, divenuto dey di
Algeri.
Kara Hodja, un altro corsaro devastò il golfo di Venezia. Il rombo del cannone si udiva
da piazza S. Marco.
Anche Corfù, ad eccezione del castello, venne conquistata dai musulmani.
A giugno il sultano Selim II, detto "L'ubriacone", ordinò che la flotta si
fermasse a Lepanto (odierna Naupaktos; bizantina Epachthos) in una piccola baia tra il
golfo di Corinto e quello di Patrasso. Arrivarono i rinforzi da Negroponte (odierna isola
Eubea): 2.000 spahis e 10.000 giannizzeri.
La flotta divenne una minaccia permanente. Da Lepanto la flotta turca avrebbe potuto
attaccare la costa italiana in qualsiasi momento.
Il 5 ottobre la flotta cristiana si fermò nel porto di Viscando, non lontano dal luogo
della battaglia di Azio. C'era nebbia e un forte vento. Le galee non potevano prendere il
mare.
Un brigantino portò la notizia della caduta di Famagosta (in turco Famagusta; in greco
Ammocosthos) e dell'orribile fine inflitta dai musulmani a Marcantonio Bragadin, il
senatore veneziano comandante la fortezza.
Il 1° agosto i veneziani si erano arresi con l'assicurazione di poter lasciare l'isola di
Cipro. Mustafà Lala Pascià, il comandante turco che aveva perso più di 52.000 uomini
nell'assedio, non mantenne la parola. I soldati veneziani furono imprigionati e incatenati
ai banchi delle galee turche.
Venerdì 17 agosto Bragadin venne scorticato vivo di fronte ad una folla di musulmani
esultanti. La pelle di Bragadin venne riempita di paglia. Il manichino fu innalzato sulla
galea di Mustafà Lala Pascià insieme alle teste di Alvise Martinengo e Gianantonio
Querini. I macrabri trofei furono poi inviati a Costantinopoli, esposti nelle strade della
capitale ottomana ed infine portati nella prigione degli schiavi.
Il comportamento dei musulmani accrebbe la voglia di combattere dei cristiani.
I soldati della Lega Santa sapevano che la battaglia era decisiva per la Cristianità. In
caso di sconfitta le coste di Italia e Spagna sarebbero rimaste esposte agli attacchi dei
musulmani. L'Islam era pronto a colpire il cuore dell'Occidente. Roma era in pericolo.
Domenica 7 ottobre Giovanni d'Austria fece schierare le proprie navi in formazione
serrata. Non più di 150 metri separavano le galee.
Venne costituita una formazione a croce.
Al centro si pose Giovanni d'Austria con 64 galee. La sua nave ammiraglia era la Real. A
fianco si pose l'ammiraglia del comandante veneziano Sebastiano Venier, una cui nipote era
stata ridotta in schiavitù nell'harem di Costantinopoli. Sull'ammiraglia pontificia era
Marcantonio Colonna. Sull'ammiraglia di Savoia il conte Provana di Leynì. Sull'ammiraglia
di Genova Ettore Spinola. Due galeazze furono poste davanti al centro della flotta.
L'ala sinistra venne affidata principalmente ai veneziani sotto il comando di Agostino
Barbarigo. Al lato più estremo, più esposto ai tentativi di aggiramento, si pose
Marcantonio Querini. Davanti alle galee veneziane furono inviate due galeazze al comando
di Antonio e Ambrogio Bragadin, parenti del senatore scorticato vivo.
All'ala destra si schierarono galee e combattenti di diverse nazionalità, sotto il
comando del genovese Gian Andrea Doria. Erano presenti anche molti volontari tra cui
l'italiano Alessandro Farnese, il francese Crillon, l'inglese Sir Thomas Stukeley,
l'esiliato Giacomo IV, duca di Naxos. Due galeazze veneziane furono poste davanti al
settore sinistro.
La retroguardia venne posta sotto il comando di Santa Cruz con tre galee dei Cavalieri di
Malta.
I Turchi si disposero a mezzaluna.
Vennero schierate 274 navi da guerra, di cui 215 galee.
I musulmani avevano 750 cannoni.
Il centro turco, al comando diretto di Mehmet Alì Pascià, era costituito da 96 galee. Di
fronte ai veneziani era Muhammad Saulak, detto anche Maometto Scirocco, governatore
dell'Egitto, con 56 galee.
Uluj Alì, il rinnegato Occhiali, con 63 galee e galeotte, era di fronte a Gian Andrea
Doria, che a Tripoli era dovuto fuggire di fronte al corsaro.
Una forte riserva, comandata da Amurat Dragut, era dietro la linea delle galee turche.
Mehmet Alì Pascià era a bordo della Sultana, su cui sventolava il vessillo verde su cui
era stato scritto 28.900 volte a caratteri d'oro il nome di Allah.
La battaglia di Lepanto quadro di scuola Venenziana
La flotta cristiana riuscì a concentrarsi a Messina alla fine di agosto del 1571. Presto, se si considera la difficoltà che dovettero superarsi; troppo tardi, secondo i più prudenti tra i condottieri cristiani: Requesens, inviato personale di Filippo II, e Gian Andrea Doria consigliavano di limitarsi a un atteggiamento difensivo; nello stesso senso scriveva da Pisa don Garcia de Toledo. "Ma don Giovanni prestò ascolto soltanto ai capi veneziani e a quei capitani spagnuoli della sua cerchia che insistevano per l'azione; e, presa la decisione, si dedicò al compito con l'ardore esclusivo del suo temperamento" (17). In effetti, fu la sua energia, sostenuta dal fascino della sua personalità e dalla naturale attitudine al comando, a soffocare sul nascere riaffioranti contrasti tra capitani e tra equipaggi. Fu la sua volontà a perseguire lo scontro, andando a cercare l'armata nemica. Furono, poi, il suo coraggio e il suo valore militare a giocare un ruolo molto importante nella battaglia stessa. Così, la flotta cristiana andò a cercare quella turca, la quale, dopo essersi spinta fino a metà Adriatico, era rientrata a Lepanto, per imbarcare nuovi equipaggi e nuovi viveri. La flotta cristiana era composta da duecentootto galee, quella turca da duecentotrenta. Centodieci galee avevano comandanti veneziani, anche se, per la scarsezza di uomini, gli equipaggi erano stati rinforzati con truppe provenienti dagli Stati spagnoli, in specie per il settore degli archibugieri. Trentasei provenivano da Napoli e dalla Sicilia; ventidue da Genova, al comando del Doria; ventitré dagli Stati pontifici e da