GIOVANNI GIUSTINIANI LONGO
Giovanni
Giustiniani Longo (Ιωάννης Λόνγος Ιουστινιάνης, Iōánnēs Lóngos Ioustiniánēs;
Ioannes Iustinianus Longus), figlio di Bartolomeo* di Antonio “miles”, nacque,
presumibilmente a Genova, intorno al 1418 da uno dei due matrimoni del padre, il
primo con Novellina di Raffaele Giustiniani Arangio, il secondo con Eleonora di
Valerano Spinola. Secondo l’iter di formazione classico delle grandi famiglie
mercantili genovesi, svolse il suo apprendistato tra la Liguria e il cosmopolita
impero commerciale genovese che nel Levante faceva perno sulle colonie di Chio,
Pera e Caffa.
*Bartolomeo Giustiniani di Antonio, padre di Giovanni ebbe
dieci figli, l'ultimogenito Bartolomeo Domenico (1447/1467) fu armigero di re
Giovanni II di Sicilia, ebbe come figlio il valente ammiraglio
Brizio Giustiniani detto “il
gobbo”
che insieme ai figli
Galeazzo, Battista e Domenico fu molto attivo nell'attività di assentisti
marittimi con le loro galee al servizio delle potenze europee e italiane (Milano
e Napoli in particolare), assecondando o contrastando le alleanze che, collegate
anche alla lotta politica tra Adorno e Fregoso che caratterizzavano la
Repubblica di Genova. La cappella Giustiniani Longo dove riposano i pronipoti di
Giovanni è a Napoli nell’artistica chiesa di
Santa Maria delle Grazie a Caponapoli.
Possiamo supporre con una certa sicurezza che già da giovanissimo abbia
manifestato il comportamento sopra le righe che lo caratterizzerà anche da
adulto, come le cronache relative al suo modo spregiudicato di condurre affari
commerciali negli anni tra il 1443 e 1444 confermano. Secondo la tradizione
genovese, il padre mantenne la tutela su di lui anche oltre il raggiungimento
dei 25 anni di età: nel settembre 1443 Giovanni, ancora non emancipato, nel
riconoscere un debito nei confronti del setaiolo Andrea Bassignana, dichiarava
di svolgere attività di mercatura con il consenso del padre. Il successivo 26
ottobre Bartolomeo, padre e legittimo amministratore di Giovanni, nominò un
procuratore per amministrare i propri interessi a Chio e a Pera, allo scopo
espresso di impedire a chiunque di fornire denaro al figlio.
Incurante di obblighi verso i creditori come anche di tacite convenzioni
politiche, si avvicina alla fazione della famiglia Fregoso, in particolare ai
suoi capi, Giano e Pietro, esiliata dai dominanti Adorno nella guerra civile a
bassa intensità che dilania Genova, senza curarsi minimamente dei legami che suo
padre ha intessuto con il doge in carica. La scelta si rivelò quanto mai felice
e diede una svolta decisiva alla vita del Giustiniani. Giano Fregoso,
impadronitosi del potere nel gennaio 1447 grazie a un ardito colpo di mano, non
esitò a dimostrare in modo tangibile la sua riconoscenza a quanti lo avevano
aiutato nel periodo più buio delle fortune della sua famiglia. Questa scelta
apparentemente incosciente proietta la vita di Giovanni in una rapida parabola
ascendente. Oltre alla restituzione dei beni congelati per debiti presso i
magazzini della colonia di Pera, infatti, Giovanni diventa uno dei punti di
riferimento del doge, tanto da essere nominato provveditore per la guerra che
scoppia nel novembre del 1447 contro il marchese di Finale Ligure. Forse per il
successo nell’impresa, come anche per la fiducia di cui gode presso la nuova
fazione dominante, a Giovanni viene consentito di convolare a nozze con Clemenza
Fregoso, sorella del futuro doge Pietro, in un matrimonio chiaramente politico.
Giovanni Giustiniani era una persona molto capace, probabilmente con un
carattere forte e non facile, ma estremamente competente e leale. Proprio questa
lealtà sta probabilmente alla base del prestigioso incarico che gli viene
affidato nel 1448. La colonia genovese di Caffa, nella lontana Crimea, ha
infatti bisogno di un nuovo console, e il doge Giano Fregoso non ha dubbi:
Giovanni è l’uomo giusto per far capire anche oltremare che la fazione degli
Adorno non è più al comando. Incurante di esporsi a pesanti critiche per la
nomina di uno dei suoi pupilli, il doge non perde dunque tempo ed esorta
Giustiniani a partire per il Mar Maggiore, nome che l’attuale Mar Nero aveva
all’epoca sulle mappe e non solo.
In molti, come era consuetudine in quei tempi, avrebbero venduto la propria
carica per evitare di sobbarcarsi un viaggio tanto lungo verso una provincia
tanto remota, giacché il clima della Crimea non deve essere stato troppo
piacevole nemmeno nel 1400, ma abbiamo ormai capito come Giovanni non sia una
persona a cui piace conformarsi agli schemi. Dimostrando un desiderio di
avventura che pare calzargli a pennello, il nostro uomo parte senza indugio per
Caffa, dove giunge verso la fine di novembre del 1448.
Per i due anni successivi, Giovanni è protagonista della difesa degli
interessi genovesi nella regione, interagendo con i principali funzionari
politici della colonia ed esteri con il solito piglio spregiudicato, dobbiamo
supporre. Quando nel 1450 gli viene notificata la nomina di un membro della
famiglia Grimaldi come sostituto al consolato di Caffa, Giustiniani si trova di
fronte a un bivio: tornare a Genova per dedicarsi agli affari, o rimanere nel
Levante in cerca di avventura? Non abbiamo molte fonti relative alle attività di
Giustiniani per il biennio successivo al 1450, ma dobbiamo supporre che abbia
utilizzato la colonia di Chios come base per accrescere il proprio patrimonio
personale, sia tramite i leciti traffici commerciali sia tramite la meno lecita
ma ancora più redditizia attività piratesca in cui dimostrò ben presto di
eccellere.
Quando nel 1452 i venti di guerra tra i turchi di Maometto II e l’imperatore
Costantino XI iniziano a spirare, troviamo Giustiniani di ritorno a Genova per
consultarsi con il doge sul da farsi in una situazione tanto delicata. Il
cammino verso la città natale non è esattamente tranquillo…per gli altri
naviganti. Documenti destinati al Gran Consiglio di Genova ancora in nostro
possesso ci parlano infatti di diversi saccheggi compiuti dal capitano lungo la
rotta, a danno di imbarcazioni aragonesi, tunisine e ragusee nello specifico.
Come
si porrà la Repubblica nei confronti di Costantinopoli? Dobbiamo immaginare che
questa domanda circolasse con morbosa frequenza tra i carruggi durante le
settimane concitate alla fine del 1452. Gli insediamenti d’oltremare di Pera,
Chio e Caffa avevano inviato allarmate richieste di aiuto alla madrepatria, ma
la situazione era tutt’altro che facile. Genova aveva firmato un trattato di
amicizia coi turchi e non poteva schierarsi contro il sultano, ma sapeva anche
che non agire avrebbe aggravato notevolmente la posizione di Costantinopoli.
Esattamente come la rivale Venezia, la Repubblica aveva nella capitale
dell’agonizzante impero uno snodo fondamentale per i suoi traffici verso il Mar
Nero: la sua caduta in mano a Maometto II avrebbe inflitto un colpo durissimo al
commercio di risorse estremamente redditizie come mastice, pellicce e allume,
per non parlare dell’inesigibilità dei cospicui crediti vantati nei confronti
della casa imperiale. Giovanni Giustiniani Longo, ed è un corsaro, un
“privateer”, insomma rappresenta se stesso e non il governo della Superba, che
pure l’appoggia. Non è al comando di una flotta di stato – che i genovesi in
omaggio allo spirito di libertà e di iniziativa privata, e di doveroso risparmio
per il pubblico erario – saranno sempre molto riluttanti a creare. Agisce da
privato, in nome dell’Occidente, ma, in termini meno vaghi, in nome degli
interessi
privati dei suoi concittadini (sul tema: Matteo Salonia,
Genoa’s Freedom. Entrepreneurship, Republicanism and the Spanish Atlantic,
Londra, Lexington Books).
In questo scenario di stallo, possiamo immaginarci un Giustiniani piuttosto
irrequieto e non esattamente felice della decisione del doge di rimanere
neutrale nei confronti delle due fazioni…ma senza impedire la libera iniziativa
dei cittadini genovesi che volessero partire volontari per il Bosforo. Se le
fonti ci danno un’idea del suo carattere, possiamo immaginarci Giustiniani
disgustato da una simile decisione dal retrogusto di vigliaccheria, tanto da
assoldare a proprie spese una compagnia di otto-novecento mercenari e salpare
per Costantinopoli alla testa di due navi.
Quando il giovane sultano Mohamed II inizia ad armarsi per cingere d’assedio
la capitale bizantina, Pietro Fregoso invia Giovanni a Costantinopoli con due
navi armate cariche di grano dove vi sbarca il 26 gennaio 1453. Nonostante il
boccone amarissimo mandato giù dai greci nel ratificare l’unione della Chiesa
Ortodossa con quella di Roma, l’accoglienza riservata al genovese e ai suoi è
festosa. Finalmente, pensano gli abitanti della città, i latini mandano soldati
in risposta alle nostre richieste di aiuto, sebbene pochi. L’imperatore
Costantino XI
Paleologo, pur aspettandosi qualcosa in più anche dalle altre potenze
occidentali, non può certo dirsi scontento dei rinforzi: accoglie con affabilità
Giustiniani, con il quale dobbiamo supporre sia stato in contatto per via
epistolare durante il consolato a Caffa, e gli promette la signoria sull’isola
di Lemno in caso di successo nella difesa della città. Assumendo quindi il
titolo di
Protostrator, Giovanni si carica sulle spalle la responsabilità
dell’organizzazione e del comando delle difese di Costantinopoli.
L'ASSEDIO DI COSTANTINOPOLI (6 aprile - 29 maggio 1453) -
La battaglia di Costantinopoli -
Costantino XI. L'ultimo imperatore (1448 – 1453) -
CRONACHE DELLA CADUTA DI COSTANTINOPOLI 29 MAGGIO 1453
29 maggio 1453: 572 anni dalla caduta di Costantinopoli
I difensori di Costantinopoli confidavano profondamente nella possanza delle
mura difensive, che in ripetute occasioni avevano garantito la salvezza della
città. La prima cinta muraria venne edificata a partire dal 324, anno in cui la
città fu dichiarata capitale dell’Impero d’Oriente, e continuamente rafforzate
fino alla conquista turca del 1453.
Le prime fortificazioni furono definite “Mura di Costantino” e proteggevano
la capitale sia da terra che dal mare. Un progetto che risale alla fondazione
stessa della città, da parte dei coloni greci giunti da Megara e comandati da
Byzas, da cui la città prese il nome. Le prime mura, risalenti al VII secolo, e
avevano lo scopo di tutelare quello che in breve era divenuta un importante
crocevia commerciale,
Il compito che attende Giovanni Giustiniani, per usare un eufemismo, è complicato: la città
può contare su circa ottomila uomini e una trentina di navi per respingere
l’assalto nemico, ma i turchi dispongono di almeno ottantamila tra fanti e
cavalieri secondo le stime più conservative e di non meno di duecento legni.
Certo, Costantinopoli vanta un innovativo sbarramento galleggiante per tenere la
flotta turca fuori dal Corno d’Oro e il sistema delle Mura Teodosiane, le più
imponenti del mondo, ma una simile sfida sembra davvero impari. Il fatto che i
turchi si servano in maniera massiccia di cannoni giganteschi contro
fortificazioni vecchie di quasi un millennio, poi, la fa sfociare in una
missione impossibile.
Nemmeno di fronte a tanta disparità, però, Giustiniani riesce a perdersi
d’animo. Le fonti ce lo descrivono nel centro nevralgico di ogni operazione
difensiva imbastita dagli assediati: guida i suoi dalla prima linea nella
respinta di ogni assalto, organizza squadre per la costruzione di barricate
nelle brecce, si getta a capofitto nell’azione tanto da rimanere leggermente
ferito in più di un’occasione e incarna di fatto lo spirito battagliero dei
difensori ancora più dello stesso imperatore. Anche quando i turchi riescono ad
aggirare lo sbarramento sul Corno d’Oro trascinando le loro navi via terra,
Giustiniani mantiene i nervi saldi, o quasi.
Il carattere del genovese, giovane e impetuoso, si andò a scontrare con il
Megaduca bizantino Luca Notaras, anch’egli a difesa della città, e
tradizionalmente avverso ai latini: secondo le fonti, infatti, Giovanni richiese
al Megaduca un cannone da posizionare sulle mura, per rispondere al fuoco dei
turchi; alla risposta negativa del bizantino, Giovanni rispose:
“Chi mi trattiene, o traditore, dall’ucciderti con la mia spada?”.
Alla testa di poche migliaia di armati dalle provenienze più disparate -
greci, genovesi, veneziani, cretesi, catalani, perfino turchi - fu per quasi due
mesi l’anima della difesa contro le preponderanti forze navali e di terra del
sultano, giunto dinanzi a Costantinopoli il 4 aprile con un esercito che le
cronache stimavano (per eccesso) tra le 200.000 e le 400.000 unità. Come
attestato da tutti i testimoni dell’assedio, comprese le fonti turche, fu il
Giovanni, non l’imperatore bizantino, l’unico vero antagonista del sultano che
cercò vanamente di corromperlo, grazie alla propria esperienza militare e al
proprio personale carisma.
Quando
le truppe turche di Maometto II comparvero di fronte a Costantinopoli, il
ministro delle Finanze, Georgeos Sphrantzes, aveva già provveduto a notificare
la documentazione sugli uomini in grado di portare armi, annotando la cifra di
circa 4.800 persone. Un’altra fonte, il commerciante fiorentino Jacopo Tebaldi,
riporta invece la cifra di 6.800 uomini, comprendendo le truppe ausiliarie e
mercenarie. Il tutto considerando che la città aveva all’epoca circa 45mila
abitanti, metà dei quali donne, almeno 1/3 in età troppo giovane e un altro
terzo in età troppo avanzata. A questi numeri vanno aggiunti circa duemila
combattenti stranieri, soprattutto genovesi, veneziani e catalani. Il più grande
contingente straniero era composto dai 700 uomini agli ordini del genovese
Giovanni Giustiniani, al quale l’imperatore affidò la difesa, promettendo in
appannaggio l’isola di Lemnos. Altri 200 uomini arrivarono con il cardinale
Isidoro di Kiev. Il resto era in gran parte fornito dalle colonie occidentali
della città, sotto la direzione dei rispettivi consoli, ad eccezione della
colonia genovese di Pera, sulla riva nord del Corno d’Oro, che si era proclamata
neutrale.
Il numero degli assedianti turchi è ancora oggi difficile da stimare, dal
momento che gli storici ottomani non hanno fornito cifre precise. Il veneziano
Nicolò Barbaro, che ha lasciato il racconto più dettagliato e verosimile
dell’assedio, riporta un totale di 160mila soldati direttamente impegnati
nell’assedio, fra truppe regolari, 15mila giannizzeri, fanteria armata di fucile
e ausiliari, ai quali vanno aggiunti i dervisci e diversi monaci guerrieri, i
quali avevano seguito il sultano perché credevano che la città sarebbe caduta in
seguito alle preghiere dei fedeli, più che a causa delle armi, come recitava la
tradizione musulmana. In effetti, le testimonianze degli assediati raccontano
che i difensori erano quasi più spaventati dal tumulto delle invocazioni delle
decine di migliaia di turchi, che dal rombo del cannone.
Giovanni Giustiniani Longo, comandante delle truppe di terra dell'Impero,
dimostra una notevole abilità ed un grande coraggio. Dopo il primo forte attacco
turco, del 13 aprilela settimana successiva, il 20 aprile, quattro navi (tre genovesi e una bizantina), cariche d’armi e
provviste, raggiunsero la città. La flotta ottomana, composta di una dozzina di
galere e da una ottantina di biremi, cercò di intercettarle, senza riuscirci.
Dopo un combattimento di diverse ore, gli alleati bizantini riuscirono a
superare la catena che sbarrava l’accesso al Corno d’Oro e a entrare nel porto.
In rappresaglia, il sultano Maometto II tentò l’impresa più spettacolare di
tutto l’assedio: durante la notte, 72 biremi, spinte a forza di braccia su
tronchi di legno ingrassati, furono portate via terra dal Bosforo al Corno
d’Oro, per circa 5 km e un dislivello di 70 metri, passando alle spalle del
quartiere genovese di Galatas. I genovesi accusarono i veneziani di aver
suggerito al sultano lo stratagemma, già utilizzato nel 1438 in Italia, fra
l’Adige al Lago di Garda. Da parte loro i veneziani sostennero che i genovesi
avevano avvertito Maometto II delle intenzioni di incendiare la flotta turca,
una volta che fosse entrata nel Corno d’Oro.
Un secondo attacco ci fu il 7 maggio, con 30000 uomini, dopo il terzo,
del 12 maggio, con 50000 uomini, Mehmed concentrò i bombardamenti contro la
porta di San Romano; tentò, il 16 ed il 17 maggio un assalto marittimo contro le navi
avversarie, nuovamente schierate lungo la catena del porto.
In ogni caso, non fu certo la trovata di spostare le navi nel Corno d’Oro
che determinò la caduta di Bisanzio, come non lo fu l’idea di stendere un ponte
formato da barili legati gli uni agli altri per portare le fanterie turche ai
piedi delle mura marittime, oppure la collocazione di sette ordigni esplosivi
sotto le mura terrestri, che furono neutralizzate dall’artificiere tedesco
Johannes Grant per ben sette volte il 16, il 17, due volte il 21, il 23, il 24 e la settima ed ultima, la più
pericolosa di tutte, il 25 maggio, o ancora la grande torre mobile turca di legno, coperta di cuoio, più alta delle mura, in corrispondenza
della Porta di Xylokerkos, distrutta dal fuoco,
nella notte del 18 maggio.
La conquista di Costantinopoli fu possibile soprattutto grazie alla potenza
del cannone turco, in grado di sparare proiettili da 450 kg per non meno di 120
volte al giorno, e puntato verso le mura nel tratto in cui si trovava la porta
di San Romano. Giustiniani elaborò personalmente diversi piani per la difesa,
che portarono alla distruzione delle gallerie che i turchi avevano scavato per
entrare nella città sotto la cinta muraria, e diresse personalmente la
ricostruzione dei tratti demoliti dai colpi del grande cannone turco.
Mentre il Giustiniani difendeva la Porta San Romano, come narra Leonardo di
Chio, un altro genovese
Maurizio Cattaneo, prende posizione, piene di
ardore, come comandante della difesa dalla Porto di Peghé, cioè della Fonte, fino
alla Porta Aurea, assieme a duecento balestrieri, a cui erano mescolati anche dei
greci, proprio di fronte a quel bastione di legno, coperto di pelli bovine, che stava al
di là delle mura. I fratelli Paolo, Troiło e Antonio Bocchiardi assumono il comando
della difesa, con grande coraggio e con armi loro, a proprie spese, nel punto assai
critico di Miliandro [Miriandrou o Polyandrou], dove la difesa era più pericolosa,
rimanendo continuamente all'erta, notte e giorno...
Gerolamo Italiano e Leonardo di Langasco, ambedue genovesi, assieme a molti
loro commilitoni, tenevano la difesa della Xyloporta e delle torri dette Anemadi,
che erano state rimesse in sesto a spese del cardinale [Isidoro di Kiev]
In poco tempo le bombarde turche dimostrarono di essere ben altra cosa
rispetto alle armi utilizzate da Murad II nell’assedio del 1422 e, giorno dopo
giorno, le mura venivano gradatamente sbriciolate ma, per quanto potenti e
spettacolari, richiesero tempo per essere demolite, e ciò consentì a Giovanni
Giustiniani di adottare efficaci contromisure, facendo riempire i varchi con
sacchi di lana e barili ricoperti da cumuli di terra per attutire i colpi.
Il 22 maggio si verificò un'eclissi di luna. Qualche giorno dopo, durante
una processione mariana intesa a santificare le mura e a ottenere
l'intercessione della Madonna per la loro difesa, la statua della Vergine
Ogiditria, cadde a terra; seguì un violentissimo temporale e poi una nebbia
inusuale per la stagione e i fedeli, sconfortati, abbandonarono la cerimonia:
tutto lasciava intendere un abbandono del divino e una imminente fine.
La sera dopo la cupola di Santa Sofia si illuminò di luce rossastra che
dalla base del tamburo risalì al suo culmine, anche gli Ottomani osservarono il
fenomeno e se ne preoccuparono. Mehmed consultò gli astrologhi che
interpretarono l'evento come un segno fausto: la vera fede stava per entrare
nella basilica. L'interpretazione bizantina fu diametralmente opposta: lo
spirito santo stava lasciando la città e l'abbandonava al suo destino.
La gravità della situazione, inaspettatamente, rinforzò i legami tra
l'imperatore e la cittadinanza e ricostituì una solidarietà politica che, in
parte, era andata perduta: tutti, ormai, nella città attendevano l'attacco
finale e decisivo degli Ottomani. La sera del 28 maggio, un lunedì, Costantino
XI Dragazes si recò in Santa Sofia e questa volta la chiesa era gremita di
gente; il Basileus chiese perdono per i suoi peccati davanti a tutti e ricevette
l'eucarestia. Poi tutte le candele della basilica furono spente e la chiesa
rimase completamente al buio. Nel buio interrotto solo da alcune candele perenni
e nel silenzio l'imperatore si inginocchiò solo davanti all'altare e si raccolse
in preghiera.
All’alba del 29 maggio, nell’imminenza dell’assalto definitivo,
Maometto II tenne il celebre discorso ai propri uomini, nel quale si proclamava
padrone assoluto di terre, costruzioni, armamenti e dotazioni militari, ma
lasciava la città con le sue ricchezze al libero saccheggio. Un discorso che
tutti si aspettavano, in ragione del fatto che i difensori di Costantinopoli
avevano più volte rifiutato l’offerta di resa onorevole del sultano, e quindi
subentrava il diritto di conquista e depredazione, nonché di riduzione in
schiavitù degli abitanti.
L'attacco fu portato da tre ondate successive: nella prima furono impiegate
truppe di minor valore, per saggiare la resistenza degli ultimi difensori,
composte prevalentemente da cristiani che prestavano servizio nell’esercito
turco per adempiere al dovere di vassallaggio dei loro sovrani nei confronti
degli ottomani. La seconda ondata, invece, fu portata da soldati provenienti
dall’Anatolia, ben più esperti, ma anche questi furono respinti con notevoli
perdite, finché entrarono in campo i giannizzeri, truppe di élite costituite da
veterani cristiani, passati al servizio del sultano. I difensori respinsero
l’assalto degli irregolari, poi quello della fanteria anatolica, e alle prime
luci dell’alba della del 29 maggio 1453 vengono investiti dall’ondata delle
truppe d’élite del sultano, i temibilissimi giannizzeri. A dispetto di ogni
pronostico, il pugno di difensori piagati dalla fame e da due mesi di
cannoneggiamento continua a resistere…fino a che Giustiniani non viene ferito da
un colpo di colubrina. Il condottiero fu portato verso la sua nave in cerca di
un medico, quando i turchi aprirono una breccia proprio in prossimità della
porta di S. Romano (ora Porta Topkapi - TOPKAPI KALEİÇİ). L’elogio funebre di
Giovanni Longo Giustiniani fu fatto da Maometto II che disse di lui che da solo
valeva più dell’intera flotta greca. Dopo un ultimo invito alla resa da parte
dell’imperatore Costantino, il sultano ordinò la ripresa dei bombardamenti.
Quando le mura di San Romano crollarono, e venne aperta la breccia, un numero
ben superiore di turchi si riversò lungo le mura. Intorno alle sette del
mattino, i Giannizzeri riuscirono a penetrare nello spazio di mura compreso tra
quelle Teodosiane e quelle Costantiniane, allargando la falla nel bastione
ottenuta dagli irregolari parecchie ore prima
L’ultima difesa fu condotta personalmente dall’imperatore Costantino XI, che
morì combattendo e il cui corpo venne identificato fra i caduti molto dopo la
resa. Alcune fonti raccontano che morì trafitto da decine di frecce, altre che
fu decapitato, altre ancora che precipitò dalle mura. Contemporaneamente, un
gruppo di soldati ottomani scoprì un passaggio nella muraglia interna, vicino la
porta di San Romano, riuscendo a penetrare oltre le barricate. Da quel momento
la difesa cominciò a cedere e l’esercito ottomano non trovò più ostacoli.
"nelle strade di Costantinopoli il sangue scorreva come l'acqua dopo un
temporale e i cadaveri galleggiavano verso il mare come meloni in un canale. Il
giovane sultano Mehmet II, in sella a un cavallo bianco, guadò il lago di sangue
e attraversò lo scenario spettrale della città in rovina per recarsi a Santa
Sofia. Mehmet II aveva vent'anni, era un lettore di classici persiani, greci,
latini. Quando scorse uno dei suoi soldati smantellare con l'ascia l'antico
pavimento di marmo della basilica, gli fermò il braccio: "Accontentati del
denaro e dei prigionieri, gli edifici della Città lasciali a me". Le macerie
degli altissimi edifici di Costantinopoli possono assumersi a simbolo visibile
del primo grande scontro di civiltà fra Islam e Occidente, alla vigilia dell'evo
moderno. Da quel momento la guerra dei nuovi popoli nel nome di Allah acquistò
una forza d'urto senza precedenti. Quando Maometto II entrò nella città, si
diresse immediatamente a Santa Sofia, centro nevralgico e punto di riferimento,
che fu tra i primi edifici ad essere spogliato dei simboli cristiani e
trasformato in moschea.
La
storiografia, soprattutto occidentale, comprensibilmente ha sempre esaltato il
tentativo della Cristianità di difendere l’ultimo bastione dell’impero,
esagerando gli orrori commessi dagli attaccanti turchi durante l’assedio e,
soprattutto, nella fase immediatamente seguente, quando le truppe di Maometto II
si riversarono nella città. In realtà, lo stesso sultano aveva il massimo
interesse nel preservare le istituzioni e risparmiare gli orrori di un massacro
senza discriminazione, soprattutto perché il possesso di Costantinopoli e dei
suoi abitanti costituiva una preziosa merce di scambio. Di certo ci furono molte
vittime nei combattimenti all’interno della città, ma furono molte di meno di
quanto gli storici occidentali hanno riportato. Lo storico greco-bizantino Mikel
Dukas parla di circa tremila morti e, salvo alcune migliaia di persone che
riuscirono a fuggire, il resto della popolazione venne fatto prigioniero.
Alla fine del terzo giorno di saccheggio il sultano rivolse un appello agli
abitanti ancora nascosti, perché uscissero allo scoperto in cambio della
libertà, e dispose che la sua parte di prigionieri (1/5 del totale) fosse
raccolta sul Corno d’Oro. Il resto dei prigionieri venne raggruppato per la
vendita in schiavitù nei luoghi più sperduti dell’Impero, lasciando
Costantinopoli quasi disabitata. Determinato nel fare della città la nuova
capitale del proprio dominio, Maometto II si preoccupò da subito di ripopolarla
attraverso uno spostamento forzato da tutte le province sotto la propria
autorità. Il censimento del 1447 riporta la cifra di circa 60mila abitanti, per
il 45% Greci, Ebrei e Armeni non musulmani, fatto che dimostra come, nell’opera
di ripopolamento, nulla fosse stato lasciato al caso, e che esistesse
l’intenzione di ricreare una entità multi-confessionale. Al tempo stesso,
Maometto II cercò l’appoggio degli anti-unionisti della Chiesa ortodossa, per
evitare ogni possibilità di alleanza dei nuovi sudditi con l’Occidente. A tale
scopo, il nuovo patriarca, Gennadios Scholarios, fu ufficialmente confermato nel
ruolo.
Alla morte, avvenuta nel 1481, Maometto II regnava su un territorio i cui
confini erano pressoché uguali a quelli dell’Impero d’Oriente prima del 1453,
eccetto l’Italia e la Spagna, ma con in più l’intera penisola arabica e
l’odierno Iraq. E’ quindi secondo tale concetto che gli storici vedono una
continuità delle istituzioni imperiali, e non una frattura con il passato.
Le connotazioni religiose dalla conquista di Costantinopoli sono innegabili:
la città era stata ambita e concupita per secoli da molte potenze; inoltre, la
sua conquista per mano islamica è frequentemente preconizzata nelle fonti arabe
ed è già annunciata in ḥadît attribuiti al Profeta:
«Conquisterete Costantinopoli, poi farete un’incursione contro Roma e Dio vi
darà la vittoria, perché se ciò non fosse vero io sarei presso di Lui tra coloro
che dicono menzogne» e ancora: «Certo conquisteranno Costantinopoli e il
suo principe sarà un principe fortunato e l’esercito che la conquisterà un
esercito eccellente».
Secondo la consuetudine islamica, Costantinopoli viene saccheggiata per tre
giorni in quanto non ha accettato la resa ed è stata conquistata con la forza.
Per giustificare il fatto che molti luoghi fossero stati risparmiati durante il
sacco, era dunque necessario agli storici ottomani elaborare una versione dei
fatti alternativa, secondo cui un soldato bizantino durante l’assedio avrebbe
proditoriamente consegnato Costantinopoli agli assedianti aprendo un varco lungo
le mura. Questa tradizione sarà poi riutilizzata dal patriarcato nel XVI secolo
affinché le chiese cristiane della capitale non vengano espropriate e
trasformate in moschee.
Nel giro di qualche settimana la notizia della caduta della capitale
bizantina raggiunse Venezia e da lì si diffuse in tutta Italia e in Europa.
Nonostante ciò nessuna spedizione fu organizzata contro i turchi, e
Costantinopoli divenne la nuova capitale dell’Impero Ottomano.
LA CONTROVERSA CRITICA ALLE FERITE E ALLA RITIRATA DEL CONDOTTIERO
GIOVANNI GIUSTINIANI LONGO
È
universalmente noto che Giovanni Giustiniani lasciò il posto, o fu portato via
dai suoi, a seguito di una o più ferite mortali, insieme a tutti coloro che
poterono cercarono di fuggire, imbarcandosi sulle navi del Giustiniani e Giorgio
Doria. L'eroe giunse a Chios il successivo 10 giugno e li morì qualche giorno
dopo proprio a causa di queste ferite poco più che trentenne.
La natura esatta della sua ferita, o delle sue ferite, è purtroppo
sconosciuta, ciò non tanto perché le fonti non ne parlino, ma per l’esatto
contrario, vi è una sovrabbondanza di testimonianze sulla ferita fatale, che
solo parzialmente combaciano tra loro. La maggior parte di queste fonti parlano
solo genericamente di ferite, spesso senza specificarne la natura o in che parte
del corpo (in altri casi, specificano solo una delle due cose). Solo due fonti
non citano per niente la ferita come causa della sua fuga: Niccolò Barbaro (che
lo chiama Zuan Zustignan "alla veneziana) e Antonio Ivani. In questi due casi,
la testimonianza potrebbe essere falsata, per volontario discredito verso il
genovese, entrambi gli autori sono infatti veneziani. Particolarmente duro
Niccolò Barbaro che esplicitamente che "Zuan Zustignan genovese da Genova,
deliberava de abbandonar la sua posta". Sia Leonardo di Chio, sia la
“Cronaca Altinate” e un commento a margine del diario di Niccolò Barbaro,
scritto da una seconda mano, parlano espressamente di una ferita da freccia.
Leonardo riporta che Giustiniani fu ferito sotto l’ascella, mentre la “Cronaca
Altinate” riferisce di una ferita alla mandibola. Leonardo di Chio parla di una
crisi psicologica del Genovese, e la motiva con !'inesperienza della giovane
età, col pavore alla vista del sangue della ferita sotto l'ascella per un colpo
di freccia, e con l'intento di andare a farsi curare, lasciando il fronte di
nascosto affinché i combattenti, che non sapevano quanto gli era accaduto, non
si smarrissero nel vederlo abbandonare il suo posto. Il cronista rimprovera
soltanto al comandante di non avere lasciato un altro in suo luogo.
Il commento a Barbaro non descrive dove il capitano rimase ferito. Per
questi cronachisti, Giustiniani fuggì poiché preso dalla paura, dopo aver visto
il sangue sgorgare copioso dalla sua ferita. Giorgio Sfranze riporta la ritirata
per lo stesso motivo, anche se è l’unico a parlare di una qualche ferita alle
gambe, e nello specifico al piede destro. Altre fonti parlano di una ferita
causata da un proiettile di arma da fuoco.
Ubertino Pusculo parla di una ferita al braccio, mentre Eparkhos e
Diplovatatzes riferiscono soltanto di una generica ferita da arma da fuoco.
Jacopo Tetaldo riferisce di una ferita in una parte imprecisata del corpo
causata da una colubrina. Giustiniani in questo caso si allontana dal campo per
cercare un medico, ma apparentemente senza mettere nessuno al suo posto e senza
avvisare i suoi. Questi, presi dal panico credendo che Giustiniani fosse
scappato, abbandonarono i loro posti. («Il signor Giovanni, Giustiniani, un
genovese al servizio dell'imperatore, si trovava in questo punto e fu colui che
qui si comportò più valorosamente. La città intera aveva fiducia in lui e nel
suo coraggio. Fu ferito da una colubrina, e se ne andò per cercare le cure di un
medico. Prima di fare ciò egli affidò la difesa del suo posto a due gentiluomini
gènovesi. Durante questo tempo i turchi scalavano le mura sempre più in alto, e,
al vedere ciò, i soldati, che stavano difendendo all'interno della città,
vedendoli già dentro le mura in così gran numero e vedendo che Giustiniani si
allontanava, credettero che egli stesse fuggendo, così abbandonarono i loro
posti e fuggirono anch'essi. Con tali mezzi i turchi entrarono in Costantinopoli
il 29 maggio, mettendo a morte a fil di spada chiunque opponesse loro
resistenza»).
La testimonianza più interessante in tal senso, dove è ripreso anche
l’allontanamento per cercare un medico, è forse quella di Nestor-Iskander (nel
il "Racconto di Costantinopoli"), che gli studi più recenti vorrebbero tra i
testimoni oculari dell’assedio. Insieme a Sagundino, Nestor-Iskander è l’unico
che parla in modo esplicito di due ferite. Un primo colpo di colubrina avrebbe
colpito Giustiniani sul pettorale dell’armatura, fracassandogli lo sterno e
facendolo cadere a terra. I suoi dovettero accompagnarlo presso la sua
abitazione per farlo curare.
Qui
perse i sensi appena tentarono di sistemare la ferita. Riavutosi, Giustiniani
avrebbe ordinato di essere di nuovo portato sul campo di battaglia, dove però
sarebbe stato colpito da un secondo proiettile, alla spalla destra. Con il
secondo colpo “cadde a terra come morto”, e fu infine portato via dai suoi,
causando la fuga dei suoi uomini. (Alla capitale bizantina «non venne aiuto
da nessuna parte: solo un principe genovese, di nome Zustuneja, arrivò in
soccorso dell'imperatore con due navi mercantili e due trireme armate, avendo
con sé seicento prodi: passò attraverso tutta la flotta turca e giunse fino alle
mura della capitale. L'imperatore gli dette, in tutto duemila dei suoi uomini,
ed essi si batterono contro i turchi con molto coraggio, da veri eroi. Zustuneja
non solo manteneva la sua posizione, ma andava anche lungo le mura della città a
rinfrancare e incoraggiare la gente, perché non perdesse la speranza, e diceva
che era indispensabile avere fiducia nell'aiuto di Dio, e l'esortava a non
lasciarsi andare, a combattere, contro gl'infedeli con tutta l'anima e tutto il
cuore: Il Signore Iddio - diceva - ci aiuterà. Con tali, parole ammaestrava e
guidava la gente. Venne ferito gravemente, mentre era intento alle opere di
riparazione dei guasti alle mura»)
Infine, Cristoforo Riccherio menziona una sola ferita, e alla schiena, ma
unico tra tutti racconta di un caso di sfortunato fuoco amico. Anche in questo
caso, Giustiniani si sarebbe allontanato per cercare un medico, però ponendo uno
dei suoi al comando della difesa. La concordanza tra le fonti sembra essere solo
su una grave ferita al corpo inferta da distanza e non durante un combattimento
corpo a corpo, ferita che avrebbe causato l’allontanamento dal campo di
battaglia. Sembra realistico ipotizzare che dopo aver subito una prima grave
ferita, alla parte alta del corpo (braccio, spalla, petto), Giustiniani abbia
deciso di allontanarsi dal campo di battaglia per cercare un medico. Se la
ferita fosse stata debilitante, non avrebbe potuto proseguire lo scontro. Non è
improbabile che il genovese sia quindi tornato sul campo di battaglia, ma solo
per assistere al crollo definitivo della difesa, causato anche dal suo
allontanamento, e per ricevere forse una seconda ferita. A questo punto, avrebbe
definitivamente abbandonato il suo posto per lasciare la città. Per quanto la
scelta sia stata dettata probabilmente sia dalla situazione della battaglia che
dalle condizioni fisiche di Giustiniani, la scelta del capitano genovese di
abbandonare il campo ha offuscato in modo indelebile il coraggio e la
determinazione mostrati per tutti i giorni dell’assedio. (Fonte:
CAPRIOLI M. Gli ultimi difensori. La morte di Costantino XI e Giovanni
Giustiniani Longo).
Fu facile per i detrattori dei genovesi, in particolare i veneziani, ma
anche per quanti erano intenzionati a difendere a posteriori il proprio operato,
come il podestà di Pera Angelo Giovanni Lomellino, imputare a Giovanni Longo la
colpa della ritirata dei difensori e della conquista turca di Costantinopoli.
Angelo Giovanni scrive al cugino Antonio una lettera piena di desolazione e di
angoscia, in cui dipinge la ritirata di Giovanni Giustiniani Longa ed il crollo
delle difese, il saccheggio di Costantinopoli, la fuga dei superstiti verso il
porto, nel vano tentativo d'imbarcarsi sulle navi che stavano salpando. Una
recente edizione di questa lettera, a cura di Giustina Olgiati, ha
brillantemente risolto il problema d'un passo guasto, e perciò tanto discusso,
proprio a proposito della ritirata del Giustìnìanì: "Sum certus sclveritìs
ante istam de inopinato casu Costantinopoli.vcapto a Domino Teucro alli 29
elapsi, qua die expectabamus cum desiderio, quia videbatur nobis habere certam
victoriam. Dedit Dominus prelium tota nocte undique, et in omni loco vìriliter
receptus est; in summa mane Johannes Justinianus cepit invaghimentum et portam
suam dimisit, et se tiravit ad mare et per ipsam portam Teucri intraverunt,
nulla habita resistentia: concludendo, sic vili modo non se deberet amittere
unurn casale».Il Lomellino non accenna a ferita o ferite del Giustiniani. Il
termine di
invaghimentum, non è del tutto ignoto ai testi genovesi dell'epoca,
nel significato di «smarrimento», «confusione». In sostanza il podestà di Pera,
con giudizio severo (astio personale?), rimprovera al comandante genovese un
momento di debolezza che gli fece lasciare il combattimento.
Sfuggita al
blocco turco, come le altre imbarcazioni dei Latini, grazie alla confusione
provocata dall’inizio del saccheggio, la nave del Giovanni veleggia verso Chios.
Il 30 maggio si trova presso l'isola di Marrnara, nel mare omonimo. Il 31 maggio
naviga tra l'isola di Marmara e Gallipoli; il l giugno è giunta paulo citra
Galipolim; il 4 giugno, sfuggita al pericolo, avanza verso Tenedo; 1'11
giugno risulta ormai arrivata a Chio. In quello stesso giorno si tenne. un'asta
pubblica per la vendita dei beni del defunto Antonio Spina de Serro, imbarcati
sulla nave a Costantinopoli o Pera: tra gli acquirenti fu anche un Giovanni
Giustiniani, che non sappiamo però' se 'fu il magnificus , dominus od un suo
omonimo, Cioè Giovanni Giustiniani fu Napoleone o Giovanni Antonio Giustiniani
(se non sono la medesima persona), citati rispettivamente in documenti del .3
marzo 1459 e del 7 ottobre 1460. Senza questa possibile omonimia, avremmo
un'altra prova certa dell'ultima vicenda del grande comandante genovese.
Iacopo Languschi, Adamo da Montaldo ed Enea Silvio Piccolomini dicono che il
Giustiniani Longo morì appena fu sbarcato nell'isola ed sepolto nella locale
chiesa di San Domenico dove vi morì il 1 agosto dopo per i postumi delle ferite riportate a
Costantinopoli e fu sepolto nella chiesa di S. Maria dei domenicani (S. Maria di
Castello), oggi perduta con il terremoto del 1881 dove poi fu sopra fu
ricostruita la moschea di Bairakli Djami oggi in rovina (qui a destra).
Quali sono i dati oggettivi di questa drammatica vicenda, al di là delle
emozioni del momento, anche nel ricordo, in coloro che in qualche modo ne furono
partecipi? Non si mettono in, discussione il coraggio, la capacità combattiva,
l'abilità strategica e di manovra di Giovanni Giustiniani Longo,da tutti
considerato come il pilastro della difesa di Costantinopoli. E non v'è dubbio
sul tattoche egli venne ferito: di una ferita che lo portò alla morte dopo oltre
due mesi di sofferenza. Le accuse di paura, di smarrimento, di pavore alla vista
dell'assalto nemico e del sangue sono impressioni o giudizi del tutto soggettivi
negli autori che ne parlano, e per di più poco certificanti per un uomo che
aveva già superato la trentina, possedeva una lunga esperienza di armi per avere
partecipato alla guerra del Finale, avere condotto imprese corsare o piratesche,
avere diretto per due mesi la difesa della capitale greca con numerosi morti e
feriti. Circa la sua uscita dal campo di battaglia, .è poco credibile che egli,
assentandosi a causa della ferita, non lasciasse nessuno al suo posto. In realtà
fu comunque una drammatica coincidenza quella per cui, proprio In quel momento,
l'attacco ottomano raggiunse il punto massimo, là dove il propugnacolo delle
mura più non esisteva. Rendendosi conto che non c'era più nulla da fare contro
l'enorme superiorità delle forze avversarie, Giustiniani Longo cercò di porre in
salvo quanta più gente possibile nella sua navestracolma di uomini e donne con
le loro poche cose. Una conclusione? Non possiamo sottovalutare né dimenticare
l'elogio di Isidoro di Kiev nella testimonianza sulla difesa di Costantinopoli:
«Noi eravamo in pochi, e quindi combattemmo finché ci fu possibile, avendo pure
l'aiuto dei genovesi che, compiendo ogni sforzo, hanno cercato di difendere la
città. E benché esteriormente si mostrassero alleati del Turco e questo loro
atteggiamento fosse dovuto ad un, deliberato proposito, ciò malgrado essi di
nascosto, durante la notte, ci inviavano tutti quegli uomini che potevano e che
erano in grado di combattere; partecipavano compatti alle riunioni del consiglio
imperiale e si consigliavano con le altre genti sul modo migliore per difendere
l'impero. C'è qualcuno che li accusa di esser responsabili della resa della
città ai Turchi a seguito di una, loro' defezione allo scopo di salvaguardare la
loro pace; ma ciò non sarà' da ritenere ragionevole, perché essi, che si
trovavano come noi nello stesso pericolo e nella stessa situazione critica non'
potevano farsi esecutori della loro rovina. E in effetti, una voltapresa
Costantinopoli, nello stesso istante anche Pera cadde sotto il potere dei
Turchi, i quali, distrutte le loro mura, ridussero in totale rovina la loro
repubblica.. lo, che mi trovavo là personalmente, 'posso fornire . una
testimonianza veritiera sulla,situazione: essi si comportarono in modo valoroso
ed eroico».
Gli storici quindi si dividono in quelli che lo accusano di codardia e
quelli che difendono il suo operato; a me piace considerare una “terza via”,
sicuramente meno scientifica ma più romantica, che vede un giovane genovese,
ferito desideroso di ripartire per rivedere e morire nella sua terra a Chios.
Nonostante che la figura ancora resti controversa per questa repentina non
spiegabile fuga, Giovanni Giustiniani Longo è ancora oggi considerato un eroe
dell'ellenismo ed a lui sono dedicate strade e scuole in tutta la Grecia. La
fermezza eroica dei restanti difensori, comandati dal balì veneziano Gerolamo
Minotto, non bastarono a fermare l’assalto. Costantinopoli fu saccheggiata per
tre giorni, i maggiorenti della città furono tutti decapitati tra di essi
Maurizio Cattaneo e Girolamo Minotto. Altri genovesi parteciparono alla difesa
tra essi citiamo: Antonio Bocciardo, Gerolamo Interiano, Lodisio Gattiluso,
Francesco Salvatici, Leonardo di Langasco, Giovanni del Carretto e Giovanni De
Fornari.
Heronimo
Giustiniani (1586) riporta il testo della sua lapide sepolcrale nella Chiesa dei
Domenicani (poi S. Maria di Castello), ora dispersa: «Hic jacet Ionnes
Justinianus, inclytus vir, ac patricius Genuensis Sciique Monensis, qui in
Costantinopolis expugnatone a principe Turcarum Meemet, serenissimi Constantini
Orientalium ultimi christianorum imperatoris magnanimus dux, alectus
vulnereaccepto interit. Anno a partu Virgiinis M.CCC.LIII.VII Kalend. Augusti»
(«Qui giace Giovanni Giustiniani, nobiluomo e patrizio genovese della maona
di Chio, nominato grande comandante dal serenissimo imperatore Costantino,
ultimo degli imperatori cristiani orientali, durante l'espugnazione di
Costantinopoli per opera di Mehemet, sultano dei turchi, morì per una ferita
ricevuta nell'anno 1453 il I di agosto»). Nell'opera successiva di
Michele Giustiniani (1658) viene riportata in modo in parte diverso: «Hic
iacet Io: Iustinianus inclytus , ac Genuensis Patritius, Chyque Maonensis, qui
in Costantinopolis expugnatione facta è Principe Turcarum Mchemeth , Serenissimi
Orientalium ultimi Christianorum Imperatoris magnanimus Dux latali (fatali)
vulnere ictus interӱe». Non è chiaro se il frammento di marmo bianco (misure
massime 0.25 x 0.28 m, lettere 0.03 m) ritrovato vicino la Moschea (ora al Museo
archeologico di Chios) appartenga alla tomba del comandante (trascrizione "-
- - | filio pa [ - - - | ncord [ - - - | I [ - - -- - | -" Fonte: Hasluck,
F. W. 1909-10 ‘The Latin Monuments of Chios’, Annual of the British School at
Athens, Vol. 16; 137-184 e dello stesso autore: Hasluck, F. W. 1911 ‘Genoese
Lintel-reliefs in Chios’, Burlington magazine, Vol. 18, n. 96, Marzo 1911;
329-330, tavv. 1-2.).
Come nota lo studioso Agostino Pertusi, da data dell'epitaffio è errata o è
stata letta male dall'editore Hasluck, ritenendo che nell'originale epigrafico
il primo od il secondo grafismo, letto come V, fossero in realtà un segno per X,
ad indicare il numero 50, cioè 10x 5, oppure 5x10, secondo un sistema scrittorio
dei numeri romani non ignoto al secolo XV. Quindi Giovanni Giustiniani Longo
morì il 1 agosto 1453: il che è confermato appunto dal fatto che Leonardo di
Chio nella sua lettera del 16 agosto da Chio a papa Nicolò V parla del
Giustiniàni come di persona già deceduta. Altra conferma emerge dalla notizia di
un documento dell'Archivio di Stato di Genova, in data l settembre 1453,
segnalato da Giustina Olgiati, dal quale risulta che Giovanni Giustiniani Longo,
cognato del doge Pietro Campofregoso, era morto nel mese precedente. Si tratta
della lettera che, quando la notizia della morte giunse a Genova, il doge Pietro
di Campofregoso scrisse al fratello del defunto, Galeazzo Giustiniani, da poco
designato come podestà di Chio: «Quotìens memoratur, totiens dolorem auget,
nec remedio ullo sanari potest: habuimus eum non ut cognatum, sed ut fratrem, et
vos, eius fratres, loco sui semper renuebimus, nichilque umquam erit quod pro
comodis ac dìgnitate vestra non faciamus, memores sue in nos caritatis».
Il grande comandante genovese si spense dunque dopo oltre due mesi di
degenza, per setticemia, infezione, forse per cancrena. Tale circostanza è
avvalorata da un fatto, di cui, si è data sinora una diversa interpretazione,
L'annotazione anonima sul margine del testo di Leonardo di Chio nel codice
Trivulziano, dove si legge: «Cum Chium applicavìsset, ab illis venenum
Iohanni datum est, quo vita functus est». Scrive in proposito Agostino
Pertusi che «deve trattarsi di una malignità veneziana». In realtà ai
contemporanei dovette apparire come effetto di un veleno, propinato per rancore
o vendetta, quello che era invece il visibile risultato di una setticemia, per
la ferita ricevuta.
Il Cronachista Leonardo (Giustiniani) da Chio, testimone oculare
agli eventi riporta i momenti della conquista di Costantinopoli e le vicende di
Giovanni Longo, nella sua
Epistula de urbis Costantinopoleos captivitate
Non perdete proprio nella piazza antistante la Porta S. Romano il
Museo Panorama 1453 (Merkez Efendi Mahallesi, Topkapı Kültür Park İçi
Yolu, 34015 Zeytinburnu/İstanbul) una grande rappresentazione interattiva
permette al visitatore di vedere la ricostruzione dell'assedio di Costantinopoli
del 1453.
Non esistono rappresentazioni di Giovanni Giustiniani Longo, l'unica che
potremmo definire ufficiale è quella che si trova a Bassano Romano nella Villa
Giustiniani nel salone affrescato da Francesco Albani nel 1609, raffigurato poi
successivamente da Rodokanakis nel suo libro i "Giustiniani di Chios" pubblicato
nel 1900. Qualsiasi altra ricostruzione è di pura fantasia o assonanza con i
condottieri dell'epoca.