Le vicende di Genova, il Regno di Spagna e l’Italia durante il 1600 - 1750

GLI ULTIMI MEDICI - GENOVA NEL XVII SEC.
( 1608 - 1737 ) - - - - - - - - - - (1628-1685 )


COSIMO II - SUA POLITICA - IMPRESE DI DACOPO INGHIRAMI CONTRO I TURCHI - MORTE DI COSIMO II - REGGENZA - FERDINANDO II - TRISTE STATO DELLA TOSCANA - COSIMO III - SUO MATRIMONIO CON MARGHERITA D'ORLÉANS - SUOI FIGLI - CONTESE PER LA SUCCESSIONE MEDICEA - LA CASA DI LORENA DESIGNATA A RACCOGLIERE LA SUCCESSIONE DEI MEDICI - MARTE DI COSIMO III - GIAN GASTONE, L'ULTIMO GRANDUCA DELLA CASA DEI MEDICI -- GENOVA NEL SECOLO XVII - CONGIURA DI G. C. VACHERO - CONGIURE DI G. PAOLO BALBI E GABRIELLO DELLA TORRE - GUERRA TRA GENOVA E CARLO EMANUELE II - GENOVA E LUIGI XIV
------------------------------------------------------------------------------

GLI ULTIMI MEDICI: COSIMO II, FERDINANDO II, COSIMO III, GIAN GASTONE

Il successore di FERDINANDO I de' Medici, che -come nelle altre pagine precedenti abbiamo accennato- morì nel 1608, fu COSIMO II 18enne.
Cosimo nato a Firenze nel 1590, era fornito di una discreta cultura, avendo avuto come maestri il Galilei, Giambattista Strozzi e Celso Cittadini; ma mancava di energia e non aveva la stoffa dell'uomo politico, tant' è vero che lasciò alla madre, alla moglie e al ministro CURZIO PICHENA gli affari del governo, e quando lui volle prender l'iniziativa in qualche trattativa politica fallì.

Sapendolo ricchissimo, la Spagna cercava di farselo amico per aggiogarlo alla sua politica di predominio e sarebbe riuscita nel suo intento se i ministri del Granduca, temendo di inimicarsi la Francia, non avessero vigilato e saputo abilmente destreggiarsi.

Tuttavia Cosimo II e i suoi ministri non seppero continuare la politica di indipendenza dalla Spagna che era stata adottata da Ferdinando I, del quale invece imitarono la politica favorevole ai Gonzaga, non accorgendosi che i tempi erano mutati e che alla Toscana conveniva stringere amicizia col duca di Savoia e assecondarne i disegni. Difatti andarono a monte le trattative tra Savoia e Medici per combinare un matrimonio tra VITTORIO AMEDEO, figlio di Carlo Emanuele I, e una principessa toscana, e nel 1612, alla morte di Francesco Gonzaga, il governo granducale si adoperò con la Spagna, con la Francia e con Venezia perché fosse riconosciuto il cardinale Ferdinando Gonzaga duca di Mantova, osteggiando le aspirazioni del duca sabaudo, il quale sosteneva che la successione spettava alla nipote Maria.

Questa politica, che andava a tutto beneficio della Spagna, mise in urto tra loro le corti di Firenze e di Parigi. I dissapori crebbero talmente che LUIGI XIII ordinò al residente toscano di allontanarsi entro tre giorni da Parigi ed entro due settimane dal territorio francese; e fu solo per la mediazione del duca di Lorena, sollecitata da Cosimo II, che i rapporti tra la Francia e la Toscana ritornarono cordiali.

Dove l'azione del governo granducale si dimostrò veramente energica ed efficace fu nella difesa delle coste italiane contro i barbareschi. Non riuscì, è vero, a Cosimo II di pacificare la Spagna e la Francia e di stringere in lega contro il Turco tutte le potenze cristiane, ma seppe dare tale impulso alla sua marina da guerra da renderla temutissima in tutto il Mediterraneo.

Affidata all'Ordine di Santo Stefano, ammiraglio della sua flotta era il marchese JACOPO INGHIRAMI di Volterra, che nella sua gioventù aveva partecipato alle guerre civili di Francia militando negli eserciti della Lega Santa. Diventato capo della marineria toscana, non solo aveva reso sicure le coste tirreniche dalle incursioni barbaresche, ma si era più volte spinto nei mari di Levante a molestare i Turchi con alcuni successi, ritornandone con schiavi e ricche prede.

Nel maggio del 1613, l'Inghirami, recatosi nelle acque della Caramania, assalì la fortezza di Akliman, situata di fronte a Cipro, la espugnò, la saccheggiò, la bruciò, e dopo una battaglia accanita si impadronì di due galee capitane della Guardia turca di Cipro; catturò poi altre navi mercantili e ritornò in Italia con ingente bottino, con trecento schiavi musulmani e con duecentoquaranta cristiani liberati dalla schiavitù.

Il governo di Cosimo II va ricordato per i lavori del porto di Livorno, che, interrotti sotto Cosimo I e Ferdinando I, furono da lui ripresi. Fu modificato però il progetto di Bernardo Buontalenti perchè, essendo troppo grandioso, richiedeva una spesa enorme, e il porto, rimpicciolito, risultò più utile, nelle nuove proporzioni, alla difesa ma non è che pregiudicò le esigenze commerciali della nuova città avviata a un grande futuro.

COSIMO II cessò di vivere il 28 febbraio del 1621 dopo dodici anni circa di regno. Siccome non aveva che un figlio decenne, FERDINANDO II, Cosimo II affidò la Reggenza alla madre Cristina di Lorena, e alla moglie Maria Maddalena, ordinando per testamento che le coadiuvassero nel disbrigo degli affari di Stato l'arcivescovo di Pisa Giuliano de' Medici, il conte Orso d' Elci, Niccolò dell'Antella e il marchese Fabrizio Colloredo, che ebbero come segretari Curzio Pichena ed Andrea Cioli.

Sotto il governo della Reggenza la Toscana venne ridotta in deplorevoli condizioni. Di questo governo fa una vivace rappresentazione il Callegari, da noi parecchie volte citato: « Le reggenti non tennero conto di quello che Cosimo aveva stabilito nel suo testamento, che cioè non si attribuissero impieghi a nessun straniero, che non vi fossero alla corte confessori, se non francescani; e che con il tesoro ducale non si concedessero prestiti od imprese mercantili. La corte invece si riempì di lusso, di intrighi, di frati, di chiacchiere teologiche; si profusero titoli di duca e marchese fino a persone di servizio, e col trafficare dei grani della Maremma Senese si rovinò quella provincia. Cominciarono subito le rappresaglie, le vendette e le prepotenze; gli antichi ministri furono sbalzati dalle loro cariche per cedere il posto a maldestri favoriti del nuovo governo; i frati si insinuarono nel favore e nell'amministrazione dello Stato; la vanità, trasformata sotto il manto della pietà e della convenienza, accrebbe la profusione alla corte a tal punto che, consumati i risparmi fatti da Cosimo, si dovette ricorrere all'erario pubblico.

Il male, che serpeggiava alla corte sotto la Reggenza, si estese e portò i suoi negativi effetti in tutto lo Stato toscano. Erano cresciute le gabelle, divenute un vero flagello per il contribuente; gravi tasse si dovevano pagare per i contratti di ogni genere; i magistrati dell' abbondanza facevano traffico nei grani arricchendosi così sulla miseria; il Monte di Pietà, che doveva essere il soccorritore degli orfani e delle vedove, cominciò a prestar denari alla Spagna, ricevendone in cambio mercanzie, così che divenne banco e negozio e concentrò i capitali, rovinando con il suo monopolio ogni altro traffico.

Macchinose procedure e sconsiderati divieti impacciavano ogni cosa; era indicato dalla legge quali piante si dovessero coltivare, dove vendere le proprie derrate. In questo modo cessava il commercio, languivano le manifatture, la terra non produceva, rovinavano le famiglie e molti o per miseria o per vizio si gettavano alla campagna. Crebbero le file dei bravi, incoraggiati dalle stesse leggi con le frequenti immunità ed asili.
Ad accrescere la confusione e il disordine nello Stato concorrevano anche le intemperanze e le esigenze degli ecclesiastici, che sollevavano le proprie pretese giurisdizionali fino al punto da attribuire a sé il diritto di pronunciare ogni giudizio, introducendo con artificio in qualunque controversia la causa ecclesiastica, lanciando monitori e scomuniche, e considerando la corte di Toscana come il semplice esecutore degli ordini di Roma. Aggiungi a questo un eccessivo numero di frati, che inondavano lo stato e che, segretamente spronati da Roma, andavano spargendo dottrine sediziose contro il governo, e con il loro esempio animavano i sudditi a violare le leggi. Il favore, che alcuni di essi godevano alla corte e il predominio già da allora acquistato nell'opinione pubblica, li rendevano invulnerabili di fronte alle leggi, mentre con il condurre una vita dissoluta davano al mal costume un incitamento maggiore..."" (Callegari).

Quando FERDINANDO II uscì dalla minore età, non riuscì a sottrarsi alla volontà della madre e dell'ava, tuttavia cercò di porre un rimedio ai mali che il tristo governo della Reggenza aveva arrecato alla Toscana e con la sua bontà e pietà presto si guadagnò l'affetto dei sudditi che lo videro prodigarsi con grande abnegazione durante la peste del 1630.

Ferdinando avrebbe operato volentieri sagge riforme, ma le condizioni politiche dell' Europa e specie dell'Italia lo costrinsero a dedicare la maggior parte della sua attività alla difesa dello stato. Quanto a politica estera egli non seppe fare meglio che destreggiarsi tra la Spagna e la Francia e si mostrò deciso soltanto quando, preoccupato dello spirito aggressivo di URBANO VIII, si alleò con Venezia e con Modena in difesa di ODOARDO FARNESE.

Eccettuato quest'atto di risolutezza, tutta l'azione politica di Ferdinando II ha per caratteristica l'indecisione e la debolezza, specie nei riguardi della Santa Sede. Egli non seppe né volle porre un freno all' ingerenza del clero, che nei suoi stati si era fatta grandissima, e subì senza mai ribellarsi la volontà prepotente del Sant' Ufficio. Quando GALILEO GALILEI, chiamato a Roma da URBANO VIII, invocò la protezione del granduca, nulla questi fece per aiutarlo, lo esortò anzi ad ubbidire alle autorità ecclesiastiche. Allo stesso modo non andò in soccorso di MARIANO ALIDOSI che nel 1631 consegnò al tribunale dell' Inquisizione, dimenticando l'esempio datogli dal padre Cosimo II, il quale nel 1606 aveva ordinato la scarcerazione di Rodrigo Alidosi, padre di Mariano, imprigionato dal Sant' Ufficio, e nel 1616 si era rifiutato di riconsegnarlo.

Nonostante la sua debolezza e il suo remissivo ossequio alla volontà della madre e dell'ava, Ferdinando II riuscì a correggere parecchi abusi di governo e a introdurre nell'amministrazione pubblica una benefica economia, e sebbene grande fosse il potere che sulla moglie e sulla madre esercitava il clero, accettò le dottrine galileiane, protesse l'Accademia del Cimento favorendola nei suoi importanti esperimenti e, calcando le orme dell'avo, fu prodigo di aiuti ai letterati e agli scienziati, dando incremento alle tre università del granducato e contribuendo all'erezione del gabinetto di fisica e al museo di Boboli.
FERDINANDO II visse fino al 1670, nel quale anno gli successe sul trono il figlio COSIMO III. Con lui le condizioni della Toscana peggiorarono perché il nuovo granduca era inetto al governo e, siccome era largo nello spendere e gli piaceva condurre una vita fastosa, per procurarsi i mezzi necessari vendeva le cariche pubbliche, inaspriva i tributi e creava nuove imposte che dissanguavano i sudditi. Come sotto il governo paterno così sotto il suo la corte era piena di frati intriganti e di preti. Cosimo faceva grande ostentazione della sua religiosità non solo dedicando gran parte del suo tempo ai pii esercizi, che contrastavano stranamente con il fasto eccessivo, ma facendo generose offerte a santuari, favorendo la fondazione di conventi e dotando a spese dello stato le pie istituzioni.

Nel 1661 egli aveva sposata MARGHERITA d'ORLEANS. Fu questo un matrimonio infelice perché la giovane sposa, colta e vivace, non potendo sopportare la compagnia di un uomo così orgoglioso, poco socievole e bigotto, finì con il ritornarsene in Francia e chiudersi nel monastero di Montmartre, dove più tardi uscì per darsi ai giuochi, ai balli e ad altri svaghi mondani.

Dal suo matrimonio Cosimo ebbe tre figli, Ferdinando, Gian Gastone ed Anna Maria Luisa. Quest'ultima sposò l' Elettore Palatino Giovanni Guglielmo; Ferdinando si unì con Violante Beatrice di Baviera, Gian Gastone condusse in moglie ANNA MARIA FRANCESCA di Sassonia Lawerburg. Ma nessuno di questi matrimoni riuscì fecondo, né lo fu quello del cardinale FRANCESCO MARIA de' Medici, fratello di Cosimo, con la giovane ELEONORA, figlia di Vincenzo Gonzaga duca di Guastalla, che forse non riuscì mai vincere la sua ripugnanza per il vecchio marito.
Morti il fratello e il primogenito Ferdinando, COSIMO III stabilì che se si estinguessero tutti i suoi congiunti di sesso maschile la corona di Toscana sarebbe passata sul capo della figlia ANNA MARIA. Il decreto granducale sulla successione medicea ebbe l'immediata ratifica del senato. Più di uno erano i pretendenti alla successione medicea: vi erano gli Estensi, vi erano i Farnesi e vi era la Francia, la quale vantava diritti sulla Toscana in forza dei matrimoni di Caterina e di Maria de' Medici; bisognava inoltre fare i conti con l'imperatore CARLO VI, interessato alla successione in virtù dei diritti feudali. Carlo VI fece sapere a Firenze che la scelta di Anna Maria, elettrice di Sassonia, era di suo gradimento, ma che, essendo senza prole, era necessario -d'accordo con lui- di regolare meglio l'eredità. Si avviarono pertanto negoziati tra il granduca e l' imperatore, e Cosimo III scelse come erede, dopo la morte dell'elettrice, la casa estense alle seguenti condizioni: Il granducato di Toscana e il ducato di Modena formerebbero un solo stato, sotto un medesimo sovrano residente a Firenze; gli Estensi difenderebbero sempre e contro tutti la libertà e l' indipendenza del dominio fiorentino; il successore non muterebbe la costituzione del governo toscano, conserverebbe al senato di Firenze le prerogative e alle città del dominio gli antichi privilegi; i debiti pubblici sarebbero a carico del successore; infine l'ordine di successione si stabilirebbe con atto solenne, per diritto di primogenitura, escluse le donne.

La corte estense accettò le condizioni imposte da Cosimo III e per ottenere l'adesione di Carlo VI la duchessa di BRUVSNICK, madre della moglie del duca Rinaldo di Modena e dell'imperatrice, si impegnò di scrivere alla figlia. Però le cose si fermarono lì perché nell'accordo di Londra del 2 agosto 1718, stipulato tra l'impero, la Francia e l'Inghilterra, si stabilì di riservare la successione al ducato di Parma e Piacenza e al granducato di Toscana, dichiarato feudo imperiale, all' infante di Spagna don Carlo.

Il 31 ottobre del 1723, dopo cinquantatrè anni di regno, moriva in età di settantun anno COSIMO III, lasciando il paese in tristissime condizioni, e gli succedeva il figlio GIAN GASTONE, il quale, appena salito al trono, dichiarò che non accettava per erede l'infante di Spagna, chiese per mezzo dell'ambasciatore Neri Corsini alle potenze firmatarie dell'accordo di Londra che revocassero ciò che avevano disposto per la successione medicea e protestò altamente per la violenza che si voleva commettere ai danni della Toscana.

Richiesta e protesta furono vane. Allora Gian Gastone, consigliato dal domenicano ASCANIO, si accordò direttamente con la corte spagnola, riconoscendo come erede don Carlo a condizione che questi mantenesse la costituzione della Toscana; ma l' imperatore, minacciandolo di guerra, lo costrinse a rispettare i trattati conclusi dalle potenze e il granduca, cedendo alla forza, protestò ancora dichiarando tuttavia che accettava le decisioni altrui ma solo perché ne era forzato.

Ma l'ultima parola per la successione medicea non era stata ancor detta. Nell'ottobre del 1735 tra Francia ed Austria si concludevano i preliminari di pace in cui si stabiliva che don Carlo - il quale era già stato investito del regno di Napoli - avrebbe conservato lo stato dei Presidii rinunciando ai suoi diritti sulla Toscana; che Livorno sarebbe stato dichiarato porto franco; e finalmente che il granducato Mediceo, morto Gian Gastone; sarebbe passato a FRANCESCO STEFANO di LORENA.

Sedici mesi dopo, il 24 gennaio del 1737, l' imperatore disponeva che, all'estinzione della famiglia dei Medici, il granducato passasse sotto la sovranità del Lorenese e dei suoi discendenti maschi per ordine di primogenitura. In mancanza di prole maschile la Toscana doveva essere ereditata dal fratello Carlo e, morendo questi senza eredi maschi, sarebbe passata al ramo femminile della casa di Lorena.

Il 9 luglio dello stesso anno, moriva Gian Gastone, principe colto, ma dissoluto, che aveva lasciato il governo all'arbitrio di un prepotente libertino, il DANI, ed aveva sperperato il denaro dello Stato in gioielli, oggetti d'arte e nelle sue dissolutezze. Con lui s'estingueva la famiglia dei Medici, che a Firenze prima e in quasi tutta la Toscana poi per oltre tre secoli aveva esercitato il suo potere. Dal ritorno dei Medici in Firenze, dopo la caduta della repubblica, alla morte di Gian Gastone erano passati due secoli e sei anni.

CONGIURA DEL VACHERIO, DEL BALBI E DELLA TORRE GUERRA TRA GENOVA E CARLO EMANUELE II - GENOVA E LUIGI XIV

Da cinquant'anni durava a Genova la pace stabilita nel 1576 per opera del Pontefice, dell' Imperatore e della Spagna, ma pareva che quel non breve periodo di quiete accennasse a finire e dovessero avere inizio nuovi torbidi. Lo si poteva prevedere da un sordo malcontento che serpeggiava nella cittadinanza, fra cui non pochi erano quelli i quali si lamentavano della scarsa e ingiusta applicazione dei patti della pace ed erano parecchi quelli che con uno smodato desiderio di comando erano spinti ad agitare le acque.

Capo di questi era GIULIO VACHERIO, il quale, per mezzo del genovese GIOVANNI ANTONIO ANSALDO che dimorava in Torino, offrì a CARLO EMANUELE I la signoria di Genova a condizione che fornisse aiuti ai malcontenti. Il duca di Savoia che si trovava allora in guerra con Genova promise al Vacherio di aiutarlo nella sua impresa, ma, conclusa più tardi una tregua con la città nemica, non pensò più a mantenere i rapporti con i cospiratori.

Questi però non abbandonarono i loro propositi, anzi, temendo che gli indugi potessero portare alla scoperta della congiura, stabilirono di metterla in atto il 1 aprile del 1628 uccidendo il doge e i senatori; ma non fecero in tempo, perché FRANCESCO BODINO, complice del Vacherio, tradì la causa dei congiurati, rivelando al governo della repubblica le loro intenzioni. Alcuni dei cospiratori riuscirono a fuggire, ma il Vacherio ed altri vennero presi e condannati alla pena capitale, dalla quale cercò di salvarli Carlo Emanuele I con la minaccia di uccidere i prigionieri genovesi che aveva dentro le sue carceri. Ma Genova non si lasciò intimorire dalle minacce del duca, che poi non furono effettuate, e fece eseguire la, sentenza, quindi il governo, per prevenire ogni, tentativo contro la repubblica, creò sei Inquisitori di Stato cui affidò il compito di vigilare alla sicurezza pubblica e di giudicare tutte le persone sospette di intrighi ai danni della città.

La severità usata contro il Vacherio e i nobili se diede del respiro alla città non fece però cessare il malcontento, accresciuto dalle risvegliate rivalità tra la vecchia e la nuova nobiltà, che nel 1650 diedero luogo a nuove agitazioni. La repubblica era in quel tempo in trattative con la Spagna per l'acquisto di Pontremoli, e il senato genovese per raccogliere la somma necessaria aveva escogitato di vendere fra i nobili del Portico Vecchio l'iscrizione di nuove famiglie nel patriziato. L'acquisto non riuscì aver luogo per l'opposizione del granduca di Toscana; ma quelli del Portico Nuovo si offesero per le decisioni del Senato e non mancarono di esprimere il loro sdegno, aizzati da un certo GAN PAOLO BALBI, che oltre all' audacia non era privo del fascino della parola.

Gli inquisitori di stato ritenendolo pericoloso, lo mandarono in esilio; e Balbi si illuse di avere più libertà per lavorare contro la repubblica; ma i suoi tentativi di rovesciare il governo di Genova per mezzo di potentati stranieri non riuscirono, perché la Spagna, da lui sollecitata, si rifiutò di intervenire e il cardinale Mazarino, richiesto di aiuti, fece capire che li avrebbe dati ma a patto d'imporre poi su Genova la sovranità della Francia. Scoperte gli intrighi del Balbi, molti suoi complici vennero arrestati e condannati a morte. Molto più importante fu la congiura tramata una ventina d'anni dopo da RAFFAELLO DELLA TORRE perchè condusse ad una guerra tra Genova e il duca di Savoia. Il Della Torre aveva sciupato tutto il suo patrimonio nel lusso e nelle crapule. Carico di debiti, nel 1671 con una gruppo di scapestrati aveva assalito una feluca genovese piena di merci diretta a Livorno. Per questo reato era stato condannato alla pena capitale alla quale si era sottratto fuggendo a Torino. Lui sapeva che regnavano dissidi tra Genova e il duca di Savoia per ragioni di confine e sapeva anche che CARLO EMANUELE II, non potendo facilmente comunicare con Nizza ed Oneglia, aspirava al possesso di Savona o di Genova; recatosi quindi dal duca, entrò nella sua fiducia e lo mise a parte di un suo disegno che aveva lo scopo di togliere la libertà alla repubblica.

Il Della Torre assicurava di disporre di due o tremila uomini armati con i quali non gli sarebbe riuscito difficile di penetrare a Genova perché il capitano di una delle porte era d'accordo con lui, e di trarre a ribellione la città in cui contava molti aderenti; e proponeva a Carlo di offrirgli la sovranità di Genova e il possesso di Savona a condizione però che lo aiutasse nell'impresa con duemila fanti e mille cavalli. Carlo Emanuele si lasciò convincere dalle lusinghevoli parole del fuoruscito e, persuaso che non avrebbe avuto noie da parte della Spagna e della Francia, stabilì con lui un accordo con il quale si dichiarava pronto a concorrere all'impresa con un reparto di fanteria e di cavalleria e a stringere una lega offensiva e difensiva con Genova purché gli fossero consegnati la città, il territorio, il porto e il castello di Savona.

Raffaello Della Torre provvisto di denari dal duca assoldò avventurieri nelle campagne di Piacenza e Parma e stabilì di tentare il colpo di mano la notte precedente alla festa di San Giovanni Battista per trarre profitto dalle grandi feste che i Genovesi solevano celebrare in onore del Santo Protettore della repubblica. Con i suoi armati doveva penetrare in città per la porta delle mura di San Simone, espugnare di sorpresa poi quella dell'Aquassola, liberare i carcerati, impadronirsi delle armi e delle munizioni, far saltare il palazzo della città e rendersi padrone dello stato. Mentre il fuoruscito faceva i suoi preparativi, Carlo Emanuele con il pretesto di dare il cambio ad alcune guarnigioni di confine, concentrava truppe a Saliceto. Queste, quando furono pronte, marciarono su Savona, ma giunte a poca distanza dalla città seppero che la congiura di Gabriello della Torre era stata scoperta, e che la repubblica aveva rinforzato il presidio della terra e le guarnigioni di tutti i posti di confine.

Allora l'esercito ducale fu diviso in due schiere: una, al comando di don GABRIELE di SAVOIA fu mandata a sostenere il suo presidio di Oneglia, l'altra guidata dal conte CATALANO ALFIERI fu incaricata di procedere all'occupazione del marchesato di Zuccarello, del quale da un secolo si contendevano il possesso la casa Savoia e Genova.

Quest'impresa si risolse in un disastro per le armi sabaude, che a Castelvecchio vennero disastrosamente sconfitte e lasciarono sul campo ottocento morti, tra cui il conte della Trinità, i marchesi del Carretto e della Pieve, i conti Morozzo e Piossasco e il cavaliere Carlo Benso di Cavour, e oltre millecinquecento prigionieri nelle mani del nemico.

Bramoso di prendersi la rivincita e di liberare Oneglia, Briga e Prinaldo, che erano ora cadute in potere della repubblica, Carlo Emanuele II fece grandi preparativi di guerra e, sceso di nuovo in campo, riprese Oneglia e tolse ai Genovesi Ovada. Dopo questi due successi iniziarono trattative tra i due stati belligeranti e nell'autunno del 1672 si concluse una tregua, mutata più tardi in pace, con la quale furono reciprocamente restituiti i prigionieri e i luoghi occupati.

Ma la guerra col duca di Savoia fu nulla in confronto a quella che di lì a non molti anni Genova doveva sostenere contro il prepotente LUIGI XIV. Questi era mosso ad agire contro la repubblica sia dal risentimento in lui prodotto dagli aiuti che aveva prestati all'Austria, sia dal desiderio di impadronirsi di una città che in altro tempo era stata della Francia e che per le sue ricchezze e per la sua posizione faceva enormemente gola al monarca francese.

Tutti i pretesti possibili furono cercati da Luigi XIV per muovere guerra alla repubblica: una vertenza sorta perché a Genova era stata armata una nave olandese la si compose con l' intervento del Papa e del re d'Inghilterra; un'altra, provocata dal mancato saluto delle artiglierie genovesi alle navi di Francia, ebbe per conseguenza l'ordine del re di cannoneggiare S. Remo e S. Pier d'Arena.

Non contento di queste provocazioni, Luigi XIV chiese che gli si permettesse di stabilire un magazzino di sale a Savona, poi mandò in Genova come ambasciatore, con il compito di far nascere incidenti, il marchese di Sant'Olon, che si comportò con tanta insolenza da costringer la repubblica a chiedere il suo richiamo a Parigi; infine pretese che Genova restituisse a un Fieschi i beni confiscati alla famiglia.

Il contegno della Francia era così provocatorio che i Genovesi stimarono opportuno di prepararsi a respingere possibili offese provvedendosi di armi e mettendo in assetto di guerra 4 galee. Ed era quello che aspettava il re di Francia, infatti questi intenzionali preparativi vennero considerati come casus belli. Luigi XIV mandò nelle acque di Genova il Dusquesne e il marchese di Seignelay con una flotta di quattordici vascelli, tre fregate, venti galee, dieci palandre per gettar bombe e parecchie altre navi minori. Sotto la minaccia di bombardare la città se entro cinque ore non obbediva alle richieste del re, il comandante dell'armata chiese che fossero consegnate le quattro galee e che quattro Senatori andassero a domandar perdono al sovrano in Versailles e a promettergli obbedienza.

Genova, sebbene non avesse mezzi adeguati alla difesa, non volle piegarsi e sopportò con superba fermezza il furioso bombardamento francese che gli provocò rilevanti danni. Tredicimila bombe vennero lanciate sulla città e il tiro delle artiglierie cessò solamente quando furono esaurite le munizioni (29 marzo 1684).

Allontanatasi la flotta francese, Genova in previsione di un nuovo furioso assalto, che probabilmente avrebbe distrutto l'intera città, inviò a Madrid GIAN ANDREA SPINOLA perchè inducesse la Spagna a formare una lega contro la Francia; ma l'ambasciatore non ottenne nulla e la repubblica, abbandonata da tutti, fu dolorosamente costretta a sottoscrivere a Versailles il 12 febbraio del 1685 un trattato di pace con il quale accettava di mandare dal re il doge e quattro senatori a chiedere scusa, di ridurre il suo naviglio, di rinunziare a tutte le leghe strette dopo il 1683, di pagare ai Fieschi centomila scudi e di indennizzare i sudditi francesi (di pagare insomma a Luigi XIV le 13.000 bombe che l'avevano distrutta).

Peggio di così Genova non poteva finire. Da questa data ebbe inizio il suo declino. Entrarono in crisi due importanti settori economici: l'attività armatoriale e l'industria della seta, mentre le rimanenti attività commerciali in larga misura furono gestite da stranieri. Con il crollo demografico (già drammaticamente iniziato con la peste di pochi anni prima, del 1656-1657) per due secoli la stessa struttura urbanistica della città non subì modifiche rilevanti. Fallita la scelta neutralista, si accentuarono i legami politici-diplomatici con la Francia, la cui influenza crebbe nel corso del XVIII secolo, fino alla formazione della Repubblica ligure (1797), unita all'impero napoleonico nel 1805. Ma anche la successiva annessione al regno di Sardegna non portò alla sperata ripresa economica, provocando invece un diffuso malcontento che proprio in queste contrade si espresse poi con l'adesione ai ben noti moti mazziniani; che non trattiamo ovviamente qui, ma in altri riassunti del XIX secolo.

CONGIURE E SOLLEVAZIONI CONTRO LA SPAGNA ( 1623 - 1680 )

CONGIURA DEL DUCA D' OSSUNA - CONGIURA DI GIULIO GENUINO - FRA TOMMASO PIGNATELLI - GIOVANNI OREFICE - TENTATIVO DI TOMMASO DI SAVOIA D'IMPADRONIRSI DEL REGNO DI NAPOLI -LA RIVOLUZIONE NAPOLETANA DEL 1647 - MASANIELLO - SOLLEVAZIONE DI AQUILA - MORTE DI MASANIELLO - FRANCESCO TORATTO - SPEDIZIONE DI DON GIOVANNI D'AUSTRIA CONTRO NAPOLI - GENNARO ANNESE - IL DUCA DI GUISA - CAMILLO TUTINI E L'INSURREZIONE NAPOLETANA DEL 1649 - RIVOLUZIONE DI PALERMO - NINO LA PELOSA - GIUSEPPE D'ALESSI - CONGIURA DEL VAIRO - CONGIURE DI GABRIELLO PLATENELLA, DI PIETRO MILANO, DI FRANCESCO FERRO, DI ANTONINO LO GIUDICE E GIUSEPPE PESCE - RIVOLUZIONE DI MESSINA - I MESSINESI CHIEDONO AIUTO ALLA FRANCIA - LUIGI XIV ABBANDONA MESSINA - REAZIONE SPAGNOLA
--------------------------------------------------------------------------

Abbiamo parlato in un altro capitolo delle insurrezioni e delle congiure che ebbero, luogo nel secolo XVI nel Napoletano e nella Sicilia; parleremo ora di quelle ben più numerose e più gravi del Seicento. La storia delle congiure contro la Spagna nel secolo XVII si apre registrando un nome illustre e spagnolo per giunta : duello di don PEDRO TELES GIRON, duca d' OSSUNA, uomo duro ed energico, che fu per qualche tempo vicerè di Napoli.

Questi, finito il suo periodo di governo, per l'odio che nutrivano verso di lui i gesuiti, i nobili del regno e parecchi potenti personaggi perfino spagnoli come lui, tra cui il conte d' OLIVARES, venne richiamato in patria. Fidando nel favore del popolo, che aveva saputo guadagnarsi ribassando il prezzo del pane, e approfittando del difficile momento politico che la sua nazione attraversava, il duca concepì l'idea di far ribellare i Napoletani contro la Spagna.

Fece pertanto pratiche con la repubblica di Venezia, col duca di Savoia e con la Francia, proponendo alla prima di consegnarle alcuni porti dell'Adriatico se gli avesse fornito l'aiuto della flotta e qualche migliaio di soldati. Il senato veneto però si rifiutò di favorire il piano di un uomo che, come avremo occasione di dire, aveva tramato ai danni di Venezia, e consigliò Carlo Emanuele di non fidarsi dell'Ossuna. Il duca di Savoia (lo abbiamo conosciuto nella sua biografia) come al solito non ascoltò i consigli della repubblica veneta e continuò le pratiche insieme col Lesdiguières, il quale agiva per conto del re di Francia. Il disegno del duca d'Ossuna non riuscì mai ad esser messo in esecuzione. Sia che gli mancasse il coraggio, sia che credesse di non poter fare grande assegnamento sull'aiuto del popolo napoletano, sia anche perché sospettava che la corte di Parigi avesse avvisato quella di Madrid, di modo che il vicerè non seppe risolversi ad agire, anzi inviò al suo sovrano un messaggero per assicurarlo della sua fedeltà e per accusare come autore della congiura il duca di Savoia (che per le note vicende già narrate, alcuni a Parigi già si fidavano poco di lui).

Delle indecisioni del duca d'Ossuna approfittò il cardinale BORGIA, andato a sostituirlo nella carica di vicerè: egli riuscì a penetrare di notte nel castello senza che l'Ossuna si accorgesse di nulla. Quando le artiglierie diedero l'annunzio alla città dell'arrivo del nuovo governatore era troppo tardi per opporsi. Al duca non restò che di partire, pronunciando gravi minacce all' indirizzo del Borgia, il quale non ne tenne gran conto e facilmente riuscì ad avere ragione della plebe, che guidata da GIULIO GENUINO, tumultuava non volendo far partire l'ex-vicerè.

Alcuni anni dopo, essendo vicerè il cardinale ZAPPATA (1622), il popolo napoletano nuovamente si sollevò spinto dalla carestia. Il moto assunse l'aspetto di una certa gravità e costrinse il cardinale a cercare rifugio qua e là, presso l'arcivescovo e nella certosa di S. Martino, ma alla fine la rivolta in qualche modo fu sedata i promotori furono appesi alle forche.

Di un altro moto contro il governo spagnolo fu capo un frate calabrese, GIOVANNI FRANCESCO PIGNATELLI, un discepolo del Campanella (lo abbiamo conosciuto nelle precedenti ribellioni) dal quale aveva appreso ad odiare i dominatori stranieri. D'accordo con Antonio Maria Pepe, Giuseppe Grillo, Michele Cervelloni e Pompeo Mazza, aveva progettato di impadronirsi del Castello di Napoli per mezzo di alcuni albanesi vestiti da frati, di uccidere l'arcivescovo e il vicerè e di spingere il popolo alla rivolta. Ma uno dei congiurati, il Mazza, lo tradì. Il 18 settembre del 1634 fu dichiarato reo di lesa maestà e sconsacrato e il 28 fu consegnato alla giustizia; il 3 ottobre fu contro di lui pronunciata la sentenza capitale, la quale, anziché nella piazza del Mercato, per intercessione della viceregina venne eseguita nel carcere.

Date le condizioni del Napoletano e gli odi che dividevano le classi, queste congiure erano naturalmente destinate al fallimento. Aspetto più minaccioso e probabilità di successo ebbero invece quando vennero aiutate o dirette da potenze straniere e italiane in lotta con la Spagna.

Dopo il trattato di Rivoli dell' 11 luglio del 1635 tra Vittorio Amedeo I di Savoia, Luigi XIII di Francia, i Gonzaga e i Farnesi, centro di tutti i moti contro la Spagna divenne Roma perché allora era Pontefice URBANO VIII che all'odio contro gli Spagnoli veniva aizzato dai suoi nipoti, il cardinale FRANCESCO ed ANTONIO BARBERINI.

Vittorio Amedeo mandò a Roma il cardinale MAURIZIO di SAVOIA, suo fratello, il quale, insieme col conte GIAMBATTISTA MOMTALBANO, cominciò a lavorare attivamente per fiancheggiare con una azione nel Napoletano la lega di Rivoli. Scopo era quello di cacciare gli Spagnoli dall' Italia, le cui spoglie avrebbero dovuto esser divise tra il duca di Savoia che avrebbe avuto il regno di Napoli, il Gonzaga cui sarebbe stato dato Milano, e il Farnese che avrebbe ottenuto un ingrandimento del suo ducato. In compenso dell'aiuto prestato, la Francia doveva avere la cessione di Savoia, Nizza e Villafranca e i Barberini uno stato nel Napoletano; il Piemonte sarebbe stato governato dal cardinale Maurizio di Savoia. Il regno di Napoli doveva essere invaso dalle genti del Conestabile Colonna e di Antonio Barberini con l'aiuto di alcuni baroni, del bandito Pietro Mancino e di Rodolfo d'Angelo di Altamura.

La congiura tramata da Maurizio non poté però avere effetto perché l'ambasciatore spagnolo a Roma, marchese di Castel Rodrigo, avuta notizia dei segreti maneggi, mise in avviso il vicerè di Napoli, il quale ordinò indagini e procedette ad arresti. Un frate Epifanio Fioravante da Cesena, arrestato in Napoli perché trovato in possesso del piano della fortezza di Taranto, nel giugno del 1636, fece delle confessioni e così l'azione stabilita andò a monte; ma anche anche perché il diretto interessato il 7 ottobre del 1637 Vittorio Amedeo lui andava a conquistare il regno dei morti, e gli succedeva il figlio cinquenne sotto la reggenza della madre.

La congiura fu ripresa nel 1638 col ritorno del cardinale Maurizio a Roma. Si stabilì che il conte di Montalbano e Pietro Mancino avrebbero iniziato l' impresa impadronendosi il primo di Gaeta e il secondo di Aquila, ma anche questa volta il marchese di Castel Rodrigo venne a conoscenza del piano e fu in grado di informare di tutto il vicerè. Una delle vittime della reazione spagnola fu Giovanni Orefice principe di Sanza, il quale fu decapitato in Napoli nel 1639. Gli avvenimenti del Piemonte, dove i fratelli MAURIZO e TOMMASO di Savoia si erano alleati con la Spagna contro la cognata Reggente tutta asservita alla Francia, e la morte di Urbano VIII, cui successe INNOCENZO X che pendeva verso gli Spagnoli, diedero alcuni anni di respiro al viceré di Napoli, ma, fatta la pace Tomaso di Savoia con la Francia, si tornò ad agire ai danni della Spagna in Italia.

Chi dirigeva l'azione politica era il MAZARINO, il potente ministro francese, che nel 1644 riuscì ad accordarsi con il principe Tomaso su queste basi: il principe avrebbe avuto la corona del regno di Napoli; la Francia sarebbe entrata in possesso di Gaeta e di un porto dell'Adriatico rinunciando ai diritti della casa borbonica sul reame angioino; nel caso che si estinguesse il ramo primogenito di Savoia e il ducato sabaudo passasse a Tomaso, questi avrebbe ceduto alla Francia la Savoia e la contea di Nizza.

Nel maggio del 1646, Tomaso di Savoia partì con una flotta francese e settemila soldati per impadronirsi dello Stato dei Presidii, di cui voleva far base per le ulteriori operazioni contro il Napoletano. I porti di Talamone e S. Stefano vennero facilmente occupati, ma Porto Ercole, aiutato dalla Spagna che vi aveva mandato Carlo Della Gatta, resistette e il Savoia dovette allontanarsene dopo un assedio durato dal 10 maggio al 24 luglio. Poi giunti dalla Francia altre navi e un rinforzo di cinquemila uomini, furono presi e sistemati a difesa Piombino e Porto Longone.

Dopo queste operazioni, la minaccia del Napoletano si profilava gravissima. Il vicerè di Napoli, duca d'Arcos, per potere resistere ai Francesi, si vide costretto a raddoppiare gli armamenti, ma questi richiedevano forti spese e il denaro occorrente non poteva trovarsi che gravando ancora per mezzo di imposte sul paese già impoverito dalla rapacità spagnola.

Essendo le gabelle tutte vendute e non potendo con esse raccogliere il milione di ducati votato dal Parlamento, il vicerè decise di rimettere la tassa sulla frutta. Fu questo un passo falso: la mattina del 7 luglio del 1647, i fruttivendoli della campagna, venuti in Napoli per vendere la frutta, si rifiutarono di pagare il nuovo tributo; i gabellieri furono costretti a fuggire; l' Eletto del popolo mandato dal vicerè per calmare gli animi dovette anch'esso salvarsi con la fuga; in breve il tumulto crebbe e si propagò; alcuni frati cominciarono a predicare nelle chiese contro il governo spagnolo, cartelloni vennero esposti nelle vie con scritte e figure che eccitavano alla rivolta e una fiumana di popolo armato di bastoni si riversò nelle strade gridando minacciosamente.

A placare il tumulto il vicerè mandò il principe di BISIGNANO, che godeva la stima della plebe; ma senza alcun risultato, il popolo cieco dall'ira non voleva ascoltar consigli e si dirigeva verso il palazzo del vicerè. Giunta al corpo di guardia della milizia spagnola, la folla si impadroni delle armi, quindi invase il palazzo e mise a soqquadro ogni cosa. A stento il vicerè riuscì a scampare alla furia popolare. Rifugiatosi nelle scuderie, di là passò nel convento di S. Francesco di Paola, poi di notte, travestito da frate, se ne andò al Castello di Sant'Elmo e quindi in quello di Castelnuovo.

Invano, fallita l'opera del principe di Bisignano, si misero di mezzo il cardinale FILOMARINO ed altri religiosi; invano lo stesso viceré, forse allo scopo di prendere tempo, pubblicò un editto togliendo tutti i tributi che erano stati imposti ai Napoletani da Carlo V in poi; invano concesse l'amnistia per tutti i prigionieri ch'erano stati liberati dagl' insorti; il popolo non si calmò, s'impadronì di altre armi e di alcuni pezzi d'artiglieria, assalì le case dei ministri e in breve divenne tanto forte da sbaragliare alcune compagnie di Spagnoli e Tedeschi uscite a fronteggiarlo. Anima dell' insurrezione era un giovane pescatore amalfitano, TOMMASO ANIELLO , detto comunemente MASANIELLO, intelligente, audace, energico, fiero, noto fra la cittadinanza e caro alla plebe. Il popolo, che lo aveva visto sempre alla testa del tumulto, lo elesse suo capo e si lasciò ciecamente guidare da lui. Persuaso dal cardinale Filomarino, accondiscese ad accettare le proposte di pace che il governo spagnolo faceva, e pareva che l' insurrezione dovesse avere termine quando, sparsasi la voce che una congiura era stata tramata dai nobili per disfarsi di Masaniello, la rivolta divampò più violenta di prima. Decine e decine di migliaia di insorti guidati dal loro capo percorsero armati le vie, saccheggiando e incendiando le case dei nobili che si sapevano partigiani del governo; barricate vennero innalzate agli sbocchi delle strade; tutte le persone sospette che si incontravano erano arrestate e passate a fil di spada o, giudicate alla svelta da Masaniello venivano messe a morte in quella stessa piazza del Mercato che tante teste nel corso dei secoli aveva visto rotolare dal patibolo; furono decretate taglie per coloro che erano riusciti a fuggire; si misero guardie alle porte e nei punti strategici della città e questa si mutò in un enorme bivacco di plebe armata, padrona oramai della grande metropoli e capace di dettar legge al viceré, chiuso nella fortezza e impotente a domare la rivolta, la quale sy era rapidamente estesa alle altre provincie del regno.

Intanto l'arcivescovo si adoperava presso Masaniello con il proposito di far tornare la calma in città e riusciva a indurlo ad andare alla reggia, dove nel frattempo era tornato il viceré, per accordarsi personalmente con lui. Accompagnato dal popolo, Masaniello si recò al palazzo, ma, prima di entrare, ordinò ai suoi d'incendiare la reggia e la città se lo avessero preso a tradimento ed ucciso.

Invece il duca d'ARCOS, che non potendo vincer con la forza voleva giocar d'astuzia, lo accolse molto onorevolmente, gli fece leggere i capitoli dell'accordo e insieme con lui fissò un giorno per giurarli in forma solenne, poi per propiziarsi il popolano gli regalò una collana d'oro e diede al fratello di lui una grossa somma; da ultimo il cardinale lo condusse sulla sua carrozza nella piazza del Mercato, dove lo aspettava la folla. Nel giorno stabilito per il giuramento, Masaniello, vestito con abiti ricamati d'argento, insieme col viceré si recò in Duomo dove lo aspettava il cardinale. Alla porta del tempio vennero letti e spiegati al popolo i capitoli dell'accordo, quindi essi furono giurati sul Vangelo e sul sangue di San Gennaro. La calma allora ritornò nella città, ma i Napoletani non deposero subito le armi, rimasero in attesa che giungesse la ratifica del re. Era appena cessata la rivolta a Napoli quando violenta scoppiava un' insurrezione ad Aquila, dove niente si sapeva dei tumulti napoletani e non erano perciò stati applicati i capitoli concordati con Masaniello. Anche qui la plebe, guidata da un popolano, GIUSEPPE di SOMMA, percorse le vie armata, saccheggiò, incendiò, e il governo per calmarla dovette venire a patti e fare delle concessioni. Queste però non furono mantenute e il popolo tornò a tumultuare; allora fu necessario l' intervento del Governatore degli Abruzzi, il quale, venuto ad Aquila con un corpo di milizie, ristabilì l'ordine, fece impiccare ventiquattro capi dell' insurrezione e procedette al disarmo della popolazione.

Intanto a Napoli il popolo era ancora padrone della città e tutti obbedivano a Masaniello. Ma l'ebbrezza del potere aveva dato alla testa al pescatore di Amalfi. Credendo di potersi tutto permettere, cominciò a disdegnare il consiglio degli altri, a commettere atti di inaudita violenza, a inferocire contro tutti coloro di cui sospettava, a procedere in modo così crudele e strano da giustificare la credenza, nata tra il popolo, che il viceré gli avesse propinato una bevanda misteriosa per farlo uscir di senno. In breve Masaniello si alienò le simpatie dei più assennati cittadini, i quali, abbandonato il loro capo, si sottomisero al viceré e, fatta causa comune con i nobili, cominciarono a innalzar barricate per difendersi dalla plebaglia che ancor numerosa ubbidiva al pescatore.

Ma oramai per lui si avvicinava la fine. La sua potenza, che risiedeva sulla concordia degli animi e sull'odio verso lo straniero, era minata; per ordine del viceré molti partigiani del governo si erano mescolati alla plebe e spiavano l'occasione per togliere di mezzo il feroce tribuno. Questa non tardò a presentarsi: un giorno, mentre in piazza del Mercato stava arringando il popolo, fu provocato dagli agenti spagnoli un parapiglia e nella confusione Masaniello ebbe reciso il capo, il quale, posto sopra una picca, venne portato in trionfo per la città.

Con la soppressione di Masaniello il duca d'Arcos credeva di poter presto diventare padrone della situazione; ma non fu così: la plebe non disarmò e gli stessi che avevano abbandonato il tribuno, pentiti, si staccarono dal viceré. Tutto il popolo volle tributare onori funebri solenni all'ucciso, il cadavere deposto sopra un magnifico cataletto, venne accompagnato per la città da ottantamila cittadini e da quarantamila soldati, quattromila tra preti e frati celebrarono le esequie e per tutto il tempo che durò la cerimonia furono sparate le artiglierie e suonate le campane della città.

Così la rivoluzione, che sembrava dovesse esaurirsi con la fine di Masaniello, tornava a divampare in tutto il regno; le ire del popolo si appuntavano contro i nobili, che non solo vennero costretti a pagare i tributi, ma furono dappertutto ferocemente perseguitati; alcuni di essi si asserragliarono nei loro palazzi, altri cercarono rifugio nelle fortezze, chi riuscì a scappare uscì dalla città. L'anarchia intanto imperversava; le artiglierie dei ribelli tuonavano contro i forti; le violenze si moltiplicavano e la fame si cominciava a far sentire.

Tentò ancora una volta il cardinale di ricondurre la calma, ma fu vana l'opera di persuasione, dal momento che il popolo, invece di deporre le armi, mostrò di voler dare un indirizzo più deciso alla rivoluzione e si scelse un capo pieno di senno e di valore nella persona di don FRANCESCO TORATTO principe di Massa. Questi era uomo d'ordine e se accettò la carica lo fece per far cessare l'anarchia e per giovare a coloro che in lui avevano riposto fiducia. Prima sua cura fu quella di venire ad accordi onorevoli e duraturi col viceré con il quale iniziò trattative. Erano queste a buon punto quando improvvisamente giunse nelle acque di Napoli una flotta comandata da don GIOVANNI d'AUSTRIA, figlio naturale di Filippo IV, che la Spagna mandava appositamente per domare la rivoluzione. Il popolo napoletano, che non era insorto contro il re ma contro il malgoverno dei ministri spagnoli, fece sapere a don Giovanni che lo avrebbe accolto con tutti gli onori. Era questa un'occasione propizia per far cessare i disordini e restaurare l'autorità se colui che doveva coglierla fosse stato ispirato dalla prudenza e da saggezza politica; don Giovanni d'Austria invece si lasciò guidare da una male intesa dignità e, anziché approfittare delle buone disposizioni dei Napoletani a suo riguardo, dichiarò che non sarebbe sceso a terra se prima non fossero state deposte le armi e ritirati i capitoli convenuti. Le richieste di don Giovanni furono sdegnosamente respinte dal popolo napoletano, che si organizzò per la difesa. Intanto dalle navi venivano sbarcate le truppe; quindi veniva iniziato il bombardamento della città. Le milizie spagnole però non erano in numero sufficiente per impadronirsi della città, la quale, difesa valorosamente dalla popolazione, resistette tanto da far perdere a don Giovanni d'Austria la speranza di sottometterla.

Guida sapiente della difesa era don FRANCESCO TORATTO, il quale cercava con una bella resistenza di piegare a consigli più miti don Giovanni e il viceré. Era però persuaso che a lungo tale resistenza non poteva durare e si sforzava di persuadere i più accaniti sostenitori della lotta ad oltranza che il modo migliore di uscire da quella situazione era di venire ad un accordo onorevole. I suoi consigli di moderazione furono causa della sua rovina perché il popolo, invece di ascoltarli e di esser grato al principe dell'opera infaticabile rivolta al bene della cittadinanza, era convinto che don Francesco Toratto volesse tradire la rivoluzione e lo uccise, sostituendolo con GENNARO ANNESE, bella figura di popolano, al cui fianco mise MARCANTONIO BRANCACCIO, già capitano dell'artiglieria. Sotto il governo dell'Annese la rivoluzione napoletana, che prima aveva carattere di lotta contro l'esoso governo dei viceré, diventò vera e propria guerra nazionale tendente a scacciare dalla regione gli stranieri. Difatti fu dichiarata decaduta la sovranità della Spagna e proclamata la repubblica; molte città di provincia, invitate a seguire l'esempio di Napoli e ad inviarvi i loro rappresentanti, si sollevarono contro i baroni e si diedero un governo popolare. La repubblica napoletana non aveva veramente grandi probabilità di sostenersi contro la schiacciante potenza della Spagna. Diversi erano i motivi che la condannavano all' insuccesso; prima di ogni altro l'odio che irreparabilmente divideva il popolo dalla nobiltà. Altra causa di debolezza erano le diverse aspirazioni degli stessi insorti. I più volevano l'assoluta indipendenza del Napoletano, altri volevano darsi un re, ma di questi fautori della monarchia una parte proponeva di dar la corona a TOMASO di SAVOIA, un'altra parte, più numerosa, faceva il nome di ENRICO di LORENA, duca di GUISA. C'era infine l'ANNESE, il quale, sapendo di non poter da solo continuare nella lotta, aveva iniziato trattative con i ministri di Francia per cedere il Napoletano.

Per un momento ebbe il sopravvento il partito del duca di Guisa, che, sollecitato mentre si trovava a Roma, si affrettò a recarsi a Napoli, su cui vantava diritti come discendente di Renato d'Angiò. Enrico di Lorena, appena giunto, pensò a rafforzare la sua posizione, facendo tacere alcuni avversari ed altri guadagnandone alla sua causa; poi tentò di allearsi con i nobili per potere meglio lottare contro la Spagna, ma non vi riuscì e perse il terreno che aveva conquistato perché si alienò le simpatie del popolo. La sua posizione si fece più critica quando gli si dichiarò apertamente contrario il ministro francese MAZARINO, sollecitato da Gennaro Annese. Allora il Guisa giocò l'ultima carta: riuniti in assemblea tutti quelli di cui poteva fidarsi, si fece nominare generalissimo della repubblica, quindi tolse ogni autorità all'Annese lasciandogli soltanto - e fece male - il torrione del Carmine. Ma la posizione del duca di Guisa non migliorò; i nemici, assaliti da lui nelle loro trincee, lo respinsero: tornarono le discordie fra gli insorti e l'ANNESE per vendicarsi si riavvicinò agli Spagnoli, avviando trattative segrete con il conte d' OGLIATE, nuovo viceré. L'opera decisamente nefasta dell'Annese non tardò a dare i suoi frutti: le milizie spagnole, favorite dal suo partito, entrate a Porta Alba si impadronirono dei quartieri popolari, occuparono in poco tempo tutta la città e presero prigioniero il duca di GUISA (aprile del 1648), che prima fu chiuso a Gaeta poi venne trasferito a Madrid e solo parecchi anni dopo venne liberato.

Pensò allora il Mazzarino di mandare una spedizione contro Napoli per espugnare il forte di Sant' Elmo per fare insorgere nuovamente la città; e sapendo che ai Napoletani era bene accetto TOMASO di SAVOIA affidò a lui il comando delle truppe delle operazione; ma l' impresa per lo scarso numero di milizie messe a disposizione del principe si limitò all'occupazione di alcuni punti del Golfo, poi il Savoia, rimasto privo di rinforzi, andò a rifugiarsi a Porto Longone.

Gennaro Annese, accusato da un certo Giuseppe Palumbo, suo acerrimo nemico, di intendersi con i Francesi, fu arrestato e il 22 aprile del 1648 giustiziato assieme ad altri suoi quattro compagni. La sua testa, conficcata sopra una picca, fu posta di faccia al torrione del Carmine, il corpo rimase per due giorni nel luogo dell'esecuzione, poi venne seppellito. Furono queste le prime vittime della reazione spagnola che infierì tremenda nella povera città, ricaduta sotto l'artiglio straniero, che già tanto l'aveva straziata. «Gli animi - scrive il Callegari - erano ancora amareggiati e sconvolti per le immani vendette, quando sul finire del 1649 il Vesuvio gettò fuoco e Napoli e le terre vicine furono scosse da frequenti terremoti. « Lo spavento che si sparse per il popolo, e le notizie, forse esagerate, che giunsero a Roma, parve buona occasione a CAMILLO TUTINI, un prete napoletano, ardente di amor patrio, sostenitore dell'opera di Masaniello prima, poi del Guisa, per tentar di ridestare una voglia di guerra contro la Spagna. Da tempo antico si credeva che ogni eruzione del Vesuvio fosse presagio di straordinari avvenimenti, come peste, sollevazioni, calamità, morte di principi. Nello stesso tempo si ritenne presagio funesto la troppa attesa che il sangue di San Gennaro poneva a liquefarsi o a non liquefarsi del tutto, e nel 1649 s'erano verificati i due paurosi fenomeni. «Il Vesuvio tuonava e il Santo Patrono negava il consueto miracolo. Quando più viva era l'attesa e angosciati gli animi, il Tutini fece diffondere in giro una sua scrittura intitolata: Prodigiosi portenti del Monte Vesuvio, nella quale scagliava una violenta invettiva contro il governo di Spagna in Italia, allo scopo di poter sollevare un'altra volta il popolo contro l'odiata dominazione. Ma ormai le popolazioni non avevano più l'energia necessaria per una risoluta resistenza, esaurita nelle precedenti rivolte rimaste così infruttuose, ed accettarono passive e rassegnate tutto quello che un vendicativo dispotismo seppe immaginare per negare i naturali diritti dell'umanità ».

CONGIURE E RIVOLUZIONI IN SICILIA NINO LA PELOSA; GIUSEPPE D'ALESSI; IL VAIRO; G. PLATENELLA; P. MILANO; F. FERRO.

Contemporanea alla rivoluzione napoletana di Masaniello scoppiava in Palermo quella dell' ALESSI. La produzione granaria del 1646 era stata scarsissima e si annunziava un inverno di miseria. Grande incetta di frumento aveva fatta il comune di Messina, ma essendo stato ordinato che si ponessero in vendita pani più piccoli del consueto, la popolazione aveva mostrato un gran malcontento, al quale erano seguiti tumulti con saccheggi e incendi di case, presto repressi dalle autorità con arresti ed impiccagioni.

Anche dal comune di Palermo era stata fatta grande incetta di grano, ma il pane non era stato rimpicciolito né aumentato di prezzo, quindi un grandissimo numero di poveri di tutta l'isola era andato nella capitale, la quale a un tratto, nell' inverno, si era popolata di migliaia e migliaia di mendicanti, scalzi, laceri, smunti, d'ogni età e sesso, i quali di giorno erravano per le strade chiedendo l'elemosina, di notte si sdraiavano dietro gli usci, sotto le volte, nei cantoni delle piazze, gemendo per il freddo e per la fame.

Si sperava che il futuro raccolto avrebbe lenito tanta miseria; ma per le piogge abbondanti seguite da una lunga siccità quello del 1647 fu peggiore del precedente; aumentò la disoccupazione, aumentò la miseria, e alla fame si aggiunse una terribile epidemia, che falciò numerose vittime nella popolazione e, poiché la fame è una cattiva consigliera, i più indigenti cominciarono a tumultuare per le vie di Palermo e, guidati NINO La PELOSA, assalirono il palazzo del Senato.

Non era una rivolta pericolosa, ma un atto disperato di poca gente che non sapeva nemmeno quel che faceva; occorreva però stroncare sul nascere un movimento che poteva trascinare altri a ribellioni più gravi; le autorità quindi agirono con prontezza, decisione ed energia; il viceré, spalleggiato dalla nobiltà e dai militi, spiegò tutta la sua forza, il tumulto fu sedato, si procedette ad arresti e, perché fosse dato un esempio come ammonizione, Nino La Pelosa ed altri rivoltosi vennero impiccati sulla pubblica piazza..

Dato lo stato delle cose l'esempio non poteva giovare; la miseria era più forte della paura; morir di fame era peggio che morir per mano del boia, questa morte anzi era preferibile all'altra perché troncava le sofferenze. Con le impiccagioni i tumulti cessarono, ma non cessò il malcontento, questo anzi fu aggravato dall'agiatezza dei ricchi incuranti della grave crisi; non cessarono i brontolii, rinacquero i propositi di nuove e più volente agitazioni, cui si univa la voglia di vendicare quelli che erano stati impiccati solo perché avevano cercato di voler sfamarsi: aumentava il desiderio di infierire contro i nobili che con lo sfoggio del loro lusso pareva che insultassero la miseria.

Il fuoco covava sotto la cenere e tutto faceva prevedere che presto l' incendio sarebbe divampato furioso. Giungevano già dalle altre terre dell' isola notizie gravissime, annunciatrici minacciose della tempesta che s'avvicinava alla capitale: in qualche città, erano state aperte le carceri e liberati i prigionieri, in qualche altra erano stati bruciati gli archivi, in qualche altra ancora il popolo aveva dichiarato abolite le tasse; all'ordine del giorno le aggressioni dei magistrati, gli incendi, i saccheggi.

Le autorità di Palermo si rendevano conto della gravità della situazione, ma non avevano mezzi per scongiurare lo scoppio della tempesta; le casse erano vuote, i magazzini pubblici esausti, insufficienti le nuove tasse imposte sulle classi abbienti; intanto la miseria cresceva e con essa il malcontento e l'agitazione, che ormai nessuno poteva più contenere.

Giungevano intanto nell' isola le notizie della rivoluzione napoletana che, passando di bocca in bocca, venivano esagerate e travisate, notizie che suscitavano negli animi della plebe palermitana un senso di ammirazione e una voglia intensa di emulazione. Nelle case, nelle vie, nelle osterie, dovunque ci fossero delle persone radunate si commentavano quelle notizie, si diceva che se a Palermo il popolo fosse, come a Napoli, insorto in pieno accordo avrebbe avuto ragione del vicerè e della nobiltà, e ci si lamentava la mancanza di un Masaniello isolano che desse il segnale della rivolta.

Ma il Masaniello a Palermo non mancava. C'era un battiloro di trentacinque anni, figlio di un tagliapietre di Polizzi, audacissimo, agile e forte, destro nel maneggio della spada, insofferente al giogo spagnolo, litigioso e manesco, che per nulla era inferiore al capopopolo napoletano, lo superava anzi per ardire, per capacità organizzativa e per fermezza di propositi e pareva nato apposta per capitanare una rivolta e farla trionfare su tutti gli ostacoli.

Si chiamava GIUSEPPE d'ALESSI. Irrequieto ed indocile, aveva avuto a che fare più d'una volta con la giustizia e caduto nelle mani del Capitano giustiziere, era riuscito a scappare e a riparare a Napoli, proprio quando in questa città la rivoluzione trionfava. Era tornato a Palermo con la fantasia eccitata per quanto aveva visto, con gli occhi pieni della visione straordinaria e tentatrice di tutto un popolo urlante, tumultuante, che aveva costretto gli arroganti Spagnoli a chiudersi nei fortini e aveva fiaccato l'alterigia del vicerè. Aveva la voglia di menar le mani, sollevare la plebe affamata, condurla al saccheggio, alla vendetta, cacciare dall'isola gli stranieri, inaugurare un governo di giustizia e di equità, che mettesse fine alle prepotenze e alla miseria e pensasse a dare il benessere alla cittadinanza. Il momento per agire gli sembrava opportuno; il popolo non aspettava che un uomo audace e risoluto che lo facesse insorgere. Giuseppe d'Alessi si diede da fare attorno, rivelò i suoi propositi al fratello Francesco, ad altri parenti, ad amici e conoscenti, soffiò nel fuoco, e una sera, riunitosi con altri popolani in un'osteria, prese con essi gli accordi per un'azione che doveva ridare a Palermo la libertà.

Le autorità, in mezzo a tanto fermento, vigilavano; avuta notizia di ciò che si stava tramando, indagarono e riuscirono a mettere le mani addosso ad alcuni congiurati, i quali vennero subito mandati al patibolo. Si sperava che anche questa volta l'esempio sarebbe bastato a impaurire gli animi e a troncare i propositi di rivolta; ma gli agitatori non erano oramai rappresentati da uno sparuto branco di straccioni; c'era tutto un popolo che soffriva e fremeva, un popolo invaso dalla collera non si lasciava intimorire dalle forche.

Quelle esecuzioni furono la scintilla che provocarono l'incendio. Dei cartelli apparvero sui muri e agli angoli delle vie con scritte sediziose. Una diceva: Et mora mal governo Rex Hyspaniarum ; un'altra: Viva il re di Spagna, fora gabelle e colletti, non volemo pagari più nienti; un'altra ancora minacciava il viceré e indicava che teneva nascosto il grano ed era lui ad affamare la povera gente.

Erano i segni premonitori della tempesta, poi questa scoppiò furiosa. Alla testa di numerosi popolani Giuseppe d'Alessi si recò nel quartiere dei pescatori, i quali si riversarono nelle vie unendosi all'agitatore, poi andò in Piazza della Vittoria, dove la folla lo proclamò capo dell' insurrezione; quindi percorse le vie della città, mentre al suo passaggio il corteo dei ribelli si ingrossava e diventava sempre più minaccioso.

Quella dimostrazione non era stata prevista dalle autorità e nessun provvedimento era perciò stato preso; per giunta, essendo giorno festivo, il palazzo del vicerè era custodito solo dalla metà della guardia spagnola, né si trovavano altri in servizio. La folla, giunta davanti il palazzo, iniziò una violenta sassaiola contro soldati che si preparavano a resistere e li costrinse a fuggire disordinatamente.

Fu la prima vittoria. Si gridò Morte agli Spagnoli ! e parve che volessero rivivere dopo tanti anni le giornate indimenticabili dei Vespri. L'armeria del Senato e quella della Dogana furono invase e migliaia e migliaia di archibugi, di spade, di picche, di pistole passarono nelle mani dei rivoltosi, che si impadronirono anche di una grande quantità di munizioni. Oramai nessuna forza poteva più trattenere i ribelli; il Senato non osava dare segno di vita; gli altri magistrati tacevano; i nobili erano fuggiti o stavano asserragliati nei loro palazzi o si erano rifugiati nelle chiese e nei conventi; la città tutta era in balìa della folla; mentre il vicerè, al sicuro sulle galee, non sapeva nè poteva fare qualcosa per ristabilire la sua autorità. Il vero padrone della città era Giuseppe d'Alessi, il quale, dopo le prime violenze, cercò di disciplinare la rivoluzione. Nominato capitano generale del popolo, egli fece occupare e saldamente custodire le porte di Palermo, fece puntare sul castello le artiglierie cadute nelle sue mani, ordinò squadre di ribelli che perlustrassero le vie, assoldò una numerosa compagnia di uomini armati, vietò che si commettessero disordini ed emanò un bando col quale ingiungeva che tutti i popolani di età superiore ai quindici anni andassero armati e senza cappa. La parola d'ordine era: Viva il re e fuori il mal governo

La savia moderazione di Giuseppe d'Alessi fece nascere nel Senato e nella nobiltà, la speranza di un accomodamento, ma alle prima proposte di trattative i rivoluzionari fissarono le loro condizioni: osservanza di tutti i privilegi concessi alla Sicilia dal re Pietro d'Aragona, abolizione di tutte le prammatiche che menomassero questi privilegi, della confisca dei beni e di quasi tutte le gabelle che gravavano sul popolo siciliano, formazione di un governo cittadino composto di tre giurati popolani e tre nobili, esclusione dei non Palermitani dalla Corte Pretoriana e da tutte le altre cariche cittadino.

Erano condizioni queste che i nobili non vollero accettare, d'altro canto il vicerè non voleva abbassarsi a far concessioni strappate con la forza dal popolo; furono troncate quindi le trattative e si cercò di corrompere l'Alessi e di staccarlo dalla plebe con ricchi regali, offerte di cariche lucrose, titoli magnifici nella speranza d'inebriarlo come Masaniello e di procurargli l'odio dei ribelli.

Giuseppe d'Alessi però non si lasciò corrompere e pur facendo uso del cocchio, di ricche vesti e di cappa, rimase fedele alla linea di condotta che si era tracciata. Purtroppo però la sporca politica seguita dai nobili, ebbe l'effetto di alienare dal capo le simpatie dei popolani, alcuni dei quali, insospettiti dalle deferenze grandissime con cui egli era trattato dalla nobiltà o malcontenti per non essere stati messi a parte del governo o disgustati dalle severe condanne inflitte ai più violenti, cominciarono a mormorare contro di lui.

Era quello che volevano i nobili e il viceré, i quali continuarono a lavorare abilmente per approfondire il dissidio tra l'Alessi e il popolo. Il viceré, credendo di poter piegare gl' insorti, fece sapere che sarebbe ritornato in città, ma per propria sicurezza sarebbe andato ad abitare nel castello con la scorta di due compagnie di soldati e con viveri e munizioni per due mesi e pretendeva che fossero tolte le artiglierie che minacciavano la fortezza.

Fu questa una mossa sbagliata. Il popolo, sdegnato, respinse le proposte, montò sulle furie ai consigli di moderazione che dava 1'Alessi e minacciò saccheggi e incendi. Si tornò alla politica disgregatrice, l'unica -per gli spagnoli- che potesse dare qualche risultato. I magistrati e i nobili della città si riunirono in assemblea e proposero di nominare Giuseppe d'Alessi sindaco a vita del comune di Palermo con lo stipendio di duemila scudi all'anno e una guardia di settanta soldati mantenuti a pubbliche spese; proposero inoltre di conferire al fratello Francesco la carica di Maestro della Città e di provveditore dell'annona.

Appena le deliberazioni dell'assemblea furono conosciute dalla plebe, questa fu convinta che il suo capo volesse tradire la causa della rivoluzione; i più scalmanati ( o meglio gli infiltrati falsi scalmanati) espressero il proposito di toglierlo di mezzo, cosicchè gli stessi suoi amici se ne allontanarono; la nobiltà continuò a soffiare con maggior forza per attizzar l'odio ed estendere i sospetti, l'Inquisizione diede una mano al governo per sbarazzarlo di quel temibile capopopolo e il Senato non trascurò nulla per riuscire nello scopo che i nemici della rivoluzione volevano raggiungere.

Ciò che affrettò la fine dell'Alessi fu la notizia, sparsa ad arte, di maneggi segreti del capitano generale con i Francesi per consegnar nelle loro mani la città. La plebe insorse furente, catturò e uccise Francesco d'Alessi e ne portò la testa staccata su una picca in giro per le vie; altri compagni del morto furono trucidati, quindi venne la volta di Giuseppe che fu scannato e anche lui trascinato quasi nudo per le strade. Parecchi altri fedeli dell'Alessi subirono la stessa sorte e i nobili furono convinti di avere debellata la rivoluzione; ma il loro contegno spavaldo, sbolliti i furori che avevano insanguinato la città, fece trasalire la plebe intuendo il tranello in cui era caduta e si pentì del grave errore commesso. Il rimorso di avere ucciso l'eroe della rivoluzione fu tale da provocare perfino allucinazioni. La notte stessa del misfatto (22 agosto) alcuni popolani dissero di aver vista l'ombra dell'ucciso percorrere armata le vie di Palermo gridando guerra, all'armi, fratelli. Allora la plebe, convinta che il sospetto prima e la tragedia poi fossero stati ispirati dal demonio, innalzò altari, fece penitenze e volle che i preti benedicessero Palermo.

Fra il il figlio dello spaccapietre di Palermo e il pescatore di Napoli - scrive il La Lumia - una singolare somiglianza di destino si rivelava anche nell'ultima fine, di quel momentaneo abbandono e in quel postumo ritorno del popolo. Ambedue saliti alla fama dal nulla, re di otto giorni, travolti ambedue nello stesso precipizio. Masaniello, più giovane e con un carattere più amabile, più ingenuo e più candido; l'Alessi con una dura tempra, con quella nativa energia del suo isolano paese, con maggiore saggezza ; ma né questa lo salvò dalle insidie, né quella lo rese forte agli ostacoli. Risoluto nel cominciare l'impresa, esitava quando a spingerla innanzi per tuffarsi nel sangue. Ambedue desiderosi di giustizia, generosi, benevoli, falliti nello scopo impossibile di conciliare fra loro delle inconciliabili cose; la nobiltà ed il popolo, il governo e la piazza, la rivolta e la fedeltà alla Corona di Spagna; la suggestione di una improvvisa potenza, incoraggiata dalle oscure manovre, inebriava entrambi, ma almeno l'Alessi non smarriva il senno, non dava in frenesie. Tuttavia l'uno e l'altro erano ugualmente delle incarnazioni del popolo, quale nel XVII secolo, sotto il doppia giogo della sovranità straniera e dell'ordinamento feudale, si riscontrava e si agitava nel mezzogiorno d'Italia.

Intorno a loro c'era Firenze che già aveva veduto MICHELE di LANDO il Gonfaloniere dei Ciompi, il fiorentino cardatore di lana. Tutti costoro non sono certo grandi uomini; sono forse figure minori ma sono anch'essi uomini che parlano vivamente nella storia d'Italia».

Con la morte dell'Alessi la rivoluzione non finì, ma ebbe un colpo da cui non riuscì più completamente a rialzarsi. Continuò l'agitazione, ma senza direttive precise, priva d'un capo che guidasse e disciplinasse l'azione del popolo, il quale se da un canto non voleva cedere alla nobiltà e al vicerè, dall'altro non sapeva certo da solo come risolvere la questione del pane per la mancanza della farina. Urgeva una composizione con gli altri ceti e si cominciò a pensare alla pace. Questa venne conclusa con grande solennità il 5 di settembre, ma non alleviò le condizioni della plebe, che si trovava nella miseria più grande. La rivoluzione sorta dalla fame finiva con la fame; vane erano le agitazioni, vana la breve conquista della libertà, vano il sacrificio di tante nobili vite; le vie di Palermo che avevano sentito le grida di trionfo degli insorti ora risuonavano sempre di più dei gemiti degli affamati cui facevano eco quelli degli infermi che gremivano, ospedali, case, strade, campagne.

Risorse in alcuni il desiderio di riaccendere la rivolta perché solo in un cambiamento di governo si vedeva l'unica via di salvezza; un oriundo calabrese, di nome VAIRO, che aveva militato sotto la bandiera dell'ammiraglio don Ottavio d'Aragona, tramò le fila d'una congiura con il proposito di uccidere i ministri, il cardinale, i principali nobili e fare insorgere tutta l'isola contro gli Spagnoli; ma il complotto fu scoperto e anche il Vairo con alcuni suoi compagni finì al supplizio e poi impiccato.

Esito migliore non ebbe la congiura di don GABRIELLO PLATENELLA da BIVONA, che si era messo in segreto rapporto con i Francesi. Anche lui fu scoperto e consegnato al boia e la medesima sorte subirono gli autori di altre congiure: di una di esse era capo un amico dell'Alessi, don PIETRO MILANO, che, chiuso in carcere, fu strozzato con molti complici; di un'altra era promotore il merciaio FRANCESCO FERRO.

Termineremo la rassegna dei tentativi fatti dai Palermitani per scuotere il giogo spagnolo accennando alla congiura tramata verso la fine del 1649 da due famosi avvocati, ANTONINO Lo GIUDICE e GIUSEPPE PESCE. Essendo corsa la voce che si era spento a Madrid senza eredi legittimi Filippo IV, i due illustri giureconsulti pensarono di staccare la Sicilia dalla Spagna e di darle un proprio re. Questi doveva essere il duca di MONTALTO, uno dei più ricchi baroni dell' isola. La scelta del sovrano piacque a molti nobili, che aderirono alla congiura, la quale per la condizione dei componenti avrebbe ottenuto esito felice se prima di rafforzarsi non fosse stata scoperta e denunciata a Sant'Ufficio. E così sul patibolo altro sangue di patrioti spegneva ancora una volta le aspirazioni di quanti a Palermo odiavano l' avido governo degli Spagnoli.

LA RIVOLUZIONE Di MESSINA

Una rivoluzione ben più grave di quella di Palermo scoppiò a Messina nel 1675. Diversamente dalle altre città italiane sottomesse alla Spagna, Messina godeva di tali privilegi da potersi considerare quasi solo di nome suddita spagnola. Questi privilegi erano stati in massima parte concessi alla città ancora da Ruggero il Normanno con diploma del 15 marzo 1129 per premiarla dell'opera efficace data da nella lotta contro i Saraceni. In virtù di questo diploma i Messinesi, salvo i casi di Stato, dovevano essere giudicati, sia in materia civile che criminale, dai loro giudici, dinnanzi ai quali dovevano esser portate le controversie col fisco; ogni ordine del re, contrastante con la costituzione della città, non aveva valore ed esecuzione; i pubblici ufficiali di nomina regia dovevano essere messinesi e di gradimento della città; nel tribunale le controversie per gli affari marittimi dovevano essere giudicate da un consolato composto di messinesi nominati dai commercianti e dagli armatori; nelle pubbliche assemblee convocate dal re per discutere degli interessi della città nessuna deliberazione poteva prendersi senza la presenza dei magistrati cittadini; i messinesi dovevano essere ammessi a qualunque ufficio regio; gli ebrei di Messina dovevano godere gli stessi privilegi e le stesse immunità dei cristiani; il re doveva essere considerato come cittadino coronato di Messina; i deputati di Messina avevano il diritto di occupare il primo posto nelle pubbliche riunioni indette dal sovrano; i Messinesi dovevano essere esenti da gabelle in tutto il regno, non potevano essere forzati a prestar servizio militare e potevano tagliare nelle foreste regie gratuitamente tutto il legname occorrente per costruire o riparare navi; infine la sola Messina poteva batter moneta e la sua galea doveva portare lo stendardo regio.

Quando la Sicilia cadde sotto il dominio degli Spagnoli, questi confermarono a Messina i suoi antichi privilegi e Filippo IV ne concesse parecchi altri per premiare la città della fedeltà mostrata durante le rivoluzioni di Napoli e Palermo del 1647. L'autorità reale era rappresentata da un governatore spagnolo, mandato dal vicerè di Palermo, che si chiamava straticò ed era il primo dignitario dell' Italia Spagnola dopo i vicerè di Napoli e Palermo e il governatore di Milano. Il governo della città era affidato al Senato, composto di quattro nobili e di due membri scelti tra la borghesia e il popolo, che nei casi straordinari convocava un gran consiglio e mandava, quand'era necessario, ambasciatori al sovrano che doveva riceverli con gli onori spettanti agli inviati di uno Stato.

Fin dal 1665 gli ottimi rapporti tra la città di Messina e la Spagna erano stati turbati a causa di certi privilegi che gli Spagnoli volevano contestare alla città. Questi dissapori furono aggravati dallo straticò don LUIGI dell' HOIO, venuto con il proposito di strappare a Messina gli antichi privilegi e di metterla sotto la completa sudditanza della Spagna. Seguendo la tradizionale politica spagnola, lo straticò fece nascere rivalità ed odi tra i plebei e i nobili e fu causa del sorgere di due partiti detti dei Merli e dei Malvizzi. quelli popolani e partigiani della Spagna, questi nobili e difensori dei diritti della città. Da quando la cittadinanza fu divisa in due fazioni Messina non ebbe più pace e fu dilaniata da una terribile lotta intestina, che produsse saccheggi, devastazioni, incendi e fece scorrere molto sangue fraterno; una lotta che raggiunse il massimo grado di intensità nel 1672.

Infierendo in quest'anno la carestia, il Senato si era avvalso di un antico privilegio che permetteva alla città di sequestrare le navi cariche di frumento che transitavano per lo stretto e di impadronirsi del frumento pagandone però il prezzo. Il 26 febbraio del 1672 il Senato aveva tentato di sequestrare dieci vascelli provenienti dalle Puglie e diretti a Napoli, ma il tentativo era fallito ed aveva fornito pretesto alla plebe d'insorgere contro il governo di Messina.

Il 30 marzo i Merli assalirono e incendiarono le case dei Senatori, liberarono dalle carceri circa ottocento detenuti e al grido di Viva Dio ! Maria nostra Signora e Carlo II e fora mal governo ! diedero addosso ai Malvizzi. La lotta che ne seguì che ebbe carattere di estrema violenza, finì con la peggio dei Merli e poiché il governo spagnolo aveva aiutato quest'ultimi, i vincitori, completamente padroni della città, si ribellarono agli Spagnoli e chiesero soccorso alla Francia.

La richiesta dell' intervento francese alienò da Messina le simpatie delle altre città siciliane. Queste, scoppiati i primi moti, si erano schierate in favore della consorella, ma quando seppero che era stato sollecitato l'aiuto di LUIGI XIV, per l'odio che da vecchia data nutrivano contro il nome Francia, si mostrarono risolute e avverse ai Messinesi. I quali, decisi a cacciar gli Spagnoli, assalirono il palazzo dello straticò, espugnarono le fortezze e inalberarono la bandiera francese.

Il 28 settembre del 1674 giunse nelle acque di Messina il cavaliere di VALLEBELLE con sei vascelli francesi e tre brulotti carichi di viveri e truppe. L'ultimo forte spagnolo che ancora resisteva, quello del Salvatore, si arrese. I Messinesi speravano che Luigi XIV avrebbe mandato altri aiuti, invece i viveri inviati presto furono consumati e le navi ripartirono mentre la città lasciata al suo destino veniva bloccata dalla parte di terra dal marchese di Bajona e dal mare da una numerosa flotta spagnola.

Il 12 dicembre giungeva a Palermo il marchese di VILLAFRANCA, nuovo vicerè, il quale cercò di ricondurre Messina all'obbedienza promettendo una generale amnistia; ma gli insorti si rifiutarono di sottomettersi ed allora mise a ferro e a fuoco la campagna ed avrebbe ridotto a malpartito la città che già soffriva la fame se il 7 di gennaio del 1675 un'altra squadra francese, forzato il blocco, non avesse vettovagliata Messina.

Un mese dopo si presentava nello stretto la flotta del duca di VIVONNE, attaccava le navi spagnole, le sbaragliava ed entrava vittoriosa nel porto. Egli stesso il 28 aprile riceveva a nome del suo sovrano dai Messinesi nella cattedrale il giuramento di fedeltà e riconfermava loro tutti i privilegi che avevano fino allora goduto. Il duca di Vivonne sperava di impadronirsi di tutta l'isola, ma furono molto scarsi i suoi progressi: fallì un suo tentativo contro Milazzo, e Palermo gli si mostrò ostile e lo costrinse ad allontanarsi; solo Augusta, dopo sette ore di combattimento si arrese.

A sostenere la Spagna, l'Olanda, sua alleata, mandò in Sicilia il prode ammiraglio ADRIANO MICHELE RUITER con una flotta di diciotto vascelli e dodici altri legni minori. Il 1 febbraio del 1676 una furiosa ed accanita battaglia ebbe luogo proprio nelle acque davanti a Messina tra gli Olandesi e i Francesi comandati dal Duquesne, ma la vittoria non fu di nessuno e la notte divise i combattenti. Un'altra sanguinosa battaglia ebbe luogo il 22 aprile nelle acque di Augusta e in essa perì da prode il Ruiter. Miglior successo non aveva intanto il vicerè che tentava di espugnar Messina da terra e veniva invece costretto a ritirarsi.

A sua volta il duca di Vivonne cercava di impadronirsi di Palermo. ""...Il 2 giugno del 1676 - scrive il Palmeri - l'armata francese si avvicinò a Palermo con tre squadre. La prima di nove vascelli, sette galee e cinque brulotti attaccò la battaglia. Il Vivonne con le altre due seguiva dietro distanziato. Alle dieci del mattino iniziò l'attacco. Quel mattino spirava un vento greco-levante, che favoriva i Francesi ma era molto dannoso agli alleati (Spagnoli e Olandesi). Fin dalle prime bordate e con l'incendio di una prima nave si levò un denso fumo che andava in faccia agli spagnoli impedendogli la vista. E fin da allora i navigli incominciarono a sparpargliarsi non riuscendo a seguire i segnali del comandante sull'ammiraglia. Critica la situazione per gli spagnoli ma propizia per l'ammiraglio francese, questi si spinse avanti con i suoi suoi vascelli e riuscì a incendiare altri tre vascelli. Allora, la confusione e il disordine divenne per gli spagnoli drammatico; ogni naviglio invece di cercarsi l'un l'altro, si allontanavano, cercando di evitare che le fiamme passassero da una all'altra nave, ma così facendo diventavano ottimi bersagli per i Francesi. Infatti il Vivonne incalzava l'azione, e spingendosi ancora in avanti andò a centrare con un cannonata la Reale di Spagna, che con le munizioni che aveva a bordo saltò in aria con spaventevole fracasso, e fece incendiare e poi affondare due galee, la Padrona di Napoli e san Giuseppe di Sicilia, che le erano vicine.

Tutto allora divenne apocalittico; ma non solo in mare, ma anche nella città. Il denso fumo che si era spinto nella vicina città oscurò persino il sole di mezzogiorno; l'angoscia della caligine era accresciuta dal rimbombo dei cannoni, e fra sprazzi di schiarite dal bagliore delle navi incendiate, lo scoppio di quelle che saltavano in aria, dal fischio della palle, e da un generale grido di popolo, mosso dalla pietà di tanti prodi, che stavano davanti a loro miseramente soccombendo, inoltre c'era l'angoscia di uno sbarco dei Francesi.

« Sette ore durò la spaventosa scena. Possono appena esprimersi i danni riportati dalle armate alleate. Vi perirono fra tanti altri i due ammiragli Ivanes e Staen: nove vascelli e tre galee furono preda delle fiamme e la gran parte dei vascelli olandesi rrimase così malconcia che poi quando furono riportate in porto c'era di utile solo più i cannoni che furono poi acquistati dal Senato di Palermo.

E se il duca di Vivonne non raccolse altri vantaggi dalla vittoria, lo si deve più che pel danno da lui riportato, che non fu lieve, ma per il coraggio del popolo palermitano. Nel regno precedente, il cardinal Trivulzio, temendo che andassero in mano ai ribelli dei movimenti popolari, aveva rimosso i cannoni da tutti i bastioni della città e li aveva riposti la maggior parte nel cortile del palazzo arcivescovile. In quel momento di pericolo il popolo vi accorse chiedendo a gran voce i cannoni. L'arcivescovo monsignor Luzana li negò: ma non potendo reggere alla furia popolare, volendo mettersi in salvo si travestì e abbandonò il palazzo. Prelevati in gran furia i cannoni, il popolo corse a piantarli su quei bastioni, che allora erano sulla marina, e cominciò a fare un fuoco così nutrito contro i Francesi che sorpresi da quell'atto improvviso, passò loro la voglia di metter piede a terra e si ritirarono ».

Al marchese di VILLAFRANCA successe come vicerè di Sicilia il marchese di CASTEL RODRIGO, sotto il cui governo i Francesi riuscirono ancora a conquistare Melilli, Taormina, Scaletta e Calatabiano. Ma furono queste le ultime conquiste dei francesi; Luigi XIV vedendo le grandi difficoltà di strappare l' isola agli Spagnoli ed anche perché si stava trattando la PACE di NIMEGA tra la Spagna e la Francia, aveva già deciso (ma con la pace poi costretto) ad abbandonar la Sicilia.

Lo sgombro dei Francesi da Messina ebbe luogo il 16 di marzo del 1678. Il maresciallo La Feuillade concedette quattro ore di tempo a quei cittadini che volessero lasciar la città per salvarsi dalle vendette spagnole e cinquemila riuscirono a imbarcarsi. Condotti a Marsiglia, dopo pochi mesi ne venivano cacciati. Così Luigi XIV trattava un popolo valorosissimo, che, per sottrarsi al giogo di un tiranno, aveva avuto il torto di affidarsi ad un altro tiranno.

L' infelice Messina dovette così sottomettersi. Il nuovo viceré conte di Santo Stefano, assistito dal feroce consultore RODRIGO QUINTANA, trattò la città ribelle con estremo rigore: abolì la carica di Straticò e la sostituì con quella del governatore militare, soppresse il senato e in sua vece istituì un magistrato di Eletti; confiscò il patrimonio della città e ne affidò l'amministrazione ad una Giunta di Stato (ovviamente Spagnolo); cancellò dall'archivio i privilegi e i diplomi che erano stati concessi; asportò e inviò in Spagna le pergamene e i preziosi manoscritti greci che il senato aveva acquistato da Costantino Lascaris; soppresse l'ordine equestre della stella, le due accademie, l'università e come se ciò non bastasse fece spianare il magnifico palazzo del senato e, dopo averne fatto arare e cospargere di sale il suolo, ordinò che vi fosse eretta la statua di Carlo II, fusa con il bronzo della campana grande del Duomo. Messina peggio di così non poteva finire.

LA GUERRA PER LA SUCCESSIONE SPAGNOLA e L'ITALIA
( 1700 - 1714 )

I PRETENDENTI ALLA CORONA DI SPAGNA - MANEGGI DELLA DIPLOMAZIA EUROPEA - MORTE DI CARLO II DI SPAGNA - FILIPPO V - LEGA DI VITTORIO AMEDEO II DI SAVOIA CON LA FRANCIA - BATTAGLIE DI CARPI E DI CHIARI - CONGIURA DELLA MACCHIA - PROGRESSI DEGLI IMPERIALI IN ITALIA -VITTORIO AMEDEO ABBANDONA LA FRANCIA E SI ALLEA CON L'IMPERO - BATTAGLIE DI CASSANO D'ADDA E DI CALCINATO SUL CHIESE - INVASIONE FRANCESE DEL PIEMONTE ED ASSEDIO DI TORINO - PIETRO MICCA - CALATA DI EUGENIO DI SAVOIA IN ITALIA - BATTAGLIA DI TORINO - I FRANCESI SCACCIATI DAL PIEMONTE - GLI SPAGNOLI PERDONO LA LOMBARDIA - GLI IMPERIALI CONQUISTANO IL REGNO DI NAPOLI, LO STATO DEI PRESIDII E LA SARDEGNA - PACE DI UTRECHT - TRATTATO DI RADSTADT

--------------------------------------------------------------

I PRETENDENTI ALLA CORONA DI SPAGNA - MORTE DI CARLO II FILIPPO V RE DI SPAGNA - VITTORIO AMEDEO II DI SAVOIA FA LEGA PRIMA CON LA FRANCIA POI CON L'IMPERO - ASSEDIO DI TORINO - PIETRO MICCA - BATTAGLIA DI TORINO

Sullo scorcio del secolo XVII regnava in Spagna CARLO II D'ABSBURGO, che era salito sul trono nel 1665. Essendo senza prole, con lui il ramo absburghese spagnolo era destinato a estinguersi. Aspiravano alla successione LUIGI XIV di Francia, l' imperatore LEOPOLDO I d'Austria, il principe elettorale di Baviera GIUSEPPE FERDINANDO e VITTORIO AMEDEO II di Savoia. Il primo era marito di Maria Teresa, sorella di Carlo II, la quale, sposando il sovrano francese, aveva per volontà del padre Filippo IV, rinunciato ad ogni diritto alla successione spagnola; e vi aspirava non per sè, ma per il Delfino; l' imperatore vantava diritti al trono di Spagna come nipote di Filippo III; Giuseppe Ferdinando era nato dal matrimonio di Massimiliano II di Baviera con Maria Antonietta, la quale era figlia di Leopoldo I e di Margherita Teresa, altra sorella di Carlo II questa era stata dichiarata dal padre erede del trono spagnolo se il fratello fosse morto senza prole, però la figlia, sposando Massimiliano aveva rinunziato al diritto materno; il duca di Savoia, infine, era pronipote dell' infante Caterina figlia di Filippo II e moglie di Carlo Emanuele I.

I più forti pretendenti erano Luigi XIV e Leopoldo I, i quali, dopo lunghe trattative, erano riusciti ad accordarsi sulla divisione futura dell'eredità spagnola: la casa di Borbone avrebbe avuto le Fiandre, la Franca Contea, la Navarra, la città di Rosas, il regno di Napoli, il ducato di Milano, le isole Filippine e le città spagnole della costa africana; la casa d'Austria avrebbe ricevuto la penisola iberica, la Sicilia, la Sardegna, lo Stato dei Presidi e l'America spagnola.

Questa divisione però sarebbe venuta a turbare profondamente l'equilibrio europeo ed avrebbe danneggiato gli interessi dell' Inghilterra, la quale, dovendo tutelare i suoi possessi marittimi, non poteva permettere che l'America spagnola passasse sotto il dominio di una grande potenza. Per questo motivo l' Inghilterra si era intromessa nella questione e nell'ottobre del 1698 aveva fatto sottoscrivere all'Aia un nuovo trattato di divisione, col quale l'America, la Spagna e le Fiandre venivano assegnate all'Elettore di Baviera, i regni di Napoli e Sicilia, lo Stato dei Presidii, il Marchesato del Finale e la Provincia di Guipuzcoa al Delfino di Francia, il ducato di Milano all'arciduca Carlo.

Quando il re di Spagna conobbe questo trattato stipulato a sua insaputa, mosso da vivo sdegno istituì con testamento segreto suo erede il principe elettorale di Baviera; ma questi, poco dopo, cessò di vivere a Bruxelles ed allora ricominciarono le pratiche diplomatiche per una nuova ripartizione dei domini della corona spagnola. Nel 1699 e nel 1700 intenso fu il lavorìo della diplomazia europea, al quale prese anche parte attivissima il duca di Savoia.

A lui, in un primo tempo, vennero assegnati i regni di Napoli e Sicilia e lo Stato dei Presidii in cambio dei possessi che aveva al di qua e al di là delle Alpi e che dovevano esser ceduti alla Francia; poi fu proposto di dargli la Spagna e l'America, da ultimo si tornò a proporgli il cambio dei suoi stati con Napoli e la Sicilia; ma Vittorio Amedeo non volle accettare e dichiarò di essere disposto a cambiare soltanto Nizza, la Savoia e Barcellonetta col Milanese e il marchesato del Finale.

La corte di Madrid protestava, sebbene inutilmente, contro le trattative che venivano fatte tra gli stati europei; ma intanto era necessario prendere una decisione per la successione e Carlo II non sapeva decidersi. Finalmente accettò il consiglio datogli dalla diplomazia francese di rimettere la questione al giudizio di alcuni teologi e giureconsulti, i quali gli proposero di nominare erede il duca d'Anjou, nipote di Luigi XIV. Dello stesso parere fu il pontefice Innocenzo XII. Allora Carlo II con testamento nominò il duca suo erede universale, e, nel caso che questi non accettasse, chiamò alla successione l'arciduca Carlo d'Austria.

Pochi giorni dopo (10 novembre del 1700) moriva Carlo II e tosto saliva al trono spagnolo il duca d'Anjou col nome di Filippo V, il quale venne riconosciuto in tutti i dominii della corona e trovò naturalmente un validissimo sostenitore in Luigi XIV. La corte di Vienna, invece, impugnò la validità del testamento di Carlo II e, poichè le proteste sarebbero state inutili e non c'era da sperare in possibili trattative col monarca francese, cominciò a far preparativi di guerra e si adoperò attivamente per cercare alleati contro la Francia e il nuovo re di Spagna.

In breve contro Filippo V e Luigi XIV si costituì una potente lega di cui fecero parte l' Inghilterra, l'Olanda, 1' imperatore Leopoldo e vari principi della Germania; in favore della Francia e della Spagna si schierarono la Baviera e il Portogallo. Degli stati italiani, il ducato di Parma, Venezia e Genova si dichiararono neutrali, il ducato di Modena, retto da Rinaldo d'Este cognato di Leopoldo, si pronunciò per la parte imperiale, Carlo IV duca di Mantova, il duca di Guastalla, il principe di Castiglione e il duca della Mirandola presero le parti di Luigi XIV. Vittorio Amedeo di Savoia, sollecitato dall'imperatore e da Luigi XIV, credette opportuno di schierarsi con la Francia, col proposito però di abbandonarla nel momento in cui l'avesse ritenuto necessario. Il 6 aprile del 1701 egli sottoscrisse con Luigi XIV un trattato di alleanza offensiva e difensiva impegnandosi a mettere in campo ottomila fanti e duemilacinquecento cavalli e ricevendo il grado di generalissimo di tutte le forze franco-ispane che avrebbero operato in Italia.

Malgrado l'alleanza del duca Vittorio Amedeo di Savoia, Luigi XIV e Filippo V si trovavano in istato d'inferiorità rispetto alla lega e decisero perciò di tenersi prudentemente sulla difensiva su tutti i punti fuorchè dal lato della Baviera; gli alleati invece, all'inizio delle ostilità, mossero risolutamente all'offensiva sul fronte dei Paesi Bassi e su quello italiano.

L'esercito anglo-olandese che operava nei Paesi Bassi era comandato da un valentissimo generale, il Marlborough, capo del partito wigh; spingendosi lungo la Mosa, cacciava davanti a sè il maresciallo di Boufiiers, al quale era affidata la difesa di quella frontiera, ed occupava parecchie piazze.

L'esercito che doveva operare in Italia era capitanato dal principe EUGENIO DI SAVOIA, il quale aveva sotto i suoi ordini il principe di Commercy, Guido di Stahremberg, il principe di Vaudemont e il generale d'artiglieria Bórner. Alla testa di trentamila uomini, Eugenio di Savoia discese dal Trentino nel Veronese e senza che il maresciallo CATINAT con i suoi sessantadue battaglioni di fanteria e ottantatrè squadroni di cavalleria potesse impedirglielo, passò l'Adige sotto Legnano, tra Castelbaldo e Villesbona, quindi, diviso in due l'esercito, con una parte prese a viva forza Castagnaro e il 9 luglio del 1701 sconfisse il nemico a Carpi, con l'altra penetrò nel territorio di Ferrara, passò il Mincio e costrinse i Francesi a ritirarsi oltre l'Oglio.

A rialzar le sorti della guerra Luigi XIV mandò in Italia il maresciallo di VILLEROY con l'ordine di arrestare i progressi del nemico unendosi alle truppe di Vittorio Amedeo. Ma il Villeroy non era uomo da stare a confronto con il principe Eugenio e il 7 settembre, venuto a battaglia con l'esercito imperiale a Chiari di Brescia, fu duramente sconfitto. Della disfatta, dovuta esclusivamente alla sua inettitudine, egli tentò di scolparsi con il suo sovrano accusando il duca di Savoia di segrete intese col nemico.

Mentre si iniziava la guerra nell'alta Italia, a Napoli si tramava una congiura per abbattere l'odiato dominio spagnolo, che la condotta del duca di Medina Coeli, vicerè, aveva reso intollerabile. Uno dei capi era TIBERIO CARAFA, il quale, insieme con gli altri, si rivolse per aiuto all' imperatore, chiedendo che concedesse ai Napoletani come re l' arciduca Carlo d'Austria, suo figlio. Nell'attesa che truppe imperiali scendessero in. soccorso dei congiurati, questi avevano stabilito di impadronirsi di Castelnuovo, del porto, delle galee, dei magazzini e dell'armeria.

Leopoldo I acconsenti alle richieste dei congiurati e allo scopo di prendere accordi sull'azione da svolgere mandò presso di loro don GIULIANO CAPECE, che militava sotto le sue bandiere con il grado di Colonnello, il SASSINET, segretario dell'ambasciata imperiale a Roma, e don Jacopo GAMBACORTA, principe della Macchia, dal quale la congiura prese nome. Si stabilì che l'impresa sarebbe stata tentata il 6 ottobre del 1701, nel qual giorno si doveva uccidere il vicerè, occupare di sorpresa i castelli della capitale ed acclamare re l'arciduca Carlo; ma, sebbene gli accordi fossero stati presi con gran segretezza, il Medina Coeli ebbe sentore della congiura e potè prendere le misure necessario a sventarla. I congiurati erano convinti di riuscire nell' impresa anticipando la data della sommossa, ma la congiura fallì lo stesso e i capi dovettero fuggire per non cadere nelle mani del vicerè, al quale non riuscì difficile, con provvedimenti di estremo rigore, di sedare il tumulto.

Intanto, nell'Italia settentrionale, la guerra continuava con la peggio per i Francesi. Borgoforte, Guastalla, Ostiglia, Ponte Molino, Mirandola, Canneto e Marcaria erano cadute in potere degli imperiali, i quali avevano anche occupato Borgo S. Donnino, Busseto, Roccabruna, Cortemaggiore, Brescello ed altri luoghi; Mantova, in cui si trovavano alcune truppe francesi comandate dal Tessè era stata bloccata e il principe Eugenio di Savoia aveva tentato di entrare a Cremona, dove il Villeroy aveva posto i quartieri d'inverno, riuscendo a far prigioniero il maresciallo.

Questi successi degli imperiali avevano fortemente scosso in Italia la posizione dei Francesi, i quali, per di più, cominciavano a preoccuparsi Per il contegno del duca di Savoia. Questi, infatti, irritato contro il Villeroy che lo aveva calunniato presso Luigi XIV, dopo la battaglia sfortunata di Chiari se ne era tornato con le sue truppe in Piemonte non tenendo nascosto il suo risentimento verso i Francesi che avevano mostrato di non volerlo considerare come generalissimo. Questo risentimento divenne più forte quando, venuto in Italia Filippo V, Vittorio Amedeo, che s'era recato ad Acqui ad incontrarlo, venne da lui trattato senza alcun riguardo. Offeso dalle umiliazioni che aveva dovuto subire e non volendo sottostare agli ordini del re, il quale, violando i patti dell'accordo franco-piemontese, intendeva assumere il comando supremo degli eserciti operanti in Italia, il duca di Savoia se ne tornò a Torino, deciso a non più partecipare personalmente alle operazioni militari e a passare al più presto dalla parte degli imperiali.

Per fronteggiare la situazione pericolante in Italia, Luigi XIV nella primavera del 1702 mandò numerose truppe, alla testa delle quali mise il duca di VENDÒME, che doveva prendere il posto del maresciallo Villeroy. A Cremona, il Vendome ebbe un colloquio con Filippo V e d'accordo con il sovrano stabilì di occupare subito Brescello e Guastalla per soccorrere Mantova assediata da Eugenio di Savoia. Questi però, prevedendo il disegno del nemico, aveva rinforzato le guarnigioni di quelle piazze; ordinato al suo generale Annibale Visconti di sorvegliare attentamente le mosse del Vendòme, evitando di venire a battaglia con lui; ma il Visconti si lasciò sorprendere a Santa Vittoria dai Franco-Ispani e, sconfitto, si diede a fuga disordinata lasciando sul campo numerosi morti e parte dei carriaggi che caddero nelle mani dei vincitori.

La vittoria del Vendóme rendeva pericolosa la situazione degli Imperiali intorno a Mantova perchè, guadagnato il Po, alle spalle potevano i Francesi tagliar loro la ritirata verso le Alpi. Per evitare la trappola Eugenio di Savoia tolse l'assedio da Mantova e si fortificò a Borgoforte, mentre il nemico occupava Reggio, Carpi e Modena e minacciava Guastalla e Suzzara ch'erano in potere degli Imperiali.

Data la vicinanza dei due eserciti una battaglia era inevitabile: essa fu combattuta a Suzzara nell'agosto del 1702 e fu sanguinosissima; i Francesi sostennero con molto vigore l'urto delle ali imperiali, comandate, la destra dal principe di Commercy, la sinistra dallo Stahremberg, ma stavano per essere travolti al centro dall'impeto della cavalleria nemica e dal fuoco terribile dell'artiglieria quando Filippo V e il Vendóme con abili mosse rialzarono le sorti pericolanti del loro esercito. La battaglia ebbe termine senza la vittoria di alcuno dei combattenti; ma Eugenio di Savoia credette opportuno allontanarsi e, lasciate in balia dei Francesi Guastalla, Suzzara e Borgoforte, andò a porre il campo oltre il Mincio.

Dopo la battaglia di Suzzara la guerra in Italia subì un rallentamento; cominciò invece a svolgersi con grande furore in Germania, dove la fortuna arrise ai Francesi comandati dal generale Villars, il quale, congiuntosi col duca di Baviera dopo aver cacciati oltre il Reno gli imperiali e averli sconfitti a Friedlingen, entrava a Innsbruck, mentre il duca di Vendóme marciava su Trento per unirsi con lui e gettarsi insieme contro Vienna.

Sebbene la guerra non volgesse propizia per l' impero, il duca di Savoia si manteneva nel proposito di unirsi alla lega contro Luigi XIV. Fin dal febbraio del 1702 egli aveva iniziato trattative segrete con l'imperatore chiedendo il Monferrato e il Milanese, eccettuate Mantova e Cremona, che sarebbero rimaste all' impero, e cedendo ai Gonzaga la Savoia. Le sue richieste non vennero accettate; gli si offrirono invece Alessandria e i feudi delle Langhe e Valenza, che Vittorio Amedeo avrebbe accettato se gli avessero dato anche Novara e la Valsesia.

Ma neppure queste proposte vennero accolte; infine al duca di Savoia si propose di dargli il Monferrato, l'Alessandrino, Valenza, la Lomellina e la Valsesia e di riconfermargli il dominio sulle Langhe. Su queste basi venne stipulato, l' 8 novembre del 1703, un accordo col quale Vittorio Amedeo s'impegnava di non rifare le fortificazioni di Casale e l' imperatore prometteva di aiutare il duca a conquistare le terre possedute dalla Francia al di qua del Monginevro. Vittorio Amedeo conservava gli eventuali diritti di successione al trono di Spagna, avrebbe ricevuto alla conclusione della pace il territorio di Vigevano e le cinque terre nel Novarese e avrebbe tenuto per sè le eventuali conquiste fatte nel Delfinato e nella Provenza mentre la Casa d'Austria avrebbe tenuto quelle fatte nella Franca Contea e nella Borgogna. L' Inghilterra e l'Olanda garantivano l'osservanza dei patti.

Luigi XIV, avuto sentore del trattato concluso dal duca di Savoia, ordinò al Vendóme di arrestare tutti i piemontesi - oltre diecimila - che militavano sotto le bandiere di Francia e di marciare con l'esercito verso il Piemonte. Allora Vittorio Amedeo II dichiarò guerra al potente monarca francese, affermando di non voler più rimanere in un'alleanza che gli altri avevano sempre violato e dicendosi disposto a morire con le armi in pugno pur di non essere ancora umiliato ed oppresso.

La dichiarazione di guerra fu accolta con gioia dai sudditi del duca, i quali, per l'odio che nutrivano contro i Francesi, si sobbarcarono volentieri a sostenere le ingenti spese e a sopportare i danni di una pericolosa campagna. Dalla Lega vennero a Vittorio Amedeo aiuti di denaro e di soldati: l' Inghilterra e l'Olanda gli mandarono centomila scudi, l' impero gl' inviò un contingente di truppe comandato dallo Stahremberg.

Ben presto il Piemonte provò gli orrori della guerra: due eserciti francesi lo invasero, uno al comando del duca di Vendòme, l'altro al comando del conte di Tessè e nell'estate del 1704 se ne aggiunse un terzo, capitanato dal duca de la Feuillade, il quale, varcato il Moncenisio, marciò contro Susa e dopo sei giorni la occupò. Nel medesimo tempo il Vendóme espugnava Vercelli, ne distruggeva le fortificazioni e faceva prigioniero il presidio composto di tredici battaglioni e di cinquecento cavalli, impadronendosi anche dell'artiglieria e delle munizioni.

Alla presa di Vercelli seguì quella d'Ivrea, della Val d'Aosta e della fortezza di Bard, dopo di che l'esercito del Vendòme potè congiungersi con quello del de la Feuillade. Anche il castello di Nizza e Monmeliano, ultima fortezza della Savoia che ancora resisteva, caddero nelle mani dei Francesi; Verrua seguì la sorte delle altre e al principio del 1705 altro non rimase di tutti i suoi stati a Vittorio Amedeo che Torino, all'assedio della quale mosse il nemico con tutte le sue forze.

Mentre in Piemonte la guerra procedeva male pel duca di Savoia, negli altri fronti i collegati riportavano clamorosi successi contro le armi di Luigi XIV e di Filippo V

Ad Hochstàdt l'elettore di Baviera e i marescialli francesi Marsin e Tallard, il 13 agosto del 1704, venivano gravemente sconfitti dalle forze unite di Eugenio di Savoia e del Marlborough lasciando sul campo dodicimila tra morti e feriti e nelle mani del nemico l'artiglieria, le bandiere, i bagagli e quattordicimila prigionieri: tra questi il maresciallo Tallard. Nei Paesi Bassi inolte il Marlborough batteva i Francesi a Ramillies e nella Spagna Filippo V era sconfitto dall'esercito dell'arciduca Carlo d'Austria e dalla flotta dell'Inghilterra, la quale impadronendosi di Minorca, Porto Mahon, e Gibilterra, iniziava la sua politica mediterranea.

Perché la guerra potesse procedere vittoriosamente per la Lega in tutti i fronti occorreva mandare in Italia grandi rinforzi che liberassero il duca di Savoia dalla grave situazione in cui si trovava. Dietro consiglio dell'Inghilterra e dell'Olanda, l' imperatore Francesco I, successo al padre Leopoldo, mandò in Italia un forte esercito al comando del principe Eugenio, il quale, sceso dalle Alpi, puntò verso l'Adda. A contendergli il passo il duca di Vendóme, che a Cassano, il 16 agosto del 1705, ingaggiò battaglia con gli imperiali. Durissimo fu il combattimento, che, cominciato nelle prime ore pomeridiane, terminò al tramonto; circa ottomila uomini caddero sul campo e numerosi furono quelli che perirono annegati nell'Adda; fra i morti si contarono il principe Giuseppe di Lorena e i generali Leiningen e Bibra.

La vittoria non fu di nessuno; ma gl'imperiali non riuscirono a passare l'Adda e andarono ad accamparsi nel territorio di Treviglio. La battaglia di Cassano fece comprendere al principe Eugenio che con le forze di cui disponeva non era possibile cacciare fuori il nemico dal Piemonte; fece quindi ritorno in Austria per procurarsi altre truppe, lasciando al comando dell'esercito rimasto in Italia il generale Reventlov.

Questi, nell'aprile del 1706, mosse contro i Francesi, ma a Calcinato sul Chiese venne sconfitto e si ritirò a Gavardo ad aspettarvi il ritorno di Eugenio di Savoia. Dopo la vittoria di Calcinato il duca di Vendóme si proponeva di gettarsi su Torino, quando venne da Luigi XIV richiamato in Francia per essere impiegato nei Paesi Bassi contro il Marlborough.

A succedergli nel comando dell'esercito operante in Italia, in attesa che giungesse il duca d'Orléans, fu chiamato il maresciallo Marsin, lo sconfitto di Rochstàdt, il quale, premuto dalle truppe imperiali, non seppe far di meglio che ritirarsi lentamente dalle posizioni conquistate per andarsi a congiungere col de la Feuillade, che già aveva incominciato l'assedio di Torino.

Nella primavera del 1706 la capitale del Piemonte era quasi circondata e stretta da ben sessantotto battaglioni francesi di fanteria e ottanta squadroni di cavalleria; centoventotto cannoni di grosso calibro e cinquanta mortai lanciavano incessantemente proiettili contro la cittadella, i bastioni e le ridotte di porta Susina e del Soccorso.

Torino, dotata tutt' intorno di solide fortificazioni, aveva viveri e munizioni per parecchi mesi, era dotata di trenta cannoni e ventiquattro mortai, che controbattevano egregiamente il tiro degli assediati, ed era presidiata da millecinquecento soldati di cavalleria e da ventitrè battaglioni di fanti, dei quali solo sei austriaci.

Vittorio Amedeo II, invece di rimanere inoperoso nella sua capitale, in attesa che gli eserciti della lega entrassero nel Piemonte per cacciarne i Francesi, uscì con un forte corpo di milizie col proposito di tenere aperte le vie di comunicazione, rifornire la città di viveri e munizioni e nello stesso tempo stancare il nemico molestandolo continuamente. Il de la Feuillade, appena vide il duca allontanarsi da Torino, gli corse dietro, sperando di farlo prigioniero e terminare così la guerra; ma Vittorio Amedeo non era uomo da lasciarsi cogliere alla sprovvista: con celerissime mosse fuggiva agli inseguimenti; abbondantemente informato dai contadini, eludeva e sventava gli agguati del nemico; piombava improvvisamente sulle retroguardie francesi o su schiere nemiche lontane dal grosso e le sbaragliava; intercettava i rifornimenti e catturava le colonne che recavano le vettovaglie.

Mentre il duca percorreva la campagna, il presidio di Torino sosteneva vigorosamente l'assedio. Il comando supremo delle forze assediate era tenuto dal conte Daun, il governo della città dal marchese Isnardi di Caraglio, che si era distinto nella difesa di Nizza, la cittadella era governata dal barone della Rocca d'Allery, che aveva valorosamente difeso la fortezza di Verrua; sopraintendente alle fortificazioni era il Bertola; coadiuvavano il marchese Isnardi i due sindaci della città: il conte di Valfenere e l'avvocato Broccardo.

Durante il memorabile assedio tutta la cittadinanza, senza distinzione di sesso, di ceto e di età, diede bellissime prove di costanza, di fede, di patriottismo e di valore; molti cittadini che presero le armi riuscirono a formare otto battaglioni che resero preziosi servigi alla difesa; il clero, infiammato dall'ardente parola dell'arcivescovo Vibò e dall'esempio del padre Sebastiano Valfrè, si prodigò ammirevolmente in atti di pietà; gli orfani e i poveri degli ospedali diedero la loro opera negli scavi e nel trasporto delle munizioni; numerose donne furono impiegate a trascinar fascine od altro nei luoghi battuti dalle artiglierie nemiche, mostrando grande coraggio e sprezzo del pericolo.

Si combatteva di giorno e di notte; i Francesi sferravano frequenti e vigorosi assalti ai bastioni, ma sempre venivano sanguinosamente respinti; piovevano i proiettili nella città recando strage e rovine, ma il coraggio dei difensori non venne meno un solo istante e quando il nemico, visti inutili tutti i tentativi di prendere a viva forza la città, cominciò a scavar mine e gallerie, gli assediati non si sgomentarono e risposero scavando altre gallerie e alle mine opponendo contromine.

Enumerare tutti gli atti di valore dei Torinesi sarebbe lungo: valga per tutti quello del biellese Pietro Micca, che, col sacrificio della propria vita, salvò la patria.

Era la notte del 23 agosto del 1706. Per il giorno dopo il duca d'Orléans, che era giunto con grandi rinforzi di truppe francesi, aveva ordinato un assalto generale. Quella notte, come sempre, gli assediati facevano buona guardia per impedire che i nemici tentassero delle sorprese dalle numerose brecce aperte nelle mura e dalle gallerie sotterranee. In una di queste gallerie scavata presso la porta del Soccorso vigilavano alcuni soldati. Sul far della mezzanotte essi videro quattro granatieri francesi penetrar silenziosamente nel sotterraneo. Affrontarli e spacciarli a colpi di daga fu questione di pochi minuti; tre altri granatieri venuti dopo seguirono la sorte dei primi, ma dietro di loro vennero altri ed ebbero ragione dei difensori, poi occupata la galleria, si diedero a tempestar di colpi una porta che metteva in comunicazione con un'altra galleria di contromina.

Dietro la porta stavano Pietro Micca e un soldato. L'oscuro minatore pensò di correre alla porta del Soccorso per avvisare del pericolo i soldati che vi stavano di presidio, ma, visto che gli sarebbe mancato il tempo, fatti pochi passi tornò indietro. I Francesi intanto si affaccendavano dietro la porta per abbatterla. Pochi minuti ancora e questa sarebbe stata divelta e i nemici avrebbero fatto irruzione entro la città. Una sola cosa si poteva tentare per impedire il passo ai Francesi: dar fuoco ad una mina preparata dietro la porta. Pietro Micca sapeva che era impossibile scampare alla morte, pure non esitò un istante pur di salvare la città. Al soldato che gli stava vicino e che non gli sembrava troppo svelto disse: levati, sei più lungo di una giornata senza pane; lasciami, salvati. Altri affermano che aggiungesse: raccomanda al governatore i miei figliuoli e la mia moglie perchè fra pochi minuti non avranno più nè padre nè marito.

Il soldato si pose in salvo; Pietro Micca allora diede fuoco alla mina e questa, scoppiando fragorosamente, seppellì lui e parecchie centinaia di granatieri francesi che già avevano occupato il terreno sovrastante. Al rumore, accorsero numerosi soldati piemontesi, i quali, postisi a guardia di quel luogo, impedirono che i nemici, approfittando dello scompiglio e della rovina, tentassero di penetrare dentro Torino.

Il giorno dopo, com'era stato deciso, il duca d'Orléans diede con tutte le sue truppe l'assalto alla città. Lo sforzo maggiore del nemico venne fatto contro la ridotta di porta Susina, la quale sarebbe senza dubbio caduta in potere degli assalitori se non si fosse ripetuto l'eroico atto di Pietro Micca. I minatori, che stavano di guardia di quel baluardo, visto il pericolo, diedero fuoco ad una mina che fece saltare in aria un gran numero di Francesi che si trovavano presso la ridotta, costringendo a fuga precipitosa i superstiti.

Calava intanto con poderosi rinforzi imperiali il principe EUGENIO DI SAVOIA. Per giungere nel Piemonte egli doveva attraversare una vasta regione occupata dai nemici, che, in campo aperto o dalle fortificazioni, potevano ostacolarlo potentemente e impedirgli di giungere in tempo a salvare Torino; ma il grande generale, con un'abilissima marcia che rappresenta una delle pagine più belle della sua vita militare, seppe evitare tutti gli ostacoli e congiungersi con il cugino Vittorio Amedeo che si trovava accampato a Carmagnola. Questi, quando seppe dell'avvicinarsi del principe, gli andò incontro a Villastellone, e tutti e due, unite le loro forze che sommavano a diecimila cavalli e ventiquattromila fanti, andarono a mettere il campo tra Chieri e Moncalieri.

Di là i due cugini, seguiti da uno stuolo di ufficiali, salirono sul colle di Superga per dare l'annunzio del loro arrivo alla città assediata, osservare l'accampamento nemico e stabilire da qual parte avrebbero attaccato i Francesi. I quali, appena ebbero notizia dell'arrivo dell'esercito imperiale, riunirono un consiglio di guerra. Diversi furono i pareri dei capi: il duca d'Orléans e il de la Feuillade proponevano che si assalisse il principe Eugenio in campo aperto, il maresciallo Marsin ed altri erano del parere di aspettar nelle trincee l'assalto dei nemici. Prevalse quest'ultimo consiglio.

All'alba del 7 settembre del 1706 tutto l'esercito austro-piemontese mosse all'assalto del campo trincerato dei Francesi. L'ala sinistra, operante dalla parte della Stura, era comandata da Vittorio Amedeo, l'ala destra sotto il comando di Eugenio di Savoia operava dalla parte della Dora Riparia. Anche le milizie assediate in Torino vollero prender parte alla battaglia e dieci battaglioni, guidati dal conte Daun, uscirono dalla porta Susina e si gettarono sul nemico mentre i tetti delle più alte case si gremivano di gente desiderosa di assistere al combattimento che doveva decidere delle sorti della città.

Aspra oltre ogni dire fu la battaglia. I Francesi si difesero con grande bravura fulminando gli assalitori con un fuoco nutrito di moschetteria e con i cannoni caricati a mitraglia e più volte respinsero gli austro-piemontesi che con furore ritornavano ripetutamente all'assalto. Ma l'impeto dei confederati alla fine ebbe ragione dell'ostinata resistenza, francese. Vittorio Amedeo, caricando coni suoi piemontesi il nemico, ne travolse rovinosamente le difese e irruppe nel campo. Dalla parte della Dora i Francesi fecero più lunga resistenza, ma quando seppero che dall'altro lato i trinceramenti erano stati rotti e superati, si ritrassero disordinatamente indietro e, dopo aver tentato un supremo sforzo per rialzare le sorti della battaglia, completamente battuti si diedero alla fuga, incalzati fino ad Avellana e decimati dai montanari nel ripassare le Alpi.

Grande fu il bottino che fecero i vincitori: caddero nelle loro mani oro, argento, tende, equipaggi, bagagli, duecento cannoni, centocinquanta mortai, cinquemila bombe, quindicimila granate, quarantottomila palle, quattromila casse di cartocci, ottomila barili di polvere, duemila buoi, altrettanti cavalli e cinquemila muli. I morti francesi furono duemila, senza contare quelli annegati nel Po, i prigionieri seimila, i feriti milleottocento. Fra i prigionieri si contarono il maresciallo Marsin, che morì il giorno dopo per le ferite riportate, il generale luogotenente Murcey, il generale di cavalleria La Bretonnière, i marescialli di campo De Semetere e De Villiers, il brigadiere marchese de Bonneval, due colonnelli, cinque luogotenenti-colonnelli, tre colonnelli-sergenti di cavalleria, sessantotto capitani, settantuno luogotenenti, diciotto sottoluogotenenti, quattordici alfieri e venti ufficiali commissari.

I FRANCESI CACCIATI DAL PIEMONTE GLI SPAGNOLI PERDONO LA LOMBARDIA, NAPOLI, LA SARDEGNA E LO STATO DEI PRESIDII TRATTATI DI UTRECHT E DI RADSTADT

Il medesimo giorno della vittoria i confederati entrarono a Torino, accolti dalla popolazione tripudiante. Sul colle di Superga Vittorio Amedeo II, sciogliendo un voto che aveva fatto alla Vergine, fece poi innalzare una magnifica basilica che ricorda la grande vittoria sui Francesi e accoglie le tombe di non pochi membri della casa Sabauda.

Dopo la sconfitta di Torino, le sorti delle armi francesi in Italia precipitarono: furono riconquistate Vercelli, Chivasso, Ivrea, Verrua, il forte di Bard, Crescentino, Pinerolo ed Asti e dei domini sabaudi non rimasero alla Francia che la Savoia, Nizza, Susa e qualche altra fortezza.

Anche la Lombardia spagnola fu perduta: i Milanesi si sollevarono e il Vaudemont e il Medavì, sapendo di non potere resistere ai confederati, che si avvicinavano, abbandonarono con le truppe la città, lasciando però nel castello una forte guarnigione, la quale oppose al nemico un'accanita resistenza. Oltre Milano, caddero in potere degli imperiali Pizzighettone, Tortona e Alessandria, e il Milanese, strappato in breve al nipote di Luigi XIV, fu dato all'arciduca Carlo, competitore di Filippo V.

Il 13 marzo del 1707, tra il principe Eugenio e il conte Medavì fu concluso un armistizio, cui tenne dietro un accordo con il quale si dava facoltà alle truppe francesi di uscire dall' Italia, si stabiliva lo scambio dei prigionieri, si cedeva dai Franco-Ispani il castello di Milano, venivano sgombrate dai Francesi tutte le piazze della Lombardia ed era restituita Modena al duca Rinaldo.

I principi italiani che avevano abbracciato la causa di Luigi XIV furono abbandonati alla loro sorte; così Ferdinando Carlo Gonzaga di Mantova, Ferdinando Gonzaga principe di Castiglione delle Stiviere e Francesco Pico della Mirandola vennero con decreto imperiale spogliati dei loro domini. Gli stati e i principi che s'erano mantenuti neutrali dovettero subire anch'essi le conseguenze della vittoria della Lega: Venezia vide il suo territorio attraversato dagli eserciti imperiali, il granduca Cosimo III di Toscana fu costretto a pagare all'impero le spese della guerra e a permettere che Siena fosse considerata come feudo imperiale, il duca di Parma, sebbene prima delle ostilità avesse inalberato il vessillo pontificio, dovette pagare ottantacinquemila doppie, nè valsero le proteste e la scomunica, anzi ebbe l' intimazione dall' imperatore, che lo riguardava come suo vassallo, di presentarsi a Milano davanti a lui entro quindici giorni per ricevere l'investitura del ducato.

Neppure il duca di Savoia fu risparmiato quantunque membro della Lega; difatti, con palese violazione dei patti, gli fu rifiutato il possesso del territorio di Vigevano e negata l' investitura dei feudi delle Langhe. Anche il Papa ebbe a subire la prepotenza dell' imperatore, che, considerando Comacchio come suo feudo, lo fece occupare e minacciò di fare avanzare le sue truppe su Ferrara. Il Pontefice tentò di far valere con la forza i suoi diritti, poi pensò meglio di scendere ad accordi e nelle trattative avute a Roma col marchese di Priè, ambasciatore imperiale, segretamente stabilì di riconoscere come re di Napoli l'arciduca Carlo, che la Lega aveva proclamato re di Spagna col nome di Carlo III, permise che gli Austriaci presidiassero Comacchio e ridusse a cinquemila gli effettivi delle proprie milizie.

Continuava intanto la guerra contro Luigi XIV e Filippo V. L' Inghilterra e l'Olanda, che volevano anche fiaccare sul mare la potenza della Francia, tentarono ma con esito infelice di impadronirsi del porto e della città di Tolone. Fallito questo tentativo, fu deciso di muovere alla conquista del regno di Napoli. Il 23 giugno del 1707 il conte Daun alla testa di cinquemila fanti e tremila cavalli entrò nel reame indifeso e marciò su Napoli che il 7 luglio accolse con gioia l' invasore. Dopo la presa della capitale tutte le altre terre riconobbero la nuova signoria.

Anche lo Stato dei Presidii e la Sardegna caddero facilmente nelle mani dei Tedeschi, invece la Sicilia, che era governata dal vicerò Los Balbeses, oppose fiera resistenza. Dopo l'impresa di Napoli, il Daun fece ritorno in Piemonte e due volte cercò, ma invano, di cacciare i Francesi dalla Tarantasia e dal territorio di Genova.

Gli alleati intanto rivolgevano tutte le loro forze al nord della Francia. Nell'estate del 1708 il principe Eugenio di Savoia raggiungeva nelle Fiandre il Marlborough e, data battaglia al duca di Vendóme presso Oudenarde, lo sconfiggeva duramente, costringendo i Francesi ad una ritirata disastrosa e a sgombrar Lilla che fu occupata dagli alleati.

Con la vittoria di Oudenarde e la presa di Lilla la Francia si trovava esposta all' invasione nemica. Nelle tristi condizioni in cui versava, Luigi XIV depose il suo orgoglio e chiese la pace, promettendo che avrebbe indotto Filippo V a rinunziare al dominio di Napoli, Sicilia e Sardegna e impegnandosi, in caso che il nipote rifiutasse, di ritirare dalla Spagna tutte le sue truppe. Ma la Lega pretese che il re di Francia cedesse parecchie piazze sui confini dei Paesi Bassi, restituisse l'Alsazia e scacciasse dalla Spagna Filippo. Erano condizioni pesanti e inaccettabili per l'arrogante monarca francese e, troncate le trattative, si diede nuovamente la parola alle armi.

Nel settembre del 1709 un esercito francese comandato dal maresciallo Villars fu sconfitto a Malplaquet dai confederati, e Luigi XIV chiese nuovamente la pace e trovò l'Olanda e l' Inghilterra disposte ad accogliere la domanda. Queste due potenze oramai erano stanche della lunga guerra; avevano inoltre interesse di non continuare nell'alleanza con l'Austria perchè, essendo morto l' imperatore Giuseppe I senza prole maschile, il fratello Carlo, suo erede e competitore di Filippo V, sarebbe stato troppo potente unendo alla corona d'Austria quella di Spagna. A dare una spinta maggiore alla pace concorsero più tardi le vittorie riportate il 9 e il 20 dicembre del 1710 dal duca di Vendóme sugli austriaci a Brihuega e a Villaviciosa in Ispagna.

L'Inghilterra mandò in Francia l'abate Gualtier, il quale, insieme col conte di Oxford e con lord Bolinghroke, iniziò trattative segrete con Luigi XIV, le quali portarono ad un accordo tra le due potenze concluso con il consenso di Filippo V. Due convenzioni preliminari vennero sottoscritte: nella prima si stabiliva che Luigi XIV riconoscerebbe Anna come regina d' Inghilterra e l'ordine di successione nella linea protestante d'Annover, che si stipulerebbe un nuovo trattato di commercio tra i due Stati, che si demolirebbe Dunkerque, che gl' Inglesi conserverebbero Gibilterra, Porto Mahon e l' isola di S. Cristoforo e inoltre si renderebbero loro l' isola di Terranova e la baia di Hudson; nella seconda si conveniva fra l'altro che Luigi XIV s'impegnerebbe per la separazione delle due corone di Francia e di Spagna, che cederebbe all'Olanda una linea di piazzeforti e che non si opporrebbe alla costituzione di una barriera sicura a favore dell' imperatore e di Vittorio Amedeo II.

Ai confederati venne data comunicazione dei soli articoli che riguardavano la pace generale e fu stabilito di convocare un congresso in Utrecht per il gennaio del 1712. Il congresso venne aperto il 23 gennaio. La Francia era rappresentata dal maresciallo d'Hugelles, dall'abate di Polignac e da Nicolò Mesnager; l' Inghilterra dal vescovo Robinson di Bristol e dal conte di Stofford; l'Olanda da Vander Dussen e Buys ed altri diplomatici; l'imperatore Carlo VI dal conte Sinzendoff, dal conte Diego Hurtado di Mendoza e dal consigliere Consbruke; il Portogallo da Luigi d'Accenha dal conte di Taronca; il re di Prussia dal conte Doenhoff, dal conte Metternich e dal barone Biberstein; il duca di Savoia dal marchese Solaro del Borgo, dal conte Annibale Maffei e dal consigliere Pietro Mellarede.

Il duca di Savoia chiese di esser chiamato, dopo la casa d'Austria, alla successione di Spagna, che gli fossero restituite tutte le terre occupategli durante la guerra, che Luigi XIV gli cedesse Fenestrelle, Exilles, Castel Delfino, Monte Delfino, il distretto di Brianeon, la valle di Queiras, il forte di Barreaux, alcune terre oltre il Rodano e Monaco, che fossero rispettate tutte le cessioni fattegli da Leopoldo I col trattato del 1703, e che gli fosse infine permesso di fortificare i luoghi cedutigli.

Anche gli altri stati italiani presentarono le loro richieste al congresso: Venezia domandò di esser indennizzata dei danni sofferti, i duchi di Guastalla e di Mirandola di essere rimessi nei loro stati, il duca di Parma chiese di succedere alla corona granducale di Toscana all'estinzione della casa medicea; Gian Gastone de' Medici domandò come indennizzo i porti del Senese.

L' imperatore pretendeva per sé non solo il possesso della Spagna, ma anche l'Alsazia e gli acquisti che la Francia aveva fatti con i trattati di Miinster, di Nimega e di Ryswick; ma queste richieste erano inaccettabili da parte di Luigi XIV, il quale, prometteva di riconoscere Carlo VI, il re di Prussia e l'elettore di Annover, si impegnava di dare ogni garanzia perché Filippo V non fosse mai re della Francia e della Spagna e delle colonie americane.

Non potendosi venire ad un accordo il congresso fu sospeso, ma continuarono le trattative tra Londra e Parigi e il 22 giugno del 1712 la Francia e l'Inghilterra stipularono un armistizio di sei mesi, impegnandosi di fare tutto quello ch'era possibile allo scopo di procurare la conclusione della pace generale. L'Inghilterra riuscì di convincere Filippo V ad accontentarsi della Spagna e dell'America e a cedere la Sicilia a Vittorio Amedeo di Savoia, ma Carlo VI rifiutò di accettare le disposizioni relative alla Sicilia e mandò un esercito contro i Francesi. Questi però, guidati dal Villars, rimasero vittoriosi alla battaglia di Denain combattutasi nel luglio del 1712.

Carlo VI temendo che i suoi antichi alleati gli si voltassero contro, nel marzo del 1713 sottoscrisse ad Utrecht una convenzione per lo sgombero della Catalogna e per l'armistizio d' Italia, ma non volle un mese dopo, aderire alle proposte di pace fatte dalla Francia. Le trattative fra i contendenti furono continuate senza che lui potesse confutare la stipulazione di vari trattati.

Vittorio Amedeo II ne sottoscrisse due: uno con la Francia e l'altro con la Spagna. Quello con la Francia costava di venti articoli. Luigi XIV restituiva la Savoia, Nizza e tutti gli altri luoghi occupati durante la guerra; cedeva la valle di Pragelas suoi forti di Exilles e di Fenestrelle, le valli di Oulx, Cesana, Bardoneche, Castel Delfino e tutto il versante piemontese delle Alpi; riconosceva Vittorio Amedeo re di Sicilia, gli assicurava la successione di Spagna qualora si estinguesse la dinastia di Filippo V ed approvava le cessioni fattegli dall' imperatore Leopoldo con il trattato del 1703; in cambio il duca di Savoia cedeva alla Francia la valle di Barcellonetta con le sue dipendenze.

Con il secondo trattato Filippo V cedeva al duca di Savoia la Sicilia e le isole dipendenti le quali però dovevano tornare alla Spagna nel caso che si estinguesse la prole maschile Sabauda. Oltre questo si riconosceva a Vittorio Amedeo il diritto di succedere al trono spagnolo qualora fosse mancata una discendenza maschile di Filippo V.

Con la pace di Utrecht terminava la guerra tra la Francia da una parte e l' Inghilterra, l'Olanda e il Piemonte dall'altra e da queste ultime potenze Filippo era riconosciuto re della Spagna. Rimanevano ancora in lotta la Francia e l'impero; ma questa guerra, data la stanchezza dei due stati, non doveva durare a lungo. Manifestatosi desiderio di concludere la pace, si scelse come luogo delle trattative il castello di Radstadt e qui convennero il principe Eugenio di Savoia come plenipotenziario imperiale e il maresciallo di Villars come plenipotenziario francese. Le conferenze cominciarono nel novembre del 1713 e il 7 marzo del 1714 venne firmato un trattato, che, confermato più tardi a Basilea, pose fine alla guerra di successione di Spagna, ch'era durata undici anni.

un approfondito link sulla storia di Genova:
Genova nei secoli d’oro


Altri argomenti collegati:


STORIA DELL’ISOLA DI SCIO PRIMA DEI GIUSTINIANI
LA VITA AMMINISTRATIVA DEI GIUSTINIANI A SCIO
“L’OCHIO DRITO DE LA CITÀ NOSTRA DE ZENOA” IL PROBLEMA DELLA DIFESA DI CHIO NEGLI ULTIMI ANNI DEL DOMINIO GENOVESE. di Enrico Basso tratto da: Associazione di studi storici militari
LE MONETE A CHIOS AL TEMPO DEI GIUSTINIANI (Si ringrazia in particolar modo il Prof. Andreas Mazarakis per il suo contributo alla stesura di questo paragrafo)
NOTIZIE ARALDICHE E VICISSITUDINI STORICHE DELLE FAMIGLIE DI ORIGINE GENOVESE A CHIOS DOPO IL 1566

I Genovesi d'Oltremare i primi coloni moderni (Michel Balard – IL SECOLO XIX – 29/4/2001)
STORIA DELLA CITTA’ DI GENOVA DALLE SUE ORIGINI ALLA FINE DELLA REPUBBLICA MARINARA

Una pagina di storia importante ha visto come protagonista Pietro Giustiniani, Ammiraglio della flotta dei Cavalieri di Malta e Gran Priore dell’Ordine.
LA BATTAGLIA DI LEPANTO 7 OTTOBRE 1571

STORIA DI GENOVA E DEL REGNO DI SPAGNA IN ITALIA DAL 1600 AL 1750
IL REGNO VENEZIANO DI MOREA E L’ULTIMA GUERRA CRISTIANA CONTRO I TURCHI A SCIO DEL 1695
Pirati e pirateria nel Mediterraneo medievale: il caso di Giuliano Gattilusio di Enrico Basso. Stampa in Praktika Synedriou “Oi Gatelouzoi tìs Lesbou”, 9-11 septembríou 1994, Mytilini, a cura di A. Mazarakis, Atene 1996 (“Mesaionikà Tetradia”, 1), pp. 343-371 © dell’autore - Distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”
Nuclei famigliari da Genova a Chio nel quattrocento di Laura Balletto
Gli orizzonti aperti. Profili del mercante medievale , a cura di G. Airaldi, Torino 1997 © degli autori e dell'editore. (Indice. - Gabriella Airaldi, Introduzione. Per la storia dell’idea di Europa: economia di mercato e capitalismo. - Jacques Le Goff, Nel Medioevo: tempo della Chiesa e tempo del mercante. - Roberto S. Lopez, Le influenze orientali e il risveglio economico dell’Occidente. - Eliyahu Ashtor, Gli ebrei nel commercio mediterraneo nell’alto medioevo (secc. X-XI). - Abraham L. Udovitch, Banchieri senza banche: commercio, attività bancarie e società nel mondo islamico del Medioevo. - Nicolas Oikonomides, L’uomo d’affari. - Armando Sapori, La cultura del mercante medievale italiano. - David Abulafia, Gli italiani fuori d’Italia. - Gabriella Airaldi, Modelli coloniali e modelli culturali dal Mediterraneo all’Atlantico. - Jacques Heers, Il ruolo dei capitali internazionali nei viaggi di scoperta nei secoli XV e XVI. - Gabriella Airaldi, L’eco della scoperta dell’America: uomini d’affari italiani, qualità e rapidità dell’informazione)

Molto documentazione su questo periodo storico su: