PALAZZO GIUSTINIANI A ROMA

"…questa Casa è alta, la facciata per fianco è di passi 30… A terreno non vi sono loggie perché sono stanze ove sono cinque stanze da padroni ed doi che ne tiene il Sig. Vincenzo Giustiniani. Vi sono stanze poi per Palafrenieri, dispense et altri servitij, al primo piano vi è una sala con otto fra camere e anticamere…et vi è la Galleria et Cappelletta ove si dice messa…"

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 Il palazzo Giustiniani, a sinistra in una stampa di Alessandro Specchi (1666 – 1729), a destra in un'incisione di Jean Barbault (1705-1766) 

Quando intorno al 1740 Charles de Brosses visitò Palazzo Giustiniani era già arrivata la decadenza: aveva nell'interno un aspetto misero e sporco e nonostante la presentazione di una straordinaria quantità di statue antiche, che erano state trovate nelle terme di Nerone durante la costruzione dell'edificio, l'insieme era un misto di buono e di cattivo, abbandonato senz'ordine e senza ornamenti.
Il barone francese intuì quello che sarebbe accaduto nel 1815, quando fu dispersa la collezione di opere d'arte. Già a quell'epoca si poteva comprare tutto con tre o quattrocentomila scudi e il principe Giustiniani aveva l'aria di un uomo molto male in arnese.

Era un edificio elegante, ristrutturato da Giovanni Fontana: così ricorda il Baglione anche se, mancandogli prove sull'autore dell'intervento, si mantenne sul sentito dire. Ed è qui che erano conservati quindici dipinti di Caravaggio, decine di capolavori e non poche copie, se è vero quello che scrisse De Brosses: un salone era coperto dall'alto in basso da Madonne di Raffaello. Non mancava una ricca biblioteca, voluta da Vincenzo Giustiniani, dove erano conservate fra i tanti libri di argomento legale, curiale e storico, due copie dell'Alberti. Per la famiglia Giustiniani erano giorni felici e intorno al 1650 cominciarono nuovi lavori cui fu chiamato a sovrintendere Francesco Borromini: fu modificato l'interno, completato il fronte su via della Dogana che divenne la facciata principale. Altri interventi furono eseguiti per tutta la seconda metà del secolo.

Poi il lento declino. All'inizio dell'Ottocento fu dispersa la collezione, nel 1898 parte del palazzo fu espropriata dalla cassa di Risparmio agli eredi del marchese Domenico Ottone Giustiniani.
Seguirono complesse vicende e al contempo modifiche sostanziali del volto del palazzo, sopraelevato più di una volta. Dall'inizio del Novecento divenne proprietà e sede della massoneria, del Grande Oriente d'Italia. Anche se durante il fascismo le logge massoniche furono sciolte e lo Stato rivendicò la proprietà dell'edificio, il palazzo tornò alla massoneria alla fine della seconda guerra mondiale e soltanto da tredici anni è interamente occupato dal Senato.
E' una lunga storia dunque, perennemente segnata da ristrutturazioni (come la galleria sotterranea che collega Palazzo Giustiniani e palazzo Madama) e restauri poco felici. Non sempre s'avverte pienamente lo splendore seicentesco.

Porta a porta - Palazzo Giustiniani - 22/03/2018 - RaiPlay
(RAI News cultura) I tesori di Palazzo Giustiniani di Costantino D'Orazio  

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Il Marchese Vincenzo Giustiniani ed un prospetto del Palazzo

Palazzo Giustiniani è frutto di accorpamenti, trasformazioni, modifiche strutturali che dal Cinquecento si sono succedute fino ad oggi.
I primi lavori di adattamento risalgono agli anni 1585-1587 e si devono alla famiglia Vento, proprietaria dell'edificio o di una parte di esso prima dei Giustiniani.
Fu alla morte di Pietro Vento (1588) che con ogni probabilità Giuseppe Giustiniani e il cardinale Benedetto, il maggiore dei suoi figli, presero residenza nel palazzo, dapprima in qualità di affittuari e poi come proprietari (1590).
Non è chiaro a chi attribuire la paternità dell’originaria architettura del palazzo, ma fonti e documenti menzionano i nomi di Giovanni Fontana e Carlo Maderno.
Nel 1600, alla morte di Giuseppe Giustiniani, i figli Benedetto e Vincenzo ereditarono il palazzo e continuarono ad abitarlo insieme, arricchendolo con le loro straordinarie raccolte di pittura e di scultura antica e moderna.
Nei primi quattro decenni del Seicento, sotto l'ala protettrice del marchese Vincenzo, vi trovarono ospitalità numerosi artisti italiani e forestieri.
Qui il cardinale Benedetto riceveva personalità ai più alti livelli della politica europea, in connessione con le prestigiose cariche da lui ricoperte nella carriera ecclesiastica. In una lapide conservata nel palazzo resta memoria che, nella cappella, Benedetto impose l’abito sacerdotale a S. Giuseppe Calasanzio, fondatore delle scuole pie per l'alfabetizzazione del poveri.
Grazie alla lettura degli inventari è stato possibile comprendere come i due fratelli si fossero spartiti gli spazi a disposizione: Benedetto abitava al piano nobile, nell'appartamento orientato verso via dei Crescenzi e anche in quello verso via Giustiniani, un tempo del padre, mentre Vincenzo aveva per sé il secondo piano e le cosiddette tre stanze dei "quadri antichi".
Dopo la morte del fratello maggiore tutto il palazzo rimase a disposizione del marchese.
Privo di eredi, Vincenzo lasciò ogni suo bene al figlio adottivo Andrea Giustiniani Banca, che nel 1640 sposò Maria Pamphilj, nipote del futuro papa Innocenzo X. Spinto dal prestigio conferitogli dall’illustre parentela, e dai nuovi oneri e privilegi conquistati alla famiglia, Andrea intraprese, a partire dall'anno giubilare 1650, un’ingente opera di ampliamento del palazzo, sotto la supervisione di Francesco Borromini, che inglobò nella costruzione lotti adiacenti man mano acquisiti.
I lavori proseguirono, dopo la morte di Andrea, ad opera della moglie e del figlio Carlo Benedetto, con la costruzione dello scalone e del cortile, decorato da antichi bassorilievi.
Ai primi del Settecento i suoi successori proseguirono l’espansione del palazzo fino a Piazza della Rotonda. Ancora frequentato da grand-tourists e da artisti nel XVIII secolo, e descritto in tutte le guide per la ricchezza della collezione che vi era ospitata, dall'inizio dell'Ottocento le sorti del palazzo andarono decadendo.
Dispersa la raccolta di sculture e dipinti, tra la fine del Settecento e il primo quarto del secolo successivo, ad opera di Vincenzo Giustiniani junior; dal 1826, anno della morte dell’ultimo erede dei Giustiniani di Roma, il palazzo conobbe una fase di progressivo degrado, legata anche a complicati passaggi di proprietà. Affittato alla metà dell'Ottocento alla rappresentanza diplomatica dello zar di Russia e sede di studi di artisti, l'edificio veniva persino descritto da Gogol come "uno dei più brutti palazzi di Roma, se non proprio il peggiore".
Nel 1901 subiva l’attenzione delle cronache come sede centrale della Massoneria italiana. Il Gran Maestro era, all’epoca, il sindaco di Roma Ernesto Nathan. La sede fu inaugurata il 21 aprile di quell'anno (La Massoneria sua azione suoi fini discorso di Ernesto Nathan per l'innaugurazione della sede massonica di Palazzo Giustiniani 21 aprile 1901) epoca erano in affitto al costo di 11mila lire annue. L’acquisto dell’intero immobile al numero 29 di via della Dogana Vecchia a Roma, consistente in 7 piani e 405 vani, al prezzo di un milionecinquantacinquemila lire ebbe luogo successivamente, il 16 febbraio del 1911 a perfezionamento del compromesso, datato 18 marzo 1910. A questo fine venne anche costituita la Società Urbs nel cui cda figuravano l’allora Gran Maestro Ettore Ferrari, succeduto a Nathan, il Gran Maestro Aggiunto Achille Ballori che proprio a Palazzo Giustiniani verrà assassinato per mano di un attentatore il 31 ottobre del 1917 e i membri di giunta.
Durante il fascismo, le milizie squadriste assaltarono Palazzo Giustiniani il 7 agosto1924, il 13 e 15 settembre 1924 e il 31 ottobre 1924. Il 4 novembre del 1925 il Governo, attribuendo al Grande Oriente d’Italia un progetto di attentato a Benito Mussolini, fece diramare un lungo comunicato nel quale si leggeva, fra l’altro: “In seguito alle risultanze dei primi accertamenti sono state date disposizioni ai Prefetti del Regno per l’immediata occupazione di tutte le logge massoniche dipendenti da Palazzo Giustiniani”. Il giorno successivo, il 5 novembre 1925, l’edificio venne occupato, in concomitanza, Domizio Torrigiani, legale rappresentante pro tempore dell’Urbs e, al contempo gran maestro del Grande Oriente d’Italia, fu arrestato dal regime fascista e mandato al confino prima nell’isola di Lipari e poi a Ponza. Di lì a poco fu emanato il regio decreto-legge n. 2192 del 22 novembre 1925, con il quale fu prevista la facoltà del Governo di dichiarare la nullità degli atti di compravendita degli immobili di valore storico e artistico nazionale oggetto di tutela e con il decreto del 20 gennaio 1926 del Ministro della Pubblica Istruzione fu esercitato il diritto di prelazione su Palazzo Giustiniani nonostante l'opposizione della società U.r.b.s. (la Massoneria di Palazzo Giustiniani) a fronte del pagamento da parte dello Stato di lire 4.000.000,00. Mussolini aderì alla richiesta dell’allora Presidente del Senato del Regno, Tommaso Tittoni e concesse l’utilizzo di palazzo Giustiniani al Senato. Caduto il regime, Caduto il regime, nel 1947 il Grande Oriente rivendicò inutilmente la proprietà dell'immobile, divenuto nel frattempo sede degli uffici del Senato istaurando un nuovo giudizio civile per far dichiarare nullo, per vizio di consenso a causa di violenza l'atto di vendita del 1927 e ottenere, per la restituzione del bene immobile, ma perse tutti e tre i gradi di giudizio, da ultimo quello della Corte di cassazione con la sentenza del 23 marzo 1950. Nel 1961 il Goi ottenne una convenzione (rinnovabile) per l’utilizzo per 20 anni di 48 locali all’interno del Palazzo, dietro pagamento di un canone annuo (“limitandone la scadenza in coincidenza con quella dell’atto summenzionato [del 1961] e cioè fino al 30 giugno 1980”). Nel Nel 1981 il Senato "sfratta” la loggia  per poi lasciarlo definitivamente al Senato nel 1988 a patto che alcuni locali  (circa 120 metri quadri)  fossero destinati al Museo storico della Massoneria italiana «per un periodo non inferiore a venti anni con impegno, da parte del Senato, al rinnovo della concessione per uguali periodi successivi». Nonostante il parere favorevole dell’allora presidente Giovanni Spadolini (La trascrizione del suo intervento è custodita nella sede della Fondazione Antologia a Firenze. Spadolini dice testualmente che: “il Senato, rispettoso dei valori della storia espressa dalle mura ma anche dei valori della storia espressa dalle mentes, ha inteso espropriare nello spirito dei luoghi il significato del contributo che il Grande Oriente d’Italia ha reso alla tormentata storia d’Italia dal Risorgimento in poi. Ed è così che il Senato patrocinerà idealmente la costituzione di un museo che possa rendere pubbliche quelle testimonianze intrecciate alla nostra vicenda nazionale, e la sola parte che abbiamo lasciato, una piccola parte nella piazza del Pantheon per un piccolo museo che sarà costituito quando saranno composte le strutture”), l’accordo non ha mai avuto seguito. Nel 1991 c’è stata un’altra intesa tra il Goi (più precisamente la società Urbs), Palazzo Madama e il ministero delle Finanze: stabiliva che la loggia ottenesse «l’uso di una limitata porzione dei locali dell’immobile, ubicati al piano terreno ed al piano ammezzato, e relativi accessori e pertinenze con accesso da piazza della Rotonda numeri 10 e 11 e da via Giustiniani numeri 1 e 2, per destinarli a sede del Museo storico della Massoneria italiana». Quest'accordo sembrerebbe andato disattese ma la Massoneria del Grande Oriente d’Italia non ha alcuna intenzione di rinunciare alla propria sede storica, ed ha richiedendo indietro al Senato almeno i 120 metri quadrati rispetto ai “sette piani e 405 vani” della proprietà originaria, acquistata grazie a una sottoscrizione internazionale nel 1911 quando era gran maestro Ettore Ferrari. Nel 2016 nella attuale e splendida sede romana del Vascello, in pieno Gianicolo, venne presentato un dossier di 200 pagine intitolato “Palazzo Giustiniani, una questione ancora aperta”, che ripercorreva la vicenda sulla base di una raccolta di documenti. Le richieste del GOI sono state respinte sia dal TAR (Sentenza 06245/2020 del 12 dicembre 2021), che del Consiglio di Stato (Sentenza 09171/2022 del 13 ottobre 2022) hanno dichiarato la richiesta inammissibile per difetto di giurisdizione, "affermando che la transazione stipulata tra le parti il 14 novembre 1991 non è qualificabile come accordo concluso ai sensi dell’art. 11 della legge n. 241/1990, bensì come contratto", indicando, quale giudice munito di giurisdizione, il giudice ordinario e non quello amministrativo. La Massoneria ha tuttavia presentato ricorso in Cassazione che il 24 gennaio 2024 ha accolto il ricorso proposto dalla Urbs srl (società immobiliare del Grande Oriente d’Italia), affermando la giurisdizione del Giudice Amministrativo. Le Sezioni Unite Civili, in accoglimento del ricorso proposto dalla Urbs srl, hanno, dunque, annullato la ordinanza del Consiglio di Stato che, confermando con diversa motivazione la ordinanza del Tar Lazio, aveva affermato la giurisdizione del Giudice Ordinario... la storia continua
La vicenda è anche riportata nel libro uscito nel 2022: “Palazzo Giustiniani. Un’ingiustizia nel silenzio contro i massoni italiani”, edizioni Perugia Libri di Stefano Bisi.... non sembra ancora finita.

Risalgono al 1938 i lavori con cui l'edificio fu collegato a Palazzo Madama, per il tramite di un passaggio sotterraneo tuttora esistente.
Il Palazzo fu utilizzato da Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato come residenza ufficiale al posto del più impegnativo Palazzo del Quirinale, residenza prima dei Papi poi dei re d'Italia, e infine dei presidenti della repubblica.
Qui, precisamente nella biblioteca, fu la firma della Costituzione repubblicana il 27 dicembre 1947 da parte del Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, il Presidente dell'Assemblea Costituente Umberto Terracini e il Guardasigilli Giuseppe Grassi avvenne nella Sala della Costituzione. La consuetudine repubblicana vuole che, per lo svolgimento di consultazioni, il presidente del Senato ne metta a disposizione alcuni uffici al presidente del Consiglio incaricato, quando non è né deputato né senatore.
Nel palazzo hanno sede, oltre all’appartamento di rappresentanza del Presidente del Senato, la sala Zuccari, gli uffici dei senatori di diritto e a vita, degli ex Presidenti del Senato, nonché alcuni servizi ed uffici dell’Amministrazione.

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Palazzo Giustiniani prima dell'ultimo restauro ed una visione attuale

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a sinistra Palazzo Giustiniani e lo schema dell'atrio al centro il vestibolo a destra una fota anni trenta del cortile


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Particolare dell'alternanza della torre e dell'aquila, emblemi dello stemma Giustiniani sotto il cornicione di Palazzo Giustiniani a Roma (lato Via Giustiniani)

Ilaria Toesca: Note sulla storia del Palazzo Giustiniani a San Luigi dei Francesi in Bollettino d'arte 1957 - III-IV (luglio-dicembre - XLII)

Quello che segue è stato invece tratto da “I palazzi del Senato; Palazzo Giustiniani” nella parte del testo di Francesco Quinterno che ha curato la parte storica della famiglia Giustiniani e di quella architettonica di Franco Borsi (edizioni Editalia, Roma 1989)

Gran parte della documentazione fa parte del fondo famiglia Giustiniani conservato nell’archivio di Stato di Roma. Ulteriore fonte la fondazione Camillo Castani nel fondo Giustiniani Bandini soprattutto per ciò che riguarda la successione.
Palazzo “Giustiniani”, acquistato in costruzione da Monsignor Giuseppe Vento da Vincenzo Giustiniani nel 1590, depositario generale della camera apostolica. Esso è frutto di una serie di ristrutturazioni, quella che comprende la facciata principale verso Sant’Eustachio a quella verso S.Luigi dei Francesi, porta la firma di Giovanni Fontana, secondo Baglione, ciò confermato dall’austerità dell’architettura che prelude e prepara il terreno ad interventi barocchi. Un’austerità del resto che non doveva essere avulsa alla famiglia genovese che si era trasferita a Roma dopo la fuga da Chio e la caduta di Costantinopoli, e che puntava piuttosto alla tesaurizzazione delle opere d’arte che sulla magnificenza civile dell’edificio.
L’abitazione di Vincenzo Giustiniani, ricco e colto collezionista della Roma del tardo cinquecento, uno dei primi assieme al fratello Cardinale Benedetto, a partecipare allo studio e alla difesa del patrimonio artistico cittadino.
Il primo cardinale della famiglia Giustiniani fu Vincenzo (1519-1582), zio dell’omonimo Vincenzo (1564-1638) futuro collezionista e di Benedetto (1555-1621), l’altro cardinale. Il cardinale Vincenzo era nato a Chio nel 1519 da un ramo collaterale della famiglia rispetto a Giuseppe, padre dei ricordati Vincenzo e Benedetto, e aveva preso i voti contro il parere dei genitori; entrato nell’ordine dei Domenicani vi aveva percorso una brillante carriera, tanche nel 1558 a soli 38 anni, ne era generale, nonché qualche anno dopo tra i più autorevoli partecipanti al Concilio di Trento. Creato cardinale da Pio V, alcune fonti lo danno anche fra i papabile del conclave del 1572 che vide l’elezione di Gregorio XIII Boncompagni (L.Cardella, Memorie storiche dè cardinali della Santa Romana Chiesa, Roma, 1973 pp 146-48). Quando vi morì venne sepolto in Santa Maria sopra Minerva, dove aveva già fondato una cappella, dedicandola a S.Vincenzo dè Ferrari. Quando nel 1566, Giuseppe Giustiniani, futuro acquirente del palazzo, fu costretto ad abbandonare l’isola di Chio, si rivolse appunto a Vincenzo, suo cognato, giacché fratello della moglie Geronima. Infatti, Giuseppe, sottoposto a vessazioni e soprusi da parte dei turchi, dopo le tappe di un esilio che è poi un fuga, prima a Malta, poi a Messina, quindi a Napoli ed infine a Civitavecchia, venne a Roma dove, tramite l’aiuto del cognato, fu introdotti con la sua attività negli affitti o nei negozi camerali riuscendo ad aumentare prodigiosamente le sue sostanze. L’esperienza di più generazioni dedite al commercio e ai cambi, saldamente acquisita da Giuseppe, non poteva passare inosservata nella dinamica Roma di Gregorio XIII; inoltre il Giustiniani si imparentò, mediante matrimonio delle sue tre figlie Angelica, Virginia e Caterina, con le famiglie dei Bandini, dei Monaldeschji e dei Massimo. Il giovane Benedetto intanto studiava legge a Perugina, poi a Padova e a Genova e, in pochi anni, ricevette incarichi finche entrò a far parte dell’amministrazione pontificia. Sisto V lo nominò tesoriere generale e il 17 dicembre 1586 a soli 32 anni ricevette la porpora, dove dimorassero i Giustiniani fino a quel periodo non è chiaro, ciò fino al 1590 quando acquistarono il palazzo, forse nel vicino palazzo di S.Salvatore alle Coppelle posseduto dal cognato Giorgio Giustiniani.
La passione di Vincenzo per la statuaria antica, così come per la pittura ha molte testimonianza, ma la passione per l’architettura la dispiegherà altrove, nella sua tenuta di Bassano di Sutri acquistata per lui dal padre Giuseppe il 22 novembre 1595 e in questo vero e proprio feudo Vincenzo adattando un preesistente castello degli Anguillara, decorandolo con affreschi del Domenichino e dell’Albani, culminando nel simbolismo araldico del complesso architettonico della “casino”, posto al culmine della proprietà sagomato a palazzina a cinque torri (ai quattro angoli e una al colmo del tetto. La “rocca” a cinque torri sormontata dall’aquila coronata ad ali spiegate era, infatti, l’insegna della famiglia Giustiniani. Ebbe in moglie Eugenia Spinola dalla quale ebbe figli che morirono tutti in fasce. Egli compensò la mancanza dei figlioli con istituire suo erede nel 1631, fondando un fedecommesso D. Andrea Cassano Banca detto Giustiniani, il quale ebbe in moglie donna Maria Panfilia nipote del Cardinal Giovan Battista Panfilio, che in poco tempo divenne papa con il nome di Innocenzo X, quindi successivi eredi i propri fratelli e in ultime i Giustiniani Recanelli.
L’eredità del ramo diretto dei Giustiniani, si estingue nel XIX secolo e confluisce nel ramo Bandini. Pur rafforzando l’asse ereditario attraverso le doti dai buoni matrimoni contratti (Gonzaga, Boncompagni ludovisi, Ruspali, Grillo, Mondragone e con gli inglesi conti di Newburg), già sul finire del ‘700 la situazione economica della famiglia era enormemente peggiorata al punto che Vincenzo, figlio di Benedetto, sposato a Nicoletta Grillo di Mondragone, nel giro di meno di dieci anni aveva ottenuto da Pio VI (1775-1799) e Pio VII (1800-1823) te chirografari che lo autorizzavano il primo a contrarre debiti per 75.000 scudi (in data 20.6.1796), il secondo a vendere una delle tenute del patrimonio (in data 28.8.1800) e, infine, il terzo a vincolare la somma di 100.000 scudi (in data 28.8.1803), con ciò tuttavia obbligando non tutto il patrimonio diretto primogenitale bensì l’antico asse trasversale disposto nel fedecommesso del 1631.
I tempi difficili della prima repubblica romana (1798) avevano costretto Vincenzo e i due fratelli Lorenzo e Giacomo, il primo destinato a non avere eredi il secondo destinato alla carriera ecclesiastica (diventerà cardinale) a cedere per alloggio ai “cittadini” francesi a Roma e ai militari, sia la villa di San Giovanni che parte del palazzo.
I tre chirografari papali si rilevarono una trappola quando Cecilia, unica erede di Vincenzo e di tutto l’asse Giustiniani di Roma nel 1815 dovrà procurarsi dote per andare in sposa al nobile Carlo Bandini di Macerata, Nelle obiezioni esposte nella supplica, emerge l’omessa dichiarazione di Vincenzo, al momento del primo chirografario nel Giugno 1796, di essere già padre di Cecilia, nata in febbraio di quello stesso anno: Difatti se la nascita fosse avvenuta dopo la concessione del Papa “avrebbe ascoltata la sua richiesta di dote”, è per questa ragione che, nel 1815, fidanzata al Bandini, impetra una “dote congrua di paraggio” oscillante sui 50-70.000 scudi da trarre sopra i beni del fedecommesso, affinché restassero separate le concessioni pontificie e le disgrazie domestiche. Donna Cecilia concluderà così la sua discendenza diretta sposando il Bandini e trasmetterà a suo figlio Sigismondo i suoi titoli di del ducato di Mondragone eredito dai Grillo e la contea di Newburg, ereditata dalla nonna, confluendo il tutto nel ramo dei Giustiniani Bandini. Il cardinale Giacomo che morirà nel 1843, lo stesso anno del fratello Lorenzo cavaliere di Malta, fu l’ultimo mecenate della case della quale membro onorario della Accademia Romana di Archeologia.
Il primo inventario seicentesco dell’antica collezione Giustiniani è stato già pubblicato integralmente da Luigi Salerno in un numero del “The Burlington Magazine” nel 1960.

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I marmi antichi del piano terreno


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Particolare dello stemma dei Giustiniani - nel bassorilievo all'interno del cortile di Palazzo Giustiniani di Roma posto sul capo della "Caccia al leone".


La pregevole serie di rilievi antichi, provenienti in gran parte dalla Villa Giustiniani fuori Porta del Popolo, fu sistemata da Carlo Benedetto Giustiniani intorno al 1677, nell’ambito di una nuova ristrutturazione del palazzo. Il progetto si deve a Domenico Legendre, mentre i restauri e le integrazioni di marmo e di stucco sono prevalentemente opera dello scultore Girolamo Gramignoli, che intervenne tra il 1679 e il 1681.

Un recente restauro, promosso dalla Presidenza del Senato ed eseguito sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologica di Roma, ha eliminato gli effetti del pesante inquinamento, che aveva reso grigie ed uniformi le superfici, permettendo così di apprezzare nuovamente le lavorazioni particolari di differenti periodi, le integrazioni e le varie qualità dei pregiati marmi bianchi.
Nell’ingresso principale si trovano, a destra il rilievo con coppia di defunti su kline, raffigurati durante un banchetto allietato dalla musica e dai giochi dei bambini, a sinistra la rappresentazione di un giovane defunto a simposio, cui rende omaggio un gruppo di parenti, riprodotti in alto a sinistra.
Nel vestibolo sono collocati la composizione con gli episodi del rapimento di Persefone e della lotta tra Greci ed Amazzoni ed il sarcofago con il tema della caccia al leone; infine sulla parete di destra è sistemata la raffigurazione di Mitra tauroctono.
Nel cortile sono murati rilievi di soggetto mitologico o decorativo-simbolico; a partire da sinistra, in senso orario, si trovano un pannello composito restaurato come raffigurazione delle imprese di Eracle (1) e sarcofagi con diversi temi: Muse (2), thiasos marino (3), Geni stagionali che recano il clipeo con i ritratti dei defunti (4), trionfo di Dioniso (5), frammento con corteggio marino (6), mito di Penteo con le Baccanti (7), ratto di Persefone (8), mito di Oreste (9). Quest’ultimo è sulla fronte di un sarcofago, i cui fianchi sono stati riutilizzati per una composizione inserita su una parete dell’ingresso secondario del palazzo.
Nell’andito verso via Giustiniani si trovano a sinistra, uscendo, il sarcofago con la raffigurazione del mito di Endimione, il rilievo composito con il riconoscimento di Ifigenia ed il giudizio di Oreste, ricavato dai lati brevi del sarcofago con il mito di Oreste, sito nel cortile. Sulla parete opposta sono collocati la composizione occupata centralmente dalla scena matrimoniale di dextrarum iunctio entro colonne, ampiamente integrata ai lati ed il pannello costituito dal rilievo con soldati e cavallo e dal lato breve di un sarcofago che raffigura scene di caccia con personaggio vestito di tunica e mantello.

I rilievi dello scalone

Lungo lo scalone principale, al primo pianerottolo, è stata collocata, dopo il restauro eseguito nel 1983, una fronte di sarcofago con scena di battaglia tra Romani e barbari, che precedentemente era nel vestibolo verso via della Dogana Vecchia.
Sullo stesso pianerottolo, una doppia targa, in latino e in russo, ricorda che a palazzo Giustiniani soggiornò lo Zar Nicola I durante la sua visita a Papa Gregorio XVI nel 1845. Nella targa in latino la data è indicata secondo il calendario gregoriano, mentre nella targa in russo essa è indicata sia secondo il calendario giuliano che secondo quello gregoriano. Le due targhe sono sormontate dallo stemma della famiglia Romanov, oggi adottato come stemma della Federazione russa. L'aquila bicipite reca in petto uno scudo con l'effigie di San Giorgio mentre uccide il drago.
Nel terzo ripiano si trovano, sopra le porte, due rilievi con scena di battaglia, di cui uno raffigura imponenti prigionieri barbari, un uomo e una donna, sotto il trofeo di guerra e l’altro un condottiero, in primo piano, accompagnato da altri cavalieri e da vessilliferi.

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La "galleria" di Palazzo Giustiniani


La sistemazione seicentesca delle sculture antiche di Palazzo Giustiniani
di Christina Strunk (in Giulia Fusconi (ed.), I Giustiniani e l'Antico, Roma 2001, pp. 57-70)

Hoggidì si usano molto a Roma, et a Genova, et in altre città d’Italia quel genere di fabbriche che si dicono Gallerie; forsi per essere state introdotte prima nella Gallia, o Francia per trattenersi a passeggio i personaggi nelle corti, le proportioni loro si cavano dalle Loggie; ma sono alquanto meno aperte di esse. Questa sorte di edificio fu parimente appresso agli antichi, come si legge nella Vita di Lucio Lucullo, et altrove, et in vero sono di grandissima comodità, et accrescono meraviglioso ornamento alle fabriche; ma però si convengono solo a signori, e gran personaggi.”

Come dimostra questo passo dall’opera di Vincenzo Scamozzi Dell’idea dell’architettura universale (Venezia 1615), le gallerie non erano in origine concepite come luoghi destinati principalmente all’esposizione di opere d’arte, ma servivano per passeggiare. Essendo luoghi di riposo, esse si trovavano accanto alle stanze private dei palazzi. Come le logge e nell’antichità i portici, esse avevano una pianta allungata e si aprivano spesso verso una vista gradevole. Queste caratteristiche favorirono la collocazione di antichità nelle gallerie: da una parte, si perpetuava così l’uso antico di decorare i portici con statue ritratto e con eccellenti opere d’arte; dall’altra, le antichità, collocate nello spazio privato della galleria, venivano sottratte al pubblico sguardo, secondo i precetti della Controriforma.

Gabriele Paleotti, uno fra i principali teorici dell’arte della Controriforma, nel 1582 aveva sostenuto che le antichità pagane dovessero restare accessibili soltanto alle persone colte per i loro studi privati: “perché la casa hà alcuni luoghi come publici, & altri privati, potrassi più facilmente concedere ad una persona letterata & di giudicio, di poterle [le immagini] tenere ad uso buono in luoghi privati per sua commodità, che nei luoghi publici, (…) dove capitano altre persone.” Nello stesso senso si pronunciarono nei loro trattati anche Gian Paolo Lomazzo (1584) e Giulio Mancini (ca. 1620), ammettendo che nei “luochi di piacere” privati come nelle “gallarie di giardini” fossero permesse rappresentazioni licenziose e pagane. Nessuna meraviglia dunque, se il gesuita Ottonelli lamentava nel 1652 che le gallerie fossero piene di dipinti osceni. Forse spronato dal suo coautore Pietro da Cortona, avrebbe però giustificato alla fine questo uso: “par cosa lecita, che si pongano opere indifferenti, & anche fatte con qualche licenza in detti luoghi [gallerie, stanzini, camere da studio], ove servano alla grandezza, e magnificenza d’un gran palazzo; e non stanno esposte alla vista comune: e non si mostrano per lo più, se non à gl’intelligenti, ò ad altri desiderosi di vedere simili curiosità. E così tengo, che nelle Gallerie, e negli studij sia tollerabile la varietà dell’opere: che se ve ne sono delle licentiose, non nocono, né scandalizzano gli Spettatori deboli di spirito, per essere in luoghi ritirati, e conservarsi lontane dalla comune frequenza.”

Al più tardi dopo la pubblicazione della raccolta di poesie La Galeria (1619), opera di G.B. Marino, fu possibile denominare “galleria” anche un musée imaginaire. In questo senso va inteso il titolo della Galleria Giustiniana, raccolta di incisioni comparsa nel 1636: essa riunisce oggetti che erano sparsi in tutti i possedimenti dei Giustiniani; solo una frazione delle antichità che vi erano riprodotte si trovava effettivamente nella galleria di palazzo Giustiniani. Come cercherò di dimostrare, la galleria reale era un luogo in cui le qualità erotiche dell’arte antica erano particolarmente valorizzate. In accordo con le fonti appena citate, questo era qualcosa di perfettamente lecito e usuale nelle stanze private di un palazzo. Per la presentazione delle antichità al pubblico, invece, dovevano essere adottati altri criteri. Anche se la Galleria Giustiniana avrebbe dovuto comparire in poco più di duecento esemplari, essa mirava comunque ad una risonanza pubblica e trasmette quindi una impressione decisamente più decorosa della collezione. Nel testo che segue cercherò di porre in evidenza le differenze, come pure le affinità, fra la Galleria stampata e quella reale.

La galleria di palazzo Giustiniani è un ambiente di circa 18 metri per 7, decorato da affreschi della fine del Cinquecento: non potendo disporre di finestre sui lati lunghi, le vedute di paesaggi debbono fare le veci di un panorama reale. Sul soffitto, cinque “quadri riportati” raffigurano scene della vita di Salomone. Le colonne tortili in bronzo che articolano le pareti su cui sono affrescate, alludono al Tempio di Salomone ed evocano, allo stesso tempo, l’atmosfera di un portico antico.

L’inventario del lascito di Vincenzo Giustiniani, redatto nel 1638, ci permette di ricostruire la disposizione delle antichità nella galleria. “A mano manca all’entrare canto al muro” si trovavano 26 oggetti, in parte statue, in parte busti (fig. 2, nn. 237 - 352); poi “seguitano l’altre file canto alla sudetta in terra”. Dal momento che “nella seconda fila” sono elencate soltanto 25 sculture invece che 26 (nn. 353 - 377), si può supporre che gli oggetti fossero collocati in corrispondenza degli intervalli vuoti, così da permettere una migliore visione di quelli nella fila alle loro spalle. La “terza fila canto alla sudetta” come la “quarta fila canto alla sudetta” comprendevano complessivamente 58 busti, che - stando ad una descrizione di Sandrart - poggiavano sopra bassi “pieducci” sul pavimento. Il medesimo schema era ripetuto sulla parete di fronte: due file, in cui statue e busti si alternavano in una sequenza irregolare (nn. 214 - 272), e davanti ancora due file di busti. Le file costituite soltanto da busti, come pure le teste “sotto la finestra capo la Galleria” non sono state inserite per mantenerla facilmente leggibile. Complessivamente, nella galleria erano sistemate 247 sculture.

Nel corso del Settecento e dell’Ottocento i Giustiniani avrebbero venduto poco a poco la loro importante collezione di antichità. Alcune sculture passarono nel patrimonio Torlonia, ma di molte altre si è perduta ogni traccia. Tanto più stimolante risulta dunque il tentativo di ricostruire graficamente una piccola sezione della galleria a grandezza naturale, che si fa in occasione della attuale mostra presso la Calcografia. Per questo esperimento è stato prescelto il settore nordorientale della galleria, dal momento che in quest’area si trovavano alcuni dei nuclei scultorei più importanti Ho già illustrato altrove i modelli ed i principi informatori del concetto della esposizione seicentesca; in questa occasione desidero approfondire alcuni aspetti centrali della questione, concentrandomi sul rapporto fra realtà espositiva e rappresentazione incisa.

La ricostruzione a grandezza naturale dovrebbe avere sul pubblico contemporaneo lo stesso effetto sorprendente che l’allestimento originale esercitava sul visitatore del palazzo nel Seicento. Sebbene i grandi collezionisti romani del principio del XVII secolo, Scipione Borghese e Ludovico Ludovisi, nelle loro ville avessero già messo alla prova delle nuove idee espositive, fin dal Cinquecento l’ideale normativo era rimasto quello di presentare nelle gallerie soltanto poche e scelte antichità, isolandole entro nicchie. Per questo motivo, le sculture antiche compaiono spesso all’interno di nicchie anche nelle incisioni del tempo. Vincenzo Giustiniani, al contrario, popolò la sua galleria di un vero e proprio esercito di statue. Questo non mancò di suscitare delle critiche: nel Settecento, numerosi visitatori lamentavano che la galleria assomigliasse a un deposito o a un magazzino. Francis Haskell vide in Vincenzo Giustiniani il collezionista arrivato in ritardo, che poteva suscitare sensazione soltanto con la quantità piuttosto che con la qualità, in un momento in cui il mercato antiquario non poteva più offrire pezzi di alto livello.

È certo che nella galleria di palazzo Giustiniani si mirava non tanto alla valorizzazione del singolo pezzo, quanto piuttosto all’impressione d’insieme. Sono del parere che Vincenzo Giustiniani abbia voluto sperimentare una nuova estetica: una messa in scena “pittorica” al posto della presentazione tradizionale delle antichità nelle nicchie, architettonica e strettamente simmetrica. Nella galleria di palazzo Giustiniani, le sculture erano disposte in modo volutamente asimmetrico: mentre di fronte all’ingresso si trovavano pressoché soltanto busti, dai quali spuntava qui e là ogni tanto una statua isolata, altrove si alternavano in vivace sequenza statue, busti e statuette, mentre in alcuni punti si ammassavano grandi figure, formando un vero e proprio “bosco”. La concentrazione delle sculture cancellava i contorni del singolo oggetto. Sequenze “ariose”, costituite prevalentemente da busti, contrastavano con zone fitte, “oscure”, composte da statue di grande formato. Le antichità erano usate quasi come masse pittoriche, per creare un “chiaroscuro”. Nel suo giudizio sui paesaggi di Tiziano e dei Carracci, Vincenzo Giustiniani aveva mostrato la sua sensibilità per l’estetica delle “macchie”, cioè per uno stile che antepone luci e ombre al contorno ed è concepito per essere osservato da lontano piuttosto che da vicino. Proprio a simili principi “pittorici” sembra richiamarsi la concezione della galleria Giustiniani, in deciso contrasto con le altre gallerie di quell’epoca, che presentavano le sculture in una cornice strettamente architettonica.

Mentre le nicchie avrebbero mantenuto le antichità a distanza, le sculture della galleria Giustiniani si affollavano intorno all’osservatore, circondandolo e dando l’impressione di rivolgersi direttamente a lui coi loro gesti. Vincenzo Giustiniani non aveva alcun interesse alla creazione di un ordinamento sistematico, separando rigidamente, ad esempio, le statue dai busti o le opere dell’antichità greca da quelle romane, oppure costituendo una serie completa di imperatori e imperatrici. Per la gran massa delle opere, non era possibile sviluppare un programma tematico unitario, che comprendesse tutte le sculture; esistevano però alcuni raggruppamenti significativi. Le sculture, non essendo isolate nelle nicchie, potevano essere riunite in unità narrative - ancora un principio “pittorico”. La ricostruzione a fig. 3 mostra uno di questi gruppi narrativi, particolarmente rilevante, in quanto si trovava proprio al centro della parete principale In questo punto cruciale ci si aspetterebbe il centro ideale della galleria, una dichiarazione programmatica sui valori e gli ideali del signore del palazzo. E proprio qui Vincenzo Giustiniani presentava un caprone, personificazione degli istinti animaleschi, fiancheggiato da figure non meno lascive: due amorini, una baccante e Leda con il suo amante, il cigno. È quasi ironico che Giustiniani ponesse al centro della sua galleria non un imperatore, un antico eroe o una Minerva quale dea delle arti, ma un caprone! Mentre molte famiglie romane consideravano le antichità come una patente della loro nobiltà e, per esempio con la solenne presentazione di busti imperiali, alludevano alle pretese remote origini dei loro casati, Giustiniani si prendeva evidentemente gioco di un simile modo di utilizzare le antichità. Egli, al contrario, voleva esaltare la gioia di vivere degli antichi.

L’unico altro essere “animale” della galleria si trovava di fronte al caprone: “una sfinge mezza in aria che ha rapito una testa d’huomo qual tiene fra le branche” (fig.2, n. 361). Creatura saggia, sacra, misteriosa, essa costituiva in qualche modo il contrapposto del caprone, essere bestiale; metà animale, metà donna, questa sfinge assassina poteva dare corpo al fascino letale del bel sesso. Essa era inquadrata fra due busti che l’inventario non descrive con precisione, ai lati dei quali seguivano due nudi maschili: “una statua antica ristaurata nuda (si crede d’un Apollo) con braccio dritto alzato con una facella in mano e nell’altra certi pomi” (n. 359; fig. 4) e dall’altra parte “una statua antica nuda ristaurata (si crede d’un Imperatore) che tiene un delfino per tronco” (n. 363; fig. 5). Da questo lato si aggiungeva “una statua d’una Diana vestita con braccia ignude in atto di pigliar una freccia” . Per la vistosa collocazione dei nudi, anche questo insieme denotava un carattere erotico. In relazione con il gruppo di fronte poteva sorgere l’impressione che gli amorini, con le loro frecce, stessero per infiammare d’amore i due uomini per Leda e la baccante. Anche Diana, la dea della castità, dà mano alle frecce e prende parte all’amoroso tiro con l’arco. Porrà forse termine alla scena? Forse anche lei simboleggia il potere dell’amore: “gli antichi uomini (…) delle cacciatrici Ninfe favoleggiarono assai spesso e delle loro boscareccie prede, pigliando per le vaghe Ninfe le vaghe donne, che con le punte de’ loro penetrevoli sguardi prendono gli animi di qualunque uomo più fiero.” Anche con la disposizione delle file di busti si sottolineava come qui stesse infuriando una amorosa battaglia dei sessi: sulla parete dell’entrata era schierata una falange di 43 uomini, di fronte un esercito di 42 donne.

Come ho già esposto al principio, nella Roma della Controriforma era cosa perfettamente lecita il godere di opere d’arte licenziose nelle gallerie private. Nella pubblicazione della Galleria Giustiniana, comunque, l’aspetto erotico passa decisamente e decorosamente in seconda linea: qui gli oggetti non vengono dunque raggruppati in unità narrative, ma sobriamente assortiti secondo i tipi iconografici. Come indica la mancanza di didascalie esplicative, l’opera si rivolge agli studiosi e ai conoscitori, che non hanno bisogno di aiuto nell’identificazione delle statue. Per facilitare i confronti iconografici, le statue del medesimo tipo si susseguono une alle altre, come d’altronde nella serie d’incisioni di François Perrier, Segmenta nobilium signorum et statuarum quae Romae extant, che venne realizzata contemporaneamente alla Galleria Giustiniana. Mentre Perrier opera una stretta suddivisione secondo il sesso - illustrando prima le figure virili e poi quelle femminili - la Galleria Giustiniana stabilisce invece una gerarchia dalle differenze più sottili: al principio si trovano le divinità, alla fine gli uomini e le divinità minori della natura, quali fauni e sileni. Il caprone, che nella galleria reale era così importante, qui non trova affatto posto.

L’ingresso dell’appartamento al piano nobile di palazzo Giustiniani era fiancheggiato da due statue di Apollo, come a proteggere la soglia del regno delle Muse. Sorprendentemente, però, non è Apollo ad aprire la serie delle incisioni, e nemmeno il sommo dio Giove, come pure sarebbe da aspettarsi per il suo legame con l’aquila araldica dei Giustiniani; al primo posto si trova piuttosto uno dei pezzi più preziosi della collezione Giustiniani, la Pallade, dea delle arti e delle scienze, protettrice di Atene. Seguono delle altre rappresentazioni di Minerva e della dea Roma, quale chiara allusione alla duplice radice greco-romana della cultura classica. Si continua quindi con la sezione dedicata a Ercole, spesso accoppiato ad Atena, per esprimere il dualismo di Ars e Mars, vita activa e vita contemplativa. Le prime tavole della Galleria Giustiniana alludono dunque programmaticamente ad un ideale culturale dell’occidente, che cerca di conciliare cultura greca e cultura romana, vita activa e vita contemplativa, secondo il modello Hercules Musarum. Ecco dunque il solenne nucleo ideale, che mancava nella galleria reale! La medesima collezione poteva quindi essere presentata in modi del tutto differenti, a seconda che si trattasse di un contesto pubblico o privato.

La Galleria Giustiniana è un’opera autonoma, che non deve assolutamente essere intesa come riproduzione della galleria reale di palazzo Giustiniani. Soltanto un quarto circa delle 150 sculture in tutto riprodotte nel primo volume della Galleria Giustiniana si trovava effettivamente nel 1638 all’interno della galleria; esse erano disposte nella realtà secondo principi completamente diversi da quelli adottati nell’opera a stampa. Oltre alle unità narrative di cui si è appena parlato, c’erano di certo anche sequenze che permettevano confronti fra oggetti simili. Diversamente che nella Galleria Giustiniana, tuttavia, questi pezzi non erano mai accostati direttamente, in omaggio ad un criterio di varietas. Infine, era escluso qualsiasi ordinamento gerarchico: nell’esempio citato, due statue del dio del sole Apollo si alternano a due fauni che, quali divinità minori, nella Galleria Giustiniana a stampa sarebbero dovuti comparire molto dopo Apollo.

Le incisioni non forniscono una impressione attendibile della galleria reale non soltanto nella disposizione, ma anche nella presentazione grafica degli oggetti. Le sculture sono riprodotte per la maggior parte a lati non invertiti; ma, mancando nelle incisioni una scala metrica, tutti gli oggetti appaiono più o meno delle stesse dimensioni, sebbene in effetti avessero misure assai diverse, come si può ricavare dagli inventari e ora anche dalla ricostruzione a grandezza naturale. Allo stesso modo, la luce nelle incisioni non riproduce la situazione reale nella galleria. Se si dispongono le tavole una accanto all’altra, nella sequenza in cui si trovavano le statue secondo l’inventario del 1638, non sempre se ne ricava uno schema unitario dell’illuminazione.

Quest’ultima osservazione fa sorgere un interrogativo circa il luogo e il modo in cui vennero eseguiti i disegni preparatori delle incisioni. Joachim von Sandrart, che partecipò in maniera determinante al progetto, sostenne nella sua Teutsche Academie l’opportunità di studiare sempre con grande attenzione e dal vero il modo in cui la luce cadeva sugli oggetti, senza far ricorso all’immaginazione. Se dunque l’illuminazione nelle incisioni non corrisponde alla reale incidenza della luce nella galleria, si deve forse concludere che nei primi anni Trenta del Seicento una parte delle sculture si trovasse ancora collocata in luoghi diversi da quelli in cui sarebbero state alla morte di Vincenzo Giustiniani nel 1638. Dal momento che Sandrart, durante il suo soggiorno romano tra il 1629 e il 1635, acquistò numerose sculture per conto del Marchese e li collocò nel palazzo, non vi sarebbe da stupirsi se in conseguenza di ciò si fossero verificati degli spostamenti nella galleria: “E siccome per lungo tempo, avendo io appunto servito questo famosissimo principe Giustiniani per molti anni, ed avendone ricevuto ogni genere di grazie, ho comperato (scil. per lui) circa 270 pezzi tra statue antiche di marmo, intere e a mezza figura, busti ritratto e anche bassorilievi, distribuendoli qua e là nel suo palazzo e nella sua vigna al Popolo, così che soltanto in questo Antiquario o grande sala si trovavano più di 500 pezzi”. Se non vogliamo liquidare questa affermazione come una smaccata esagerazione, non è dunque possibile escludere che prima del 1635 nella galleria fosse collocato un numero sensibilmente più alto di oggetti rispetto al 1638 - in particolare, probabilmente, una maggiore quantità di busti. Il concetto espositivo registrato nell’inventario del 1638 si è forse sviluppato poco a poco. Alcuni raggruppamenti significativi sono tuttavia certamente documentabili fin dagli anni immediatamente successivi al 1630.

Il principale compito di Sandrart a palazzo Giustiniani era quello di guidare una “Accademia” di artisti, che portarono l’arte dell’incisione alla sua massima fioritura. In confronto con altre opere grafiche romane del XVII secolo di soggetto antiquario, la Galleria Giustiniana si distingue per la sua grande finezza tecnica e estetica. Sandrart aveva formulato nella sua Teutsche Academie l’aspirazione di riprodurre le antichità con la massima fedeltà possibile, e criticava le incisioni che avessero l’aspetto di un Callot o di un Perrier, di Spranger, Goltzius o Rubens, piuttosto che quello dell’antichità stessa: come le Sacre Scritture, i migliori pezzi antichi non avrebbero tollerato “né amputazioni né aggiunte”. L’accostamento tra sculture e incisioni mostra tuttavia che nemmeno la Galleria Giustiniana offre una riproduzione fotograficamente esatta degli oggetti, ma piuttosto una interpretazione artistica, che si discosta in molti punti dal modello. I principi di questa interpretazione dovranno dunque essere esaminati più da vicino, dal momento che in essi si manifesta un’estetica che, come vedremo, si rispecchiava anche nel concetto espositivo della galleria reale.

Elizabeth Cropper ha già illustrato come le incisioni della Galleria Giustiniana cerchino quasi di riportare in vita le sculture antiche. Questo avviene, ad esempio, per mezzo dell’intensità dello sguardo, attraverso un vivace chiaroscuro o ancora - specialmente nelle incisioni di Mellan - grazie alla fiammeggiante dinamica dei tratti di bulino. Paragonate alle proporzioni slanciate delle statue antiche, le figure nelle incisioni mostrano quasi sempre una corporeità più turgida, una vitalità barocca. L’opera grafica spesso elimina i puntelli, così che la scultura appaia meno artificiosa. Come in Perrier, le sculture sono volentieri riprodotte di scorcio: da una parte, questo enfatizza il “rilievo” scultoreo e dall’altra suscita l’impressione che la statua si rivolga direttamente all’osservatore. La rotazione offre inoltre una maggiore varietas e vivacità visiva. I due fauni della collezione Giustiniani sono in realtà quasi identici; i disegnatori riescono invece, grazie alla rotazione del punto di vista, a farli apparire come pendants simmetrici.

Nell’ambito della discussione seicentesca intorno al paragone tra pittura e scultura, uno dei topoi era quello secondo cui una particolare difficoltà della scultura sarebbe consistita nel far sembrare viva l’opera d’arte anche senza l’ausilio del colore. Vincenzo Giustiniani apprezzava nella scultura antica proprio la sua capacità di riprodurre una autentica vita spirante. Nella Galleria Giustiniana fu possibile tradurre questa qualità attraverso una tecnica che si collocava a mezza strada fra la pittura e la scultura: se da una parte l’incisione è bidimensionale come la pittura, nasce però da una lavorazione di tipo scultoreo della lastra di rame- gli artisti si firmano quindi con l’espressione sculpsit. L’incisore crea quasi una nuova “scultura” sulla carta. Secondo i criteri del paragone, egli deve in questo superare ostacoli ancora più grandi di quelli incontrati da un pittore o da uno scultore: egli non può, infatti, impiegare né colori, né la massa tridimensionale della pietra, per simulare la corporeità. Nonostante questo, le incisioni della Galleria Giustiniana spesso superano i modelli antichi nell’imitazione della realtà.

Mentre talvolta altre opere a stampa giungono perfino a collocare nello spazio libero le sculture, come figure vive, nella Galleria Giustiniana, invece, non si rinuncia mai alla rappresentazione del plinto, che connota senza equivoci l’oggetto come opera d’arte. Questa base ha una sua importanza non soltanto perché porta le firme degli artisti, ma anche perché è spesso ornato dello stemma Giustiniani. Con questo espediente, tavola dopo tavola, Vincenzo Giustiniani si richiama alla memoria dell’osservatore e si presenta doppiamente come mecenate delle arti: quale possessore di una grandiosa collezione di antichità e, insieme, come promotore di una “Accademia” privata, che ha trasformato la pubblicazione di quella raccolta in una opera d’arte autonoma, in parte superando perfino il modello antico. La collezione e la sua riproduzione servono, in sostanza, all’esaltazione del mecenate, il cui ritratto inaugura la serie delle incisioni (fig. 10): cunctorum splendor ab uno.

Dovrebbe ormai risultare chiaro come alla base sia della galleria reale che di quella stampata si trovasse una concezione estetica simile. Come i disegnatori cercavano di infondere vita nelle sculture antiche con mezzi grafici, così anche i gruppi narrativi nell’ambiente della galleria si prefiggevano lo stesso obiettivo. Tanto nella Galleria Giustiniana quanto nella galleria del palazzo, un ruolo importante era assegnato al continuo coinvolgimento dell’osservatore, alla varietas della presentazione visiva e alla conseguente predilezione per lo scorcio e l’estetica del chiaroscuro. Nella galleria reale come in quella stampata, si cercò di esaltare la magnificenza del collezionista attraverso la massa degli oggetti, ma tuttavia si trasmettevano due messaggi sostanzialmente diversi. Nella pubblicazione Vincenzo Giustiniani si presentava come mecenate, dalla seria formazione classica. Cosa si prefiggeva invece con la decorazione così licenziosa della galleria del suo palazzo? Vi si nascondeva forse un programma preciso?

Per dare risposta a questo quesito è necessario prendere in considerazione anche il resto dell’allestimento della galleria. Vincenzo subentrò nel possesso del palazzo alla morte di suo fratello, il cardinale Benedetto, nel 1621. La sala possedeva già a quell’epoca una decorazione in affresco. Salomone era stato allo stesso tempo re e sacerdote: i cinque episodi della sua vita che ornavano il soffitto della galleria potevano, dunque, ben costituire un esempio sia per un capofamiglia religioso che per un laico. La principale virtù salomonica, quella giustizia che è protagonista di tre delle scene, si poteva intendere come allusione al nome dei Giustiniani. Il “quadro riportato” centrale, che rappresenta la visita della regina di Saba, insieme all’episodio della costruzione del Tempio, illustrano la magnificenza di Salomone - ancora un tema che doveva riuscire gradito a Vincenzo. Il programma figurativo ven, le virtù cardinali sulle pareti. La Religione ha come attributo un’aquila, che si poteva interpretare come un riferimento all’animale araldico dei Giustiniani.

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La "Regina di Saba" e il "Tempio di Salomone" - Palazzo Giustiniani

La rappresentazione della Edificazione del tempio sul soffitto sembra in qualche modo trovare un proseguimento sulle pareti, nelle quali le colonne bronzee illusionistiche si richiamano a quelle che un tempo dovevano sorgere davanti al Tempio di Salomone e che compaiono effettivamente anche sullo sfondo del “quadro riportato” centrale. Raffaello ha raffigurato questo portico in un celebre arazzo.

Il visitatore di palazzo Giustiniani riceve l’impressione di trovarsi in un simile portico: il palazzo appare così l’equivalente moderno del Tempio di Salomone, considerato il paradigma del fasto antico per la ricchezza dei suoi arredi. Mentre gli affreschi della volta presentano le vicende del re israelita semplicemente come lontano esempio storico, nello spazio della galleria la magnificenza di Salomone sembra risvegliarsi a nuova vita. Vincenzo Giustiniani allora, come attraverso la presentazione delle proprie sculture infondeva nuova vita all’antichità greco-romana, così nella galleria del suo palazzo poteva sentirsi un vitale rinnovatore della tradizione giudeo-cristiana.

Secondo l’inventario dei beni del Cardinale Benedetto, ai suoi tempi erano appesi nella galleria 40 dipinti, prevalentemente di soggetto religioso. Vincenzo ne lasciò al proprio posto soltanto sette, aggiungendone altri nove. Come si deduce da una attendibile guida del palazzo del 1725, in quel periodo la decorazione pittorica delle pareti non era ancora stata imbiancata; ne consegue che i 16 quadri dovevano in parte essere appesi sopra gli affreschi. I quadri che Vincenzo Giustiniani collocò nella galleria rappresentavano, da una parte, la famiglia e i suoi Santi protettori, dall'altra Cristo e la Madonna. Oltre a questi, c’erano “dui quadri con due mezze figure una, che ride, l’altra, che piange” (probabilmente Eraclito e Democrito) e, ancora, le due versioni di Baglione dell’ “amor virtuoso, che calpesta amor lascivo”. Come negli affreschi della volta, l’accento cadeva sulla religione e la virtù. Se ne potrebbe dedurre che il programma figurativo servisse da “correttivo” alle antichità: i gruppi licenziosi di sculture e in particolar modo i Cupidi avrebbero dunque rappresentato l’ “amor lascivo” degli antichi, che nel mondo cristiano, però, come nei dipinti del Baglione, sarebbe stato vinto dalla virtù e dall’amor di Dio.

Un qualche paragone fra gli antichi e i moderni era certamente previsto. Vincenzo Giustiniani aveva fatto restaurare la propria collezione dai migliori maestri contemporanei: Bernini, che amava attualizzare le antichità nel gusto barocco, rilavorò probabilmente l’"Apollo"; Duquesnoy integrò un Bacco e notoriamente creò il suo Mercurio in competizione con un Ercole antico; Algardi dovrebbe aver restaurato il caprone ed una Venere accovacciata. Questa Afrodite mezza antica e mezza moderna era collocata nella galleria di fronte ad una “Venere tutta antica” molto simile. Allo stesso modo, anche le incisioni della Galleria Giustiniana costituiscono in qualche modo un paragone, nel senso che le riproduzioni moderne dovevano possibilmente sorpassare le antichità. Ma davvero la competizione artistica con l’antichità si estendeva a una gara ideologica, così che l’”amor virtuoso” celebrato nei dipinti religiosi riuscisse, programmaticamente, a trionfare sull’”amor lascivo” degli antichi?

 Se si considerano con attenzione gli scritti del marchese (recentemente ripubblicati nelle edizioni Città del Silenzio con una prefazione di Lauro Magnani), si potranno individuare numerosi passaggi di intonazione ironica e critica, talvolta persino epicurea. Nel Discorso sopra la caccia, egli si prende gioco di coloro che vogliono dimostrare, con dotte dissertazioni, se la caccia sia una virtù o un vizio - lui, da parte sua, a caccia si diverte, e questo fa risultare la questione sulla virtù del tutto superflua. Nel Discorso sopra la musica, Giustiniani parla della “grazia, ch’è dono d’Iddio benedetto”. Quale esempio di come si giudichi la grazia secondo un gusto soggettivo, egli cita però le prostitute nei bordelli e le carni nei “macelli” - una linea di pensiero, che lascia trapelare una certa mancanza di rispetto nei confronti della “grazia divina”. Nella satira Dialogo tra Renzo e Aniello Napolitano sugli usi di Roma e di Napoli, il gusto epicureo della vita prende il sopravvento: mangiare e bere, donne e cavalli. Il testo contiene, fra l’altro, commenti critici sul commercio di vini dei Cardinali, sulla questione delle indulgenze e sul nepotismo (“non si vedono altrove simili salti che le persone fanno da niente in grado sì alto, con diventar prencipi quando loro stessi e gli altri meno l’aspettano”). Aniello, che è venuto a Roma in occasione dell’Anno Santo, viene dissuaso da Renzo dal recarsi assieme all’udienza del Papa: “potria far di meno di prendersi questo fastidio e di darlo anche a me, e sarà meglio che andiamo a qualche maneggio per il fresco a veder cavalcare”. Quando Aniello ritorna da una rapida visita alle quattro basiliche maggiori, Renzo non gli chiede affatto delle sue esperienze religiose: “Ma dicami V.S. come ha veduto belle donne et in particolare dame nobili.”

Questi testi rivelano, con la stessa chiarezza della presentazione delle antichità nella galleria, come Vincenzo nutrisse una certa simpatia per una condotta di vita che privilegiava gli aspetti epicurei e goderecci, con un certo distacco nei confronti della Chiesa. Il provocante Amore vincitore del Caravaggio, che si prende gioco dei valori tradizionali (e a cui l’Amor virtuoso del Baglione, che già era appartenuto al Cardinal Giustiniani, costituiva un pendant corretto) può forse bene illustrare queste inclinazioni epicuree di Vincenzo. Negli scritti, una simile concezione poteva essere espressa soltanto in passi secondari e pressoché nascosti, oppure sotto le vesti della satira (è significativo che i trattati di Giustiniani restassero inediti durante la sua vita). I quadri a soggetto religioso nella galleria potrebbero aver rivestito la stessa “funzione protettiva” della forma letteraria della satira: di fronte ai critici, Giustiniani poteva così replicare che egli in realtà stigmatizzava i vizi contrari alla morale cristiana e auspicava il trionfo dell’ “amor virtuoso”.

Cesare Colonna nel 1653 si sentì in dovere di premettere queste parole ad una poesia allegorica: “le parole di Fato, Cielo, Divinità, ed altre simili, apprendile come detti per vaghezza Poetica, non già per prevaricare dalla Catolica Fede”. Questo è uno dei molti esempi di come in quel periodo ci si sentisse obbligati a dare conferme della propria ortodossia quando si avesse a che fare con il patrimonio ideologico dell’antichità. Tematiche liberali potevano essere legittimate ove vi si potesse interpretare, attraverso delle allegorie, un messaggio cristiano. Allo stesso modo, Vincenzo Giustiniani seppe sottendere all’esposizione delle antichità nella sua galleria la possibilità di una lettura in chiave cristiana (il trionfo dell’”amor virtuoso” sull’”amor lascivo”). Le incisioni con Madonne, che dovevano concludere il primo volume della Galleria Giustiniana, non sono forse affatto dei frammenti erratici, come si è finora creduto, ma piuttosto, nel senso che si è qui delineato, un contrappunto ben calcolato all’entusiastica celebrazione della cultura antica. Analogamente, nel secondo volume della Galleria Giustiniana, le vedute della chiesa eretta da Vincenzo a Bassano sottolineavano l’inappuntabile sentimento religioso del marchese.

In conclusione, non è davvero necessario decidere se nella galleria del palazzo sia l’antichità a trionfare sul cristianesimo o viceversa - il senso dell’insieme potrebbe trovarsi proprio nella coesistenza della civiltà pagana e di quella cristiana. Vincenzo Giustiniani identificava le proprie radici tanto nella tradizione romana antica che in quella cristiana, ma prendendosi la “moderna” libertà di confrontarsi con questa eredità non dogmaticamente, con spirito critico e talvolta perfino con ironia. Egli non soltanto si esprimeva con distacco nei confronti della Chiesa, ma accettava altrettanto malvolentieri l’autorità assoluta degli antichi. Nella sua Istruzione per far viaggi formulava il principio generale secondo cui l’opinione delle autorità riconosciute dovesse essere verificata criticamente sulla base delle esperienze personali. Non credeva in ideali generalmente vincolanti, ma favoriva al contrario una apertura verso le differenti usanze nazionali e verso stili artistici diversi. Elizabeth Cropper ha sottolineato quanto sia importante nei trattati di Giustiniani il gusto personale - in altre parole, il libero giudizio individuale al di là delle regole accademiche. Alla luce dell’importanza che la “conversazione civile” rivestiva per Vincenzo Giustiniani, si può immaginare come l’allestimento della galleria dovesse sollecitare la libera discussione sugli antichi e i moderni, l’amore e la virtù, gli ideali astratti e le esperienze empiriche.

Se, come Scamozzi, si intende una collezione come autoritratto del collezionista, è possibile allora vedere nella galleria di palazzo Giustiniani il riflesso di una personalità complessa, che sottolineava la propria modernità mettendo in scena l’incontro di differenti tradizioni culturali. L’antico e il moderno si trovavano nella galleria in un rapporto di tensione, che potesse stimolare il visitatore a definire la propria posizione nella vivace controversia che in quel tempo si dibatteva fra gli “antichi” e i “moderni”. La preponderanza numerica e visiva delle sculture potrebbe accennare alle preferenze di Giustiniani in questo campo. Attraverso la presentazione delle sue sculture, il marchese si mostrava come un uomo ricco di idee e di spirito, che sapeva godere della vita. Egli si circondava delle sue antichità in un modo quale non si era ancora mai visto a Roma: il criterio espositivo era pittorico e narrativo piuttosto che architettonico, venato di umorismo e di elementi erotici, invece che carico di significati genealogici o scientifici. Con il caprone sistemato al centro della sala, Giustiniani ironizzava su chi prendeva troppo sul serio il rapporto con l’antichità; allo stesso modo di Democrito, il cui ritratto era probabilmente appeso nella galleria, appare come un uomo che volentieri sorrideva del mondo, come ha dimostrato nei suoi scritti satirici.

La pubblicazione della Galleria Giustiniana non fu meno straordinaria e innovativa della galleria stessa, ma dovette, per motivi di decoro, presentarsi in maniera più composta e solenne rispetto all’esposizione. L’opera a stampa non può in alcun modo essere intesa come illustrazione della galleria reale. All’allestimento reale, come pure alla presentazione grafica delle antichità, erano certamente sottesi principi estetici simili, ed entrambi celebravano la magnificenza del collezionista, ma, a prescindere da ciò, essi comunicavano messaggi diversi. Come già proponevano programmaticamente le prime tavole dell’opera a stampa, Giustiniani si prefisse qui di promuovere seriamente, da mecenate, l’ideale della cultura classica. La Galleria Giustiniana e la galleria di palazzo Giustiniani ci manifestano così due aspetti completamente diversi dello stesso uomo, in un certo senso il volto pubblico e quello privato di Vincenzo Giustiniani.


Gli Uffici del Senato a Palazzo Giustiniani

Tratto dal Sito Istituzionale del Senato della Repubblica

Sala dei Presidenti
La sala, così denominata poiché è destinata a custodire i fondi dei Presidenti del Senato, si caratterizza per il cielo che decora il soffitto. Sui lati più lunghi due ampie librerie custodiscono una vasta collezione di atti parlamentari, mentre in fondo è collocato il tavolo utilizzato per i convegni organizzati dall'Archivio storico.

Sala degli studiosi
Questa ampia sala è percorsa da un ballatoio in metallo che permette l'accesso ai documenti disposti negli scaffali. Nelle librerie sono contenuti progetti di legge e schede personali dei senatori del Senato del Regno. Un piccolo balcone offre a questo ambiente, frequentato ogni anno da numerosi studiosi, una splendida vista sulla Piazza del Pantheon.

Sala rossa
Questa sala, che prende il nome dal colore della tappezzeria, è un ampio ambiente di rappresentanza in cui il Presidente del Senato accoglie le delegazioni in visita. Le poltroncine e i divani in velluto rosso, la consolle con il ripiano di marmo e i dipinti alle pareti corredano il salone. Il soffitto a cassettoni impreziosito con ornamenti dorati, il parquet ad intarsi e gli eleganti lampadari completano un ambiente di grande raffinatezza

Sala degli specchi
In questa sala, dominata da dieci grandi specchi, il Presidente del Senato accoglie le delegazioni in visita. Il soffitto è a cassettoni con ornamenti dorati e da esso pendono due preziosi lampadari. Le decorazioni alle pareti sono di epoca recente. Sempre in questa sala si svolgono due incontri annuali tra il Presidente e i giornalisti parlamentari: a Natale e prima della sospensione estiva (cerimonia della consegna del Ventaglio).

Sala della Costituzione
Questa stanza è un simbolo importante per la storia della Repubblica: qui infatti il 27 dicembre 1947 Enrico De Nicola, Alcide De Gasperi e Umberto Terracini firmarono la Carta Costituzionale, momento immortalato da una bella foto che campeggia su una parete, sotto un planisfero. Sulle altre pareti una carta che descrive le conquiste di Roma ed una veduta della città imperiale. La stanza non è grande. Vi domina un'alta libreria di legno, con il ballatoio e una ripida scaletta a chiocciola per accedere agli scaffali più alti. Una copia della carta costituzionale è posta su un leggio. Il tavolo in stile rinascimentale è lo stesso della storica firma. Oggi in questa sala il Presidente del Senato riceve capi di Stato e di Governo. 

Palazzo Giustiniani  a cura dell'Ufficio comunicazione istituzionale del Senato
Visita virtuale a Palazzo Giustiniani dal sito del Senato un video-audio con la spiegazione di alcune sale dell’edificio.
Bassorilievi di Palazzo Giustiniani


LA COLLEZIONE GIUSTINIANI

stemma della galleria L'incredulità di S.Tommaso di Caravaggio (collezione Giustiniani)

L'incredulità di S.Tommaso di Caravaggio - collezione Giustiniani

la mia fotoC'era un luogo,a Roma, dove i viaggiatori e gli appassionati d'arte potevano toccar con mano, attraverso splendidi capolavori, la nascita, lo sviluppo, l'articolarsi della pittura del Seicento. Questo luogo era il palazzo Giustiniani, di fronte a San Luigi dei Francesi, dove erano raccolti circa 600 memorabili dipinti, purtroppo dispersi all'inizio dell'Ottocento e finiti nei musei di varie nazioni.
A quattro secoli dalla sua formazione, nel 2001, il nucleo fondamentale della collezione Giustiniani è ritornato nel palazzo di famiglia, oggi sede della Presidenza del Senato della Repubblica Italiana: un'occasione irripetibile per comprendere il magico rapporto che, in una antica collezione, legava le opere allo spazio che la conteneva. Le sale del palazzo sono state aperte per la prima volta al pubblico, offrendo l'immagine di uno spazio privato ed esclusivo, lontano dagli sfarzi delle grandi sale barocche. Si rivela così, in un percorso senza precedenti, l'atmosfera appartata di una cultura di raffinati conoscitori, sensibili all'arte come alla musica, al teatro ed alla letteratura, ma anche aperti alle suggestioni affascinanti della scienza galileiana. L'esposizione ha permesso di ammirare settanta opere dei grandi protagonisti della pittura del XVI e XVII secolo: Lorenzo Lotto, Veronese, I Carracci, Poussin, maestri italiani, francesi e olandesi, e, soprattutto, le tele di Caravaggio, di cui Vincenzo Giustiniani fu il primo e forse il più grande estimatore e collezionista.

ALLE RADICI DELLA STORIA DEI MUSEI NAZIONALI: IL COLLEZIONISMO ROMANO DEL SEICENTO
BENEDETTO E VINCENZO GIUSTINIANI
 la mia foto
Nella mostra è stata presentata la scoperta della prima versione del Cristo di Santa Maria sopra Minerva eseguita da Michelangelo e rimasta incompiuta a causa di un difetto nel marmo, una macchia sul viso emersa durante la esecuzione. I risultati della ricerca, vagliata da un comitato di esperti di Michelangelo, sono pubblicati su The Burlington Magazine, dicembre 2000. In un filmato le autrici della scoperta, Silvia Danesi Squarzina e Irene Baldriga, spiegano perché la statua rintracciata in una chiesa di Bassano Romano è del grande maestro toscano e come arrivò nella collezione Giustiniani. (A cura di: kwArt & kwBroadcast)
vai al filmato della scoperta del Cristo Portacroce di Bassano Romano
Grazie ad un progetto di Renato Passacantando per la Rai è nato il progetto "mostre impossibili",un ricco apparato didascalico: multivisioni, documentari, film, audio-video guide personalizzate a raggi infrarossi, musiche attinenti ai dipinti, DVD, cataloghi, libri scritti ad hoc, siti Internet, rappresentazioni teatrali, programmi televisivi ecc. su grandi artisti Italiani, online quello sul Caravaggio:
Tutta l'opera del Caravaggio: una mostra impossibile

Il progetto Giove sulla Collezione Giustiniani di Silvia Danesi Squarzina
LA GALLERIA GIUSTINIANA - PROGETTO DIGITALIZZAZIONE “SUPERBA ANTIQUA” a cura della Biblioteca Universitaria di Genova

Altri link alla Collezione antica dei fratelli Vincenzo e Benedetto Giustiniani
"I GIUSTINIANI E L'ANTICO" Nell’ottobre del 2001 a Palazzo Poli di Roma la mostra della collezione classica del Marchese Vincenzo Giustiniani
la mia fotoIl cannone Giustiniani grazie al contributo di Renato G. Ridella
Christina Strunck: L‘“humor peccante” di Vincenzo Giustiniani L’innovativa presentazione dell’Antico nelle due gallerie di Palazzo Giustiniani a Roma (1630-1830 circa)
Il mitra di Kriton e la copia della Collezione Giustiniani a cura di Claudia Valeri (presente nel giardino di Palazzo Giustiniani a Bassano Romano)
"CARAVAGGIO IN PRUSSIA" questo il titolo della mostra a Berlino svolta nel giugno-settembre 2001 che a Roma si chiamava "Caravaggio e i Giustiniani"


Le antiche terme di Nerone nell'area di Palazzo Giustiniani

Le Terme di Nerone o Alessandrine (poiché costruite da Nerone e restaurate da Alessandro Severo) erano un complesso termale di Roma antica, costruite nel Campo Marzio nel 62 e rifatte nel 227 o 229. Si trovavano nell'area delimitata dalle attuali piazza della Rotonda, via del Pozzo delle Cornacchie e via della Dogana Vecchia, per un'estensione che arrivava a coprire circa 190x120 metri.
Erano alimentate dall'Acquedotto Vergine, che già serviva le vicine Terme di Agrippa. Secondo la testimonianza di Sidonio Apollinare erano ancora in uso nel V secolo. Si trattava molto probabilmente delle prime terme romane di tipo "imperiale", cioè con gli ambienti organizzati simmetricamente attorno a un asse centrale, impostate a una notevole scenograficità.
Come nel caso delle terme di Agrippa, la pianta del complesso, di forma quadrata, è conosciuta da disegni rinascimentali (in particolare del Palladio e di Antonio da Sangallo il Giovane) ed è probabile, anche se non sicuro, che fosse la stessa del tempo di Nerone. Al centro si trovava la natatio (piscina) e le sale calde e fredde, affiancate da ambienti laterali, tra cui due peristili in funzione forse di palestre.
Oltre ai marmi pregiati riutilizzati nel tempo per l'edificazione di palazzi nobiliari e chiese (compresa la basilica di San Pietro), dall'area di queste terme provengono le due colonne di granito rosa reimpiegate nel 1666 per il restauro del pronao del Pantheon e un capitello monumentale conservato attualmente nei Musei Vaticani (Cortile della Pigna), dove fa da base al Pignone. Una cornice e due colonne sono attualmente rialzate presso i resti delle terme a piazza Sant'Eustachio, mentre un'altra colonna fu rialzata nel 1896 presso Porta Pia. Una monumentale vasca, già nelle raccolte di villa Medici, si trova oggi nell'anfiteatro del Giardino di Boboli, a Firenze.
Dell'edificio restano oggi pochi resti al di sotto di Palazzo Madama: durante i lavori di risistemazione della centrale termoidraulica del Senato della Repubblica fu scoperta alla fine degli anni Ottanta del XX secolo una grande vasca di granito bicromica (nero-rossa, del tipo importato dall'Egitto in epoca imperiale), probabilmente utilizzata per il bagno nel 'calidarium' delle terme. Restaurata nei suoi tre punti di frattura, fu donata dal presidente del Senato Giovanni Spadolini alla cittadinanza di Roma con una cerimonia pubblica e collocata - a mo' di fontana - su di un piedistallo rinascimentale nello slargo da allora ribattezzato 'piazza della Costituente', che collega via degli Staderari con via della Dogana vecchia e piazza Sant'Eustachio
L'obelisco Giustiniani Un'altra curiosità storico-archeologica è presente nell'area di Palazzo Giustiniani; pochi sanno che, di traverso alla via Giustiniani, a qualche metro di profondità, giace un obelisco egiziano interrato da secoli. Così sostiene Mario Dell’Arco, grande conoscitore di Roma e voce dialettale del popolo. In realtà tutti i tredici obelischi antichi, a decorazione delle piazze e fontane, sono rimasti sepolti per secoli. La notizia apparve per la prima volta sul giornale "Il popolo romano, giornale della capitale Roma" il 14 settembre 1882.
la mia fotoFantasmi a Roma: la piazzetta alchemica di Sant’Eustachio (tratto da www.romastorie.it)

Proprio alle spalle di Palazzo Giustiniani, uno dei suoi confini è su via di Sant'Eustachio che presenta una inusuale forma triangolare, ciò è bastato ai romani per conferirle lo status ufficioso di “piazzetta alchemica“.
Ma perché “alchemica”? Questo nomignolo deriverebbe da una antica credenza popolare che vorrebbe, proprio in questo luogo l’abitazione di un mago alchimista. La tradizione vuole che si tratti di tale Francesco Giustiniani Bono, alterego fittizio di Giuseppe Francesco Borri un noto alchimista del seicento (si parla di lui anche per un altro luogo magico di Roma: la porta magica di Piazza Vittorio) le cui controverse imprese pseudo scientifiche lo misero in opposizione con la chiesa cattolica.
Il Borri sarebbe morto nel 1695, eppure a soli tre anni dopo questa data risalirebbe la nascita presunta di uno dei più misteriosi personaggi del settecento: il Conte di San Germano, un leggendario alchimista che avrebbe trovato il segreto dell'elisir di lunga vita. Il confronto tra i ritratti di Francesco Giuseppe Borri e del Conte di San Germano, pur separati da almeno un secolo, mostrano secondo alcuni lineamenti compatibili con quelli di una stessa persona.
In seguito, agli inizi del diciannovesimo secolo, l’erudito Francesco Girolamo Cancellieri raccontò per primo la strana vicenda riguardante la porta alchemica di villa Palombara a Roma (attualmente visibile nel giardino di Piazza Vittorio). In questo resoconto l’inquietante figura dell’alchimista ospitato nella villa verrà poi tradizionalmente ricondotta a Borri legando indissolubilmente il suo nome a tutta una serie di attività occulte, magiche e sinistre. Oggi la via o “piazzetta” è nota anche per le presunte apparizioni del’oscuro alchimista che opererebbe ancora tra le mura del suo antro esoterico. Un’altra leggenda, trasmessaci nel 1802 dall’abate ed erudito Francesco Girolamo Cancellieri, afferma che l'alchimista Francesco Giustiniani Bono, dimorò per una notte nei giardini della villa alla ricerca di una misteriosa erba capace di produrre l'oro, il mattino seguente fu visto scomparire per sempre attraverso la porta, ma lasciò dietro alcune pagliuzze d'oro frutto di una riuscita trasmutazione alchemica, e una misteriosa carta piena di enigmi e simboli magici che doveva contenere il segreto della pietra filosofale. Il marchese fece incidere sulle cinque porte di villa Palombara e sui muri della magione, il contenuto del manoscritto coi simboli e gli enigmi, nella speranza che un giorno qualcuno sarebbe riuscito a decifrarli. Forse l'enigmatica carta potrebbe riferirsi al misterioso manoscritto Voynich, che finì nelle mani dell'erudito Athanasius Kircher, uno degli insegnanti del Borri nella scuola gesuitica.

Al di la di ogni fantasiosa speculazione via di Sant’Eustachio è senza dubbio una delle micro aree più suggestive della città. Le due imponenti colonne che appartenevano alle antiche terme di Nerone, sono poste in modo surreale di fronte a otto enigmatiche finestre murate; la cascata verde di un poderoso rampicante che divora in silenzio l’intero palazzo; l’incredibile sensazione di stasi che persiste nonostante la vicina e movimentata piazza della Rotonda conferisce al sito un’aura di sconcertante mistero e metafisica delizia che poche altre zone di Roma sanno donare.

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