BATTAGLIA DI COSTANTINOPOLI (6 aprile - 29 maggio 1453)

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La caduta della città di Costantinopoli è un nuovo esempio del millenario scontro tra due civiltà: quella occidentale e quella orientale, che, come nei miti greci, avrebbe caustao una serie di lutti secolari e di infinite sciagure per la Cristianità. La "seconda Roma" era caduta, e un impero millenario con essa, mentre la "grande paura del mondo", cioè i turchi, si affacciava pericolosamente sul continente dopo aver distrutto l'ultimo baluardo cristiano che era stato posto tra Europa ed Asia: in parole povere sia Roma che Venezia che lo stesso Sacro Romano Impero vedevano ai loro orizzonti non più la croce di Cristo ma le verdi bandiere del profeta. Il termine "turco" indica generalmente un insieme di popoli nomadi e allevatori, che abitavano in origine le steppe nord-orientali dell'Asia. La parola Turk ("forza") la troviamo per la prima volta nel V secolo d.C. circa, quando quei popoli si allearono con i Wei della cina settentrionale contro i Juan-Juan che probabilmente li tenevano in regime di schiavitù. Sconfitti qesti ultimi i Turchi si impadronirono dei loro territori e i loro capi assunsero il titolo di Khagan o Khan che successivamente, crearono un vastissimo regno nell'Asia centrale, ma che viste le discordie interne (tipiche delle tribù nomadi) si dissolse ben presto; i Turchi vennero così sconfitti prima dalla dinastia T'ang nell' VIII secolo, e poi dagli Arabi nella battaglia del fiume Talas (751). Il loro valore militare restò comunque immutato, il califfo al-Mu'tasim cominciò ad arruolare truppe presso la tribù dei Buyidi, che col tempo ereditarono la gestione del potere militare arabo anche se formalmente restavano mercenari. Nel 1055 un'altra tribù turca quella dei Selgiukidi rovesciò il potere dei Buyidi per impadronirsi definitivamente del potere, installandosi a Baghdad. Al califfo (a cui rimaneva il potere religioso e morale) si sostituì il "Sultano" cioè il "detentore del potere", quello assoluto: fu proprio uno dei primi sultani a sconfiggere a Manzikert l'esercito bizantino dell'imperatore Romano VI. Da lì in poi i destini dei Turchi e dei Bizantini sarebbero stati sempre legati in un modo o nell'altro, anche se i Selgiukidi furono rovesciati dall'invasione Mongola di Hugalu, e sostituiti da un altra tribù turca, se possibile ancora più feroce, quella degli Ottomani, dal nome del loro primo signore Osman, in ararbo Othman. La guerra tra Impero Romano d'Oriente ed Ottomani, ad eccezione di brevi periodi di non belligeranza, non ebbe molte soste, e andò avanti con una serie di sconfitte degli Imperiali: caddero Nicea (1331), Pergamo, Nicomedia, la Tracia fu saccheggiata (1353), Gallipoli fu presa, e, nel 1359 i Turchi giunsero fino alle mura di Costantinopoli e conquistando anche Adrianopoli, in Tracia, dove spostarono subito la loro capitale. Le capacità dei Turchi comunque non erano solo militari, seppero infatti approfittare delle rivalità dei popoli balcanici (Serbi, Greci, Bulgari) per consolidare il loro potere, in modo che la loro superiorità militare divenisse sempre più schiacciante. La crociata indetta da Urbano V nel 1363 (nella quale erano coinvolte Ungheria, Serbia, Bosnia e Valacchia) fallì, come fallirono gli altri tentativi di coalizzare le forze balcaniche contro la minaccia turca: con le sconfitte nel Kosovo di Serbia (1389) e di Varna (1444), nella quale morirono il re Ladislao d'Ungheria e il cardinale Cesarini, tramontò definitivamente ogni tentativo di resistenza organizzata unitariamente, mentre gli Ottomani proseguivano strappando Salonicco ai Veneziani e arrivando fino all'Albania e all'Ungheria.

homeI Protagonisti

COSTANTINO XI PALEOLOGO (Imperatore bizantino)(1403-1453)

Figlio di Emanuele II Paleologo a ventisei anni sconfisse i Franchi della Morea, e riuscì a tenere quasi sempre a bada i Turchi in Beozia ed in Tessaglia. Dopo la contesa per il trono con il fratello Demetrio, divenne nel 1449 l'ultimo Imperatore Romano d'Oriente. Nonostante l'Occidente si disinteressasse completamente della sorte di Costantinopoli, Costantino cercò di ricucire i rapporti tra la Chiesa cristiano-ortodossa d'Oriente e quella cattolica-romana d'Occidente per creare un fronte di solidarietà e salvare almeno la città, l'unica cosa che ormai retsava dell'impero. Il suo popolo e il clero, però, erano ancora memori del saccheggio dei Crociati nel 1204 ai danni della città stessa, quindi non appoggiavano assolutamente questa sua iniziativa, così sia Venezia che la Chiesa di Roma si limitarono nel loro appoggio ai bizantini. La resitenza di Costantino sulle mura della città fu, però, così tenace che i turchi furono tentati più di una volta di abbndonare l'assedio della città, l'ultimo dei basileus morì su una breccia alla testa di un manipolo di nobili mentre già irrompevano i giannizzeri

GIOVANNI GIUSTINIANI LONGO (?-1453)(Capitano di ventura genovese, alleato dei bizantini)

Il comandante della difesa di Costantinopoli, Giovanni Giustiniani-Longo, era già podestà di Caffa al momento dell'offensiva turca. Di propria iniziativa aveva raggiunto la città con due galere e 700 uomini, sfuggendo al poderoso blocco navale operato dai turchi. Tursun Beg, lo storico di Maometto II, racconta che "il capo dei demoni" sarebbe stato trafitto da un ghazi (soldato senza paga, che viveva solo del bottino di guerra) sul muro più esterno della città mentre si scatenava l'ultimo assalto. Per i Veneziani e per i Greci invece sarebbe stato lui a diffondere il panico tra gli assediati, diffondendo la falsa notizia che i turchi stavano già dilagando nella città; salvato a stento dai suoi mentre Costantinopoli crollava sarebbe stato condotto sull'isola di Chio dove successivamente morirà.
Figura controversa, interpretata dagli storici sotto luci diverse e contraddittorie, Giovanni Giustiniani Longo fu un valoroso soldato.
Nei Commentari de’ Turchi di Andrea Gambini (1541), ideale prosecuzione del libro che porta lo stesso titolo, scritto da Paolo Giovio nel 1531, una storia scritta quasi cento anni dopo la caduta di Costantinopoli e perciò cristallizzata nella tradizione e nell’immaginario collettivo, due sole figure emergono con connotati personali: l’imperatore e il genovese Giovanni Giustiniani Longo.
Il Giustiniani Longo, gravemente ferito, si allontanò dalle mura e riuscì a mettersi in salvo, mentre la città che aveva valorosamente difeso insieme ai propri soldati, ormai capitolava. Due mesi dopo, per le conseguenze della ferita, "Giovanni Iustiniano Genovese" moriva. Galata (nota anche con il nome di Pera), la città dei Genovesi, era perduta.
Il governatore della città, Angelo Giovanni Lomellino, scriveva una lettera carica di dolore e di trattenuta rassegnazione e la inviava in patria, a un parente, per narrare l’accaduto. Pochi giorni dopo, i Genovesi mandavano ambasciatori a Maometto II per trattare la pace e chiedere l’autorizzazione a proseguire i propri commerci.
Il Sultano impose condizioni piuttosto aspre e, nonostante lo studio dei documenti notarili rogati a Pera in quel periodo abbia dimostrato una prosecuzione abbastanza normale (più certo di quello che ci si aspetterebbe) della vita e delle attività quotidiane, la decadenza della città sarebbe stata, di lì a poco, inarrestabile.
Pera, per i Genovesi, per l’economia genovese, era perduta.
Il sospetto di tradimento che gravò sul Giustiniani, in realtà dovrebbe investire anche tutti gli altri esponenti delle famiglie occidentali legate a Costantinopoli per prestigio e censo. In effetti si verificarono "strani" fatti durante l'assedio della città: la flotta pontificia era rimasta ferma a Chio nell'attesa che "cambiasse il vento", la flotta veneziana era bloccata a Negroponte in "attesa di ordini", poichè il senato lagunare aveva appena discusso l'ipotesi di abbandonare la città al suo destino; inoltre le navi turche trascinate per via di terra passarono indistuurbate di fronte al quartiere genovese di Galata; infine, la maggior parte delle famiglie occidentali restò incolume dalla strage conseguente all'irruzione turca, godendo addirittura della concessione di poter scegliere se lasciare la città o restarvi, nonchè di nuovi privilegi commerciali. Testimonia contro il sospetto, invece, il comportamento valoroso dimostrato dalle navi veneziane e genovesi durante un combattimento svoltosi il 20 aprile. Probabilmente non conosceremo mai la consistenza degli interessi tra turchi e commercianti italiani, ma le "dicerie" riportate dai cronisti indicano che, tra i partecipanti ai fatti, vi fu un "balletto di responsabilità" provocato da un evidente senso di colpa sviluppatosi in Occidente a seguito della caduta di Costantinopoli.

GIORGIO CASTRIOTA (generale cristiano)

Figlio di un nobile Albanese, questo personaggio entrò nella storia per essere stato uno dei pochi, se non l'unico, ad aver sconfitto i turchi nel loro momento di massima espansione balcanica. Ceduto come ostaggio ai turchi stessi ed educato all'Islam, aveva combattuto contro i cristiani maturando una grande esperienza, che gli fruttò il soprannome di "Iskander Beg", ossia "Principe Alessandro", con riferimento ad Alessandro il Grande. Più tardi però il Castriota abiurò l'islamismo e, tornato cattolico, liberò il suo popolo. Dopo la sua morte (1468) l'Albania venne riconquistata palmo a palmo dai turchi, ma molte delle comunità albanesi si trasferirono nel meridione d'Italia dove ancora oggi attraverso i dialetti, perpetuano la loro lingua. Un bellissimo canto popolare immagina che Skanderbeg in punto di morte chiami il figlio e gli ordini di fuggire al di là del mare: "giungendo alla spiaggia troverai un cipresso, profumato e funesto, a quel cipresso lega il mio cavallo [...] presso il cavallo, al vento del mare, spiega la mia bandiera e alla bandiera lega la mia spada. Quando soffierà la tramontana il cavallo nitrirà, la bandiera sventolerà, e la spada tintinnerà dal funebre cipresso: il Turco sentirà, e ricordando la morte che dorme sulla mia spada, non vi seguirà dove sarete andati."

MAOMETTO II (1430-1481)(Sultano turco)

Maometto II El Fatih (il Conquistatore), detto anche Humkar ("assetato di sangue"), parlava correttamente cinque lingue, e s'interessava di poesia e di filosofia. Volle visitare le rovine di Troia e amava farsi leggere le gesta di Alessandro Magno. Forse fu proprio da quelle letture che trasse lo spunto per il suo odio contro l'Occidente. Nel 1451, appena ventunenne, Maometto II era già salito al trono succedendo al padre Murad II, il quale, nonstante i lunghi periodi trascorsi in guerra, era riuscito a riorganizzare l'amministrazione e a promuovere lo sviluppo delle scienze e delle arti, spingendo la sua "influenza" fino al punto di "sponsorizzare" la candidatura del futuro re dell'Impero Romano d'Oriente Costantino XI Paleologo. Dopo essersi sbarazzato del suo unico fratello, il neonato Ahmed, edificò la fortezza di Rumeli Hisar sulla sponda europea del Bosforo per bloccare i rifornimenti dal Mar Nero alla città di Costantinopoli. Dopo la caduta della città, vi spostò la capitale rinominandola Istanbul, deformazione turca del greco stin bolin (in città), e riconsacrò come moschea la cattedrale di Santa Sofia. In seguito l'invasione turca arrivò in Croazia, Bosnia e tutto il Peloponneso tranne Rodi. Maometto, consapevle delle divisioni interne degli stati occidentali, seppe approfittarne concedendo privilegi ai commercianti veneziani e greci, oltre a riconfermare quelli già detenuti in precedenza dai genovesi, ottenendo, grazie a dazi e tributi, una fortuna tale da poter costruire una imponente flotta. Con Maometto II l'impero turco avrebbe raggiunto confini che erano detenuti in precedenza da Bisanzio stessa al tempo del suo massimo splendore. Morì improvvisamente nel 1481 mentre stava preparando l'invasione dell'Italia.

Antefatti alla battaglia
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Alla battaglia di Costantinopoli, che ebbe il suo epilogo il 29 maggio 1453, ci si arrivò dopo un anno di assedio da parte dei turchi, da quando cioè, il 14 aprile 1452, il sultano Maometto II fece iniziare i lavori per la costruzione di una fortezza militare sulla sponda europea del Bosforo, a pochi chilometri da Costantinopoli.
Il sogno di Maometto II era quello di conquistare la città per farne la capitale dell'impero ottomano. Anche suo padre, Murad II, aveva tentato in passato la conquista, ma venne respinto.
Quando l'imperatore Costantino XI succedette nel 1448 a suo fratello Giovanni VIII, Costantinopoli era una città quasi in rovina, abbandonata da metà della popolazione, con scarsi commerci a garantirle la sopravvivenza. Era considerata imprendibile, dato che era circondata da alte e spesse mura, e fino all'avvento di Maometto II aveva saputo respingere molti tentativi di invasione.
Quando ancor prima del 1453 la situazione si fece seria, Costantino XI si rivolse all'Occidente perché si assumesse l'onere e l'onore di difendere la capitale d'Oriente. Egli offriva, in cambio di truppe e di navi, l'unione delle due Chiese, l'orientale e l'occidentale, che però non convinse i principi della cristianità, sempre divisi da discordie tra di loro.
Nel marzo del 1453 Maometto II pensò di essere pronto. Intorno a Costantinopoli aveva concentrato un esercito di circa centoventimila uomini. Inoltre poteva contare su centoquarantacinque navi e su potenti artiglierie.
Pur continuando a essere grande dal punto di vista storico, da quello politico Costantinopoli non lo era più. Invece per Mehmet fu grande sia in un senso che nell'altro. Gli parve che la città imperiale fosse la quintessenza della vita. Possedere Costantinopoli significava essere padrone del mon do civilizzato, oltre che farne parte: da tempo immemorabile il suo aureo splendore ingolosiva i nomadi.
Il sultano dei turchi credeva che il titolo di imperatore dei romani fosse legato al possesso di Costantinopoli e sperava che conquistandola avrebbe acquisito legittimità agli occhi degli europei, poiché sapeva che essi lo consideravano un barbaro. Non solo desiderava impadronirsi di una celebre metropoli, ma ambiva al «riconoscimento sociale», prova ne sia il suo tentativo di negare l'ascendenza turca e di millantar ne una comnena.
Ma per quanto irreali potessero essere i motivi su cui basava i suoi piani, il modo in cui li mise in atto fu ben ponderato e metodico.
Nell'inverno del 1451, pochi mesi dopo aver preso il potere, riunì migliata di operai delle costruzioni sulla sponda europea del Bosforo, poco più a nord di Bisanzio, e di fronte al Guzel Hissari (oggi Anadolu Hissari) di Beyazid cominciò a costruire una gigantesca piazzaforte, per impedire agli abitanti di Co stantinopoli di raggiungere il Mar Nero. Conosciuta la sua intenzione, essi si spaventarono. «L'imperatore voleva subito aprire le ostilità per impedire a Mehmet di attuare quel progetto. Ma alcuni membri del consiglio lo dissuasero: "Se costruisce una fortezza, la espugneremo facilmente, perché si trova vicinissimo a noi"» (Sphrantzes).
Era il peggior consiglio che si poteva dare al basileios. La piazzaforte di Mehmet, la più possente mai costruita, che gli ottomani chiamarono Boghas-kesen («scorciatoia dello stretto», che oggi ha nome Rumeli Hissari = «castello di Rumelia», cioè d'Europa) sorse con rapidità incredibile: altezza metri 50, mura spesse da 3 a 7 metri, tetti coperti di piombo, tre torri di oltre 20 metri e larghe fino a 21. Una guarnigione di 400 uomini disponeva di cannoni in grado di sparare pietre da 225 a 300 chili. Bogas-kesen era pressoché inespugnabile, e i bizantini si dovettero presto rendere conto che Mehmet aveva intenzione di annientarli in una stretta mortale.
Il 25 novembre 1452 il capitano veneziano Antonio Erizzo, provenendo dal Mar Nero con una nave per il trasporto dei cereali, attraversò il Bosforo. Giunto nelle vicinanze del castel lo turco, una palla di cannone cadde all'improvviso in acqua poco lontano dalla prua, e dall'alto gli fu duramente intimato di ammainare le vele; fidando nella neutralità della sua Repub blica, Erizzo non ubbidì e dalla fortezza spararono di nuovo, un'altra palla fischiò e spaccò il cargo in due. Erizzo e alcuni marinai, nuotando controcorrente, toccarono terra, dove li attendevano i giannizzeri. Poche ore dopo, le loro teste ornava no già i merli delle mura di Mehmet.
Nè lo sfortunato capitano nè i bizantini seppero che si era trattato di un esperimento e non di una provocazione degli ottomani. La palla che aveva mandato a picco la nave non era stata sparata da un cannone ordinario, bensì da una nuova arma segreta di Mehmet, di un tipo mai visto, creata da un certo Urbano di Transilvania, il quale non la ritenne affatto il punto d'arrivo della sua ricerca nel campo delle bocche da fuoco, bensì il primo stadio verso ordigni più potenti. Mehmet, il committente, fu il primo generale della storia a capire che gli scontri armati del futuro non sarebbero più stati eterminati dall'intervento della cavalleria o della fanteria, bensì da quello dell'artiglieria. Egli fu anche il primo a trarne le conseguenze.
Anche il diplomatico bizantino Laonikos Chalkokondyles aveva parlato dell'attacco di Murad II contro Costantinopoli: «Con i pezzi di artiglieria cercò di abbattere le mura, senza lerò riuscire a far breccia. Le palle pesavano soltanto tre mezzi alenti» (54 chilogrammi). Non fu più possibile raccontare notizie simili su Mehmet. Infatti, avendo come obiettivo i possenti valli della città imperiale, egli ordinò che Urbano gli costruisse un cannone tale da superare quello di Boghas-kesen. E il transilvano, incoraggiato dai risultati delle prime prove di tiro, si mise al lavoro.
Cinque mesi dopo, la mostruosa bocca da fuoco era pronta. 50 coppie di buoi e 700 uomini non riuscirono a smuoverla. Era in grado di lanciare palle da 600 chili a quasi due chilome tri di distanza. Il rumore del colpo si udiva tutt'intorno per ore. Quando Mehmet vide l'arma, si rese conto che ormai Costanti nopoli era a portata di mano e che il suo sogno cominciava a diventare realtà. Ma, ancora una volta, si guardò bene dal precipitare le cose, agì invece come se avesse paura di non riuscire a porre rimedio all'eventuale fallimento di un'impresa che per lui era tutto. home

Nel marzo del 1453 Maometto II pensò di essere pronto. Intorno a Costantinopoli aveva concentrato un esercito di circa centoventimila uomini. Inoltre poteva contare su centoquarantacinque navi e su potenti artiglierie.
Con infinita pazienza completò i piani d'attacco, studiò scritti italiani e tedeschi che parlavano delle tecniche d'assedio, si circondò di esperti occidentali, controllò e ricontrollò gli schizzi delle fortificazioni della metropoli da conquistare. Di solito la luce della stanza dove lavorava si spegneva soltanto poco prima dell'alba. Ma nelle notti in cui non poteva nè lavorare nè dormire andava vagando per le vie di Adriano poli: voleva, travestito, sentire il parere del popolo sul proget tato assalto. Pugnalava chiunque osava riconoscerlo e onorarlo chiamandolo sultano.
Il cronista bizantino Michele Duca, dandocene notizia, affer ma anche che Mehmet uccideva esseri umani come fossero pulci e che ci provava gusto. A Costantinopoli, dove si spargeva sangue con facilità, come ad Adrianopoli, si cominciò lentamente ad organizzare i prepa rativi per l'ultima battaglia. Correvano voci spaventose. Co stantino e i suoi consiglieri rifecero l'inventario delle risorse e delle probabilità e confrontarono i risultati con la situazione globale, che era la seguente:
Venezia, che considerava Costantinopoli un'enorme azienda commerciale, non sapeva se aiutare o no la città minacciata. Da un lato temeva per i possedimenti che aveva sul Corno d'Oro, dall'altro però non voleva guastare i favorevoli rapporti commerciali instaurati con gli ottomani. Quando la nave di Antonio Erizzo fu fatta colare a picco, una parte della signoria si dichiarò pronta a rompere ogni relazione coi turchi, un'altra parte invece non ne volle sapere e ordinò agli agenti periferici che tutto rimanesse come prima.
Genova, che abitava nel quartiere di Pera, reagì in maniera altrettanto indecisa. Pur lasciando ai propri mercanti piena libertà di schierarsi prò o contro i turchi, ordinò contemporaneamente al podestà di Galata di trovare con Mehmet un accomodamento che garantisse l'in violabilità dei beni genovesi. I ragusani, presenti a Costantino poli da quando i latini erano stati scacciati, avrebbero appog giato Bisanzio soltanto se si fosse costituita una grande coalizio ne cristiana contro i turchi.
Neppure Inghilterra e Francia sarebbero potuti venire in soccorso, in quanto ambedue erano appena uscite dalla guerra dei centanni.
Il papa, che aveva invano scongiurato Federico III di aiutare la città minacciata, dovette alla fine contentarsi di inviare sul Bosforo un legato con qualche centinaio di armati. Risultato: l''Europa piantò in asso Costantinopoli, il mondo cristiano aveva cancellato dalla memoria la sua antica capitale. L'occidente aveva ben altro a cui pensare. La città sul Bosforo dovette fare ricorso alle sue poche forze militari.
Ma non si può dire che questa fosse la soluzione migliore Nel porto di Costantinopoli c'erano navi veneziane, ai cui capitani non reggeva il cuore di abbandonare la città minaccia ta; quindi misero gli equipaggi al servizio dei bizantini. Da Genova, all'ultimo momento, era giunto con 700 mercenari il celebre capitano di ventura Giovanni Giustiniani Longo, che voleva provare il brivido dell'assedio, ricordato anche nelle memorie di Lord Byron nell’ottocento. In tutto c'erano quindi 2000 stranieri.
Da parte sua Costantinopoli aveva meno di cinquemila Soldati. Veramente poco per difendere ventidue chilometri di mura dall'assalto di centoventimila musulmani. Per essere precisi, poteva contare su 4973 uomini abili alla guerra, un'inezia, se si pensa al milione circa di abitanti che aveva ai tempi di maggior splendore. Anche la flotta era assai malridotta: c’erano otto navi Veneziane, cinque Genovesi, una di Ancona, una di Barcellona e una di Marsiglia ed altre dieci più piccole bizantine, per un totale di 26 navi che restarono per tutto l'assedio ormeggiate al porto. Armi e munizioni: poche colubrine, scarse quantità di polvere e qualche antiquatissima catapulta.
Un piccolo contributo dall'europa quella delle libere repubbliche, in uno scontro tra civilta' liberta' contro bestialita' e opressione, la liberta' del mediterraneo mori' praticamente con Costantinopoli.
Ma i mezzi a disposizione di Costantinopoli non erano tutti qui: c'era anche qualche lato positivo. L'equipaggiamento belli co dei soldati italiani, per esempio, era assai superiore a quello dei turchi, e le fortificazioni della città potevano ancora consi derarsi pressoché inespugnabili.
Le triplici mura di Tracia, gioiello della tecnica difensiva, erano in grado di sostituire da sole un intero corpo d'armata. Dietro un fossato largo 20 metri, che se necessario poteva essere riempito d'acqua, si ergeva un primo basso parapetto; ancora più indietro, a 15 metri di distanza, sorgeva il vallo esterno, alto 7 metri e protetto da torri quadrangolari podero se, staccate di 20-30 metri l'una dall'altra (vallo che a sua volta era sormontato da un parapetto). Poi veniva il muro interno, di spessore impressionante, alto 18 metri, con torri di 20 metri che coprivano gli spazi tra i bastioni del vallo esterno. Dodici porte interrompevano la linea di difesa, ed erano tutte munitis sime.
Le mura che costeggiavano il Marmara e il Corno d'Oro erano meno poderose, ma più facilmente difendibili delle altre. L'imbocco del Corno era bloccato da una grossa catena di ferro fissata a due torri che si ergevano sulle due sponde da punta Acropolis, limite meridionale del Corno dOro, a Pera, limite a nord.
Normalmente non doveva esser difficile difendere quel gi gantesco baluardo. Poiché però le condizioni erano tutt'altro che normali, scarso era anche il valore delle superiorità bizan tine che abbiamo appena visto. La città in pericolo aveva pochi soldati, cosicché i ventidue chilometri di mura rimanevano incontrollati per lunghi tratti. I valli, inoltre, non erano in ottimo stato. Ultimo guaio: nella valle del fiume Lygos, che si apriva un varco nelle mura di Tracia, il terreno presentava una depressione di trenta metri; i valli in quel punto sprofondavano anch'essi, diventando molto vulnerabili.
Giustiniani, il miglior condottiero della città, non tardò ad assumere il comando supremo delle operazioni e cercò di fare del suo meglio. Appostò le truppe più forti nella valle e distribuì il resto della guarnigione su tutto il fronte. Poi i bizantini rimasero in attesa delle locuste che dovevano abbat tersi su di loro. Mehmet aveva dichiarato guerra. Giunse alle mura della fortezza insieme alle ultime cicogne dell'Asia.

La battaglia
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II 2 aprile (1453)», scrive Sphrantzes, «arrivarono il sultano e una grande quantità di cavalieri e di fanti. A Mehmet venne eretta la tenda di fronte alla porta di San Romano (valle del Lygos), e i soldati - come sabbia in riva al mare - si disposero lungo le mura sulla terraferma... Zaganos, il pascià, parente del sultano, s'accampò sopra Galata con un gruppo di armati». L'imperatore Costantino ordinò di ancorare le navi disponi bili dietro la catena di sbarramento. «Furono queste le misure preventive prese nel porto. Ma sulla terra i nemici piazzarono il grossissimo cannone» (costruito da Urbano) «e molti altri cannoni di grandezza ragguardevole; eressero palizzate per ripararsi e da là dietro spararono con rimbombo incessante. Giorno e notte infuriò la battaglia, con scoppi e mischie senza tregua, perché il sultano sperava che prendere la città sarebbe stato facile: essendo noi in pochi e resi stanchi dai continui assalti».
Giovedì 5 aprile 1453 il sultano Maometto II mandò un ultimatum all'imperatore Costantino promettendo salva la vita a lui e ai suoi cittadini se si fosse arreso; promise anche che non vi sarebbero stati saccheggi. Ma Costantino rifiutò e Mehmet II, vedendo che non arrivava risposta, il giorno successivo iniziò il bombardamento contro le mura davanti il fiume Licino, che era il punto più debole delle mura di Costantinopoli.
Ma contrariamente a quanto pensava il Sultano, per quanto sfiancate potessero essere, le forze bizantine lottarono con la rabbia del leone braccato, facendo uso di straordinarie risorse tattiche. Ai danni subiti di giorno veniva posto rimedio di notte, e lo spostamen to di truppe all'interno era sincronizzato in maniera così perfet ta che ad ogni assalto i turchi si ritrovavano di fronte una massiccia resistenza. Emerse subito chiaramente che un colpo di mano non sarebbe bastato a far cadere Costantinopoli. Anche la tecnica giocò un brutto tiro agli assedianti. Il metallo del grande cannone, sebbene i colpi sparati fossero soltanto sette al giorno, diede di lì a poco segni di logoramen to, tanto che quando un cannoniere tenne la miccia accostata al foro d'accensione vi fu un'esplosione improvvisa che straziò quasi tutti gli astanti. «Il sultano molto se ne afflisse quando lo seppe, e ordinò di fonderne uno nuovo, più resistente. Nel frattempo nessun attacco degno di menzione fu sferrato con tro di noi», home
Fu una piccola pausa che passò anche troppo in fretta. Il 15 aprile il resto delle forze armate turche si schierò davanti alla tanto desiderata città, e i bizantini si resero conto di quanto grande fosse la loro inferiorità. Il sultano Mehmet disponeva di 420 navi (per la maggior parte piccole), 58.200 uomini (truppe regolari), più gigantesche orde di irregolari. Queste forze erano almeno dieci volte superiori a quelle greche. Eppure il sultano dovette subire alcune sconfìtte. Un attacco navale sul Corno fu rintuzzato con perdite notevoli, dal cosiddetto "fuoco greco", frecce incendiarie lanciate da macchine speciali. Un assalto notturno alle mura fu fermato dalle frecce e dalle palle degli aggrediti; un secondo tentativo d'aggressione ebbe lo stesso esito.
A proposito di quest'ultima vittoria dei bizantini, Sphrantzes scrive: « In alcuni punti le cannonate e i proiettili incendiari dei nemici avevano aperto brecce nelle mura e si stavano prosciu gando i fossati perché la fanteria potesse penetrare in città. Cominciarono a tempestarci di frecciate e ad assalirci, intanto che mettevano terra nei fossati e vi gettavano rami e altro materiale, e addirittura le loro tende. Era spaventoso a vedersi: nella ressa si uccidevano l'un l'altro. Quelli dietro gettavano a casaccio pezzi di legno e terra e colpivano quelli che già stavano nel fossato seppellendoli vivi. Quelli tra loro che erano più forti e più impazienti afferravano i più deboli e li scaraven tavano giù come fossero materiale da riempimento. Essi stessi però morivano, colpiti dai cannoni e dalle balestre dei difenso ri... I nostri si comportarono da valorosi e - sorprendentemen te - ebbero la meglio, sebbene non possedessero esperienza di guerra ».
Anche nei giorni successivi i bizantini e i loro alleati riusciro no a bloccare l'assalto dei turchi. Mehmet, spaventato dalle grosse perdite, tentò di minare le fortificazioni, e di farle saltare. Ma un austriaco che era rimasto a Costantinopoli, di nome Johannes Grant, scavò a sua volta un cunicolo, raggiun se le cariche di polvere e le rese inoffensive. « Al bravo austria co era però sfuggita una galleria sotterranea scavata dal nemi co. E in essa i turchi accesero il fuoco liquido, senza tuttavia raggiungere lo scopo».
Poi Mehmet fece ricorso a una macchina d'assedio con cui già Filippo il Macedone aveva assalito le mura di Bisanzio: la torre mobile. Con travi e tavole i soldati ne costruirono tre a parecchi piani, munite di corazze di cuoio, catapulte di vario tipo e colubrine. Con gran cigolare di ruote le accostarono alle mura di Tracia.
Dapprima i difensori si spaventarono alla vista di quei mostri, ma poi superarono anche quella difficoltà: erano so spesi nell'aria tra la sommità delle mura e la cima delle torri, ma ingaggiarono una strenua battaglia. I turchi massacrati volavano dall'alto con le tavole e le travi delle strutture distrut te.
A sera gli attaccanti si ritirarono, sperando di poter raggiun gere il muro principale il giorno dopo, attraverso le brecce ormai aperte. Indescrivibile fu però la loro delusione quando, alle prime luci dell'alba, trovarono i passaggi cancellati dai ricostruttori di Giustiniani, che nottetempo avevano accurata mente guarito le mura colpite, scavando di nuovo anche i fossati e incendiando le macchine d'assedio dei giannizzeri. L'assalto delle torri era dunque fallito. Grande dev'essere stata la disperazione di Mehmet quel 19 aprile 1453. Urlò: «Se 37.000 profeti mi avessero detto che gli infedeli avrebbero fatto quello che hanno fatto, non l'avrei mai creduto». Fonti turche riferiscono che egli fu sul punto di abbandonare l'impresa.
Il 20 aprile subì un colpo ancora più duro. Tre navi genovesi inviate dal papa e un'altra dell'imperatore, carica di grano proveniente dalla Sicilia, s'avvicinarono col vento in poppa al Corno d'Oro, sfondarono la barriera turca e fecero un'entrata trionfale nel porto di Costantinopoli con i cannoni ancora fumanti. «Il sultano digrignò i denti dalla rabbia... si morse le mani come un cane e prese a calci le pietre... Gli usciva vapore dalla bocca. Come poteva strangolare la città, attaccarla dal mare e dalla terra?».
Escogitò un piano. Con un italiano che faceva parte del suo stato maggiore concepì la più spettacolare azione individuale di quel conflitto.
II problema che si trovò ad affrontare era il seguente: per poter assalire da ogni lato la città a trapezio e tagliare contem poraneamente il legame che la collegava al Bosforo, doveva penetrare nel Corno, ma questo attacco era impossibile via mare, essendo tutto il golfo controllato dalla flotta bizantina e la ferrea catena all'imbocco un ostacolo insormontabile. Che fare? L'italiano fece presente che nella guerra contro Marco Antonio e Cleopatra anche Ottaviano aveva attraversa to l'istmo di Corinto, quando i venti contrari gli avevano impedito di circumnavigare il Peloponneso. E portò un altro esempio: i veneziani, durante una dello loro ultime campagne, avevano trascinato un'intera flotta di galere dal Po al Garda attraverso la pianura mantovana.
La situazione dei turchi di fronte a Costantinopoli non era dissimile. Perché non eseguire la stessa manovra, trasportando le navi via terra dal Bosforo al Corno e - neutralizzato l'ostaco lo della catena - rituffarle nelle acque portuali di Bisanzio? Il filare collinoso della penisola, alto 70 metri sul livello del mare, avrebbe potuto creare difficoltà all'impresa, ma non renderla impossibile.
L'idea dell'italiano affascinò Mehmet, che si affrettò a darle attuazione. Migliaia di unità ausiliarie vennero chiamate a raccolta dai villaggi circostanti. Gli ingegneri militari ricevette ro l'ordine di costruire una rotaia lignea che con l'aiuto di solidi carrelli consentisse alle navi di uscire dall'acqua e di inerpicarsi sulle colline. I lavori ebbero inizio senza indugio. Gli abitanti di Costantinopoli e del sobborgo di Calata, rimasto neutrale, videro l'insolita scena, senza però riuscire a comprenderla. Quasi tutti supposero che probabilmente il sultano stesse apportando migliorie alla strada che dal campo di Zaganos - sopra la colonia genovese - conduceva all'appro do della sua flotta sulla riva del Bosforo. Nessuno s'aspettava da lui una nuova diavoleria. L'irrompere delle navi genovesi nel Corno aveva ridato coraggio agli assediati. I bizantini erano tornati a sperare, lasciandosi prendere da una certa euforia. Ciò ingigantì lo spavento, quando al mattino del 22 aprile in cima alle colline del porto comparve una nave imbandiera ta, con i remi che battevano ritmicamente l'aria. E il terrore li inchiodò, quando la videro poi galleggiare di nuovo nelle acque del Corno d'Oro. Soltanto allora capirono le intenzioni del sultano. All'improvviso la Fiducia tornò ad abbandonarli. Prima che calasse la notte, settanta navi turche erano entrate nel porto della città imperiale.
Più tardi Stefan Zweig scriverà: « II miracolo dei miracoli: un'intera flotta aveva attraversato la montagna». Quella notte a Costantinopoli nessuno dormì. Costantino era così schiantato che meditò di capitolare. Nelle chiese si pregava ininterrottamente. Soltanto i soldati italiani si manten nero calmi e furono in grado di dare consigli. Il mattino seguente dissero infatti cosa bisognasse fare: Giacomo Coco, capitano di una nave trapezuntica, rimasto con i veneziani, doveva nottetempo attaccare la flottiglia infiltrata, sopraffarla, trasformarla in torcia con l'ausìlio di due barchini incendiari. Il piano venne accettato: l'impresa entrò nella fase prepara toria. Ma il 28 aprile, quando Coco si avvicinò ai turchi navigando sulle buie acque del Corno, essi lo accolsero con un improvviso e nutrito fuoco di artiglieria. La sua imbarcazione colò a picco, la galera che aveva il compito di coprire l'assalto cominciò a bruciare, e l'equipaggio si mise in salvo raggiun gendo a nuoto la riva. L'attacco notturno fallì, probabilmente perché i genovesi di Galata avevano tradito, rivelando il piano ai turchi.
Tale sconfìtta segnò la fine del primo tempo nella battaglia per la conquista di Costantinopoli. Il sultano uscì dalla serie di guai e si ripromise di ottenere un successo al giorno. Ai primi di maggio i viveri cominciarono a scarseggiare e a molti difensori saltarono i nervi. I veneziani litigarono con i genovesi e i greci con tutti i latini. Poi, quando un brigantino che aveva sfondato le linee nemiche per vedere se fosse davvero in arrivo la flotta ausiliaria veneziana comunicò che nessuna nave cristiana era in vista, la disciplina si sfaldò. In quella situazione i senatori di Costantinopoli ritennero giusto proporre all'imperatore di fuggire. Ma Costantino rifiu tò. Secondo quanto riferisce una notizia slava, pare abbia detto: «So che avrei dei vantaggi se abbandonassi la città, ma via non posso andare... Non vi lascerò mai. Ho deciso di morire con voi!». Poi il sovrano girò la testa dall'altra parte, perché gli occhi gli si erano riempiti di lacrime. Anche i patriarchi piangevano, e così tacevano tutti i presenti. Fuori, senza tregua, tuonavano i cannoni turchi.
Il 6 maggio Urbano aveva portato a termine la seconda grande bocca di fuoco, e i colpi ricominciarono. Il 19 dello stesso mese vi fu un nuovo attacco globale per mare e per terra. Come sempre, esso si concentrò sul punto debole: il tratto di fortificazione nella valle del Lygos. Ogni boato del gigantesco pezzo di artiglieria faceva partire una palla di 600 chili e le torri vicine tremavano. Per i bizantini era sempre più diffìcile riparare i danni subiti dai valli. Ma anche i nervi dei turchi erano ormai logorati. Si diffuse una voce che si stava avvicinando una flotta del papa, e Chalil-Pascià, il gran visir, in un consiglio di guerra caldeggiò la necessità di rompere l'assedio. L'Europa, questa la sua tesi, non avrebbe mai accettato senza vendicarsi la caduta della sua più potente fortezza; la conquista di Costantinopoli avrebbe provocato infinite difficoltà.
Ma Zaganos e Ak Shemseddin, il massimo consigliere spiri tuale di Mehmet, non nascosero il loro disaccordo. Il consiglie re-teologo si richiamò alla profezia di Maometto, che parlava della conquista della città; l'altro, il generale, sottolineò la manifesta debolezza dei difensori. Chalil fu messo in minoranza. Tuttavia lo scopo di quello scambio d'opinioni non sembra essere stata l'improvvisa evocazione di motivi religiosi, bensì unicamente il fatto che Mehmet - cocciuto e solitario - aveva bisogno dell'incoraggiamento dei generali e dei collaboratori. Era chiaro che anche la sua fiducia vacillava. Il consiglio di guerra di quel 29 maggio (giorno successivo al lunedì di pentecoste) decise di sferrare un nuovo attacco in grande stile, con l'impiego di tutte le forze. Il sultano ordinò la sospensione dell'attacco per tre giorni al fine di preparare l'assalto finale. I soldati cristiani del sultano fecero volare oltre le mura lettere minatorie: i difensori dovevano prepararsi al più duro di tutti gli assalti, forse l'ultimo. Gli abitanti della metropoli si persero di coraggio.
Soltanto Giustiniani, anima e corpo della città assediata, rimase lucido e capace d'agire. Costrinse il generale Lukas Notaras, che non lo poteva soffrire, a potenziare le bocche da fuoco delle navi e le piazzò alla porta di San Romano (oggi Topkapisi = porta del cannone, in onore del colossale pezzo d'artiglieria di Urbano), nella parte meridionale della valle del Lygos. Poi ordinò ai sacerdoti di esporre le icone nei punti più minacciati del vallo, con monaci che cantassero in coro per dare coraggio ai combattenti. Le misure raggiunsero infatti tale scopo. Rinacque la speranza. Ma Giustiniani non riuscì a convincere l'imperatore, che parve presentire l'imminente crollo e si preparò a morire. Partecipò alla grande processione pentecostale da Palazzo Blachernai a Santa Sofia, poi parlò agli ufficiali: « So che l'ora è giunta, che il nemico della nostra fede ci minaccia con ogni mezzo... Affido a voi, al vostro valore, questa splendida e celebre città, patria nostra, regina d'ogni altra».
Abbracciò tutti ad uno ad uno, chiedendo scusa per eventua li sgarbi da parte sua.
I bizantini , saputa la notizia, furono presi dalla disperazione e la sera del lunedì 30 maggio fecero celebrare dal cardinale Isidoro l'ultima messa a Santa Sofia . Alla celebrazione partecipò tutta la cittadinanza di Costantinopoli. Giovanni - ricordano i suoi biografi - sedeva vicino a Costantino. L'imperatore si confessò e ricevette la santa comunione. Sphrantzes scrive: «II palazzo risuonò di pianti e voci lamentose. Chi avesse visto e udito non avrebbe potuto trattenere le lacrime». Quando Isidoro finì il suo sermone Costantino si alzò in piedi e si diresse lentamente verso l'altare per tenere un breve discorso. Cercando di rincuorare il suo popolo, disse che con l'aiuto di Dio e della Santa Vergine Costantinopoli avrebbe potuto salvarsi dall'attacco ottomano; poi proseguì ringraziando tutta la popolazione, il clero e infine i Latini che erano venuti ad aiutare Costantinopoli. Un particolare ringraziamento lo rivolse a Giovanni Longo Giustiniani, dicendo che non avrebbe mai pensato che un genovese si sarebbe mai battuto con tanto coraggio e lealtà verso Costantinopoli. Costantino riuscì per un giorno a riunire le due chiese, cattolica e ortodossa, raccolte nella stessa chiesa e con la stessa disposizione d'animo.
I turchi si prepararono a quel martedì dopo Pentecoste non meno seriamente dei bizantini. Mehmet ordinò ai soldati di fare una giornata di digiuno (il 30 maggio), con abluzioni e preghiere ad Allah. A sera chiamò a raccolta le truppe scelte: «Cari ragazzi, in nome di Dio e di Maometto suo profeta, e anche in nome di me medesimo in quanto servo di Dio, vi esorto a compiere domani gesta che facciano onore ai nostri antenati... Quelli tra voi che cadranno, andranno in paradiso a mangiare e bere col profeta, a riposare con ragazzi e donne sui verdi prati fioriti e profumati... Per tre giorni la città resterà a vostra disposizione e potrete saccheggiarla. Quel che riuscite a prendere, nessuno ve lo può toccare, oro o argento, vesti o prigionieri (uomini o donne)». Concluse l'appello col credo musulmano: «Dio è Dio e Maometto è il suo profeta!». La notte che precedette l'assalto fu dominata dalla tranquil lità più assoluta. Verso l'alba, l'imperatore - accompagnato da Sphrantzes - ispezionò ancora le posizioni, poi cavalcò in direzione della città, lasciando lo scriba di corte nella torre che oggi porta il suo nome.
Le prime luci dell'alba colsero il campo turco già in piena attività; le sagome delle grandi navi da guerra apparivano ancora avvolte nella bruma, simili a spettri. Le ruote delle enormi macchine d'assedio cominciarono a cigolare. Di lì a poco «al secondo canto del gallo», scrive Sphrantzes, tutt'intorno alla città tuonarono all'improvviso i cannoni e la prima ondata di turchi avanzò sul terreno antistante le mura di Tracia. I tamburi rullavano, i corni suonavano. I reggimenti sventolavano le bandiere. Gli Allah-il-Allah urlati dagli assalito ri si mescolarono ai cori dei monaci bizantini.
Mehmet voleva fiaccare gli assediati. Mandò avanti per primi i meno fidati, i "bashibazuki", soldati provenienti da diversi popoli: ungheresi, russi, italiani e tedeschi, orde selvagge segui te dalle più compatte e disciplinate divisioni anatoliche. Ma sia gli uni che le altre vennero respinti.
Dopo la messa, Giovanni Giustiniani Longo si diresse verso la porta di San Romano, quella che il giorno dopo avrebbe dovuto difendere, e siccome la porta stessa e le sue vicine mura erano piene di brecce, ordinò ai suoi uomini di ripararle. Le mura furono riparate e rinforzate in breve tempo con l'ausilio di legna, cocci di mattoni, arbusti paglia e ogni cosa che potesse risultare utile alla bisogna. Fece anche costruire un fossato che corresse dietro le mura in modo tale da potersi trincerare insieme ai suoi uomini. Alle prime ore di martedì 31 maggio 1453 ci fu l'ultimo attacco ottomano: la battaglia durò circa sei ore; Giovanni e suoi pochi soldati superstiti erano alla difesa della porta di San Romano; i soldati ottomani non riuscivano a penetrare, continuamente respinti. Giovanni e i suoi uomini difesero Costantinopoli con ferocia e coraggio. Durante la battaglia si verificò un alterco tra lo stesso Giovanni e il Mega Dux delle mura, Luca Notara, per il fatto che quest'ultimo non riusciva a procurare la promessa polvere da sparo per l'uso dei cannoni; Giovanni estrasse il coltello e lo puntò minacciosamente verso Luca Notara accusandolo di essere un traditore. In quella terribile notte Giovanni Giustiniani Longo si adoperò senza posa a far chiudere le brecce nelle mura. Vicino alla Porta di San Romano, dove la muraglia era completamente in rovina, egli innalzò per mezzi di fasci di arbusti un nuovo vallo, dietro al quale si trincerò in un fosso. Giustiniani era una vera torre nella battaglia e perciò un bersaglio costante dell'astio dei suoi avversari. La fama del suo coraggio si dice essere arrivata fino al sultano, il quale cercò invano di corromperlo con oro. Ma di fronte alla pietosa condizione delle mura, che crollavano da tutte le parti, tutta la prudenza e la risolutezza del genovese e dei suoi aiutanti fu vana.
Proprio mentre il coraggio stava già tornando tra le file dei cristiani, che già cominciavano a sperare che l'amaro calice s'allontanasse da loro, quando si diffuse la spaventosa notizia: Giustiniani era stato ferito. Poco dopo corse voce che l'eroe genovese avesse abbandonato la sua posizione e, con i mercenari, fosse fuggito a Galata. Disgraziatamente questo corrispondeva a verità. Quando vide scorrere il suo sangue Giustiniani perse di colpo tutto il coraggio. Lo splendido cavaliere rinascimentale, il generoso avventuriero, parve rendersi conto per la prima volta di essere anch'egli un mortale, e tale scoperta lo annien tò. Si fece portar via su una lettiga, seguito da quasi tutti gli italiani. I greci rimasero quasi soli ad affrontare il nemico. L'Europa li aveva definitivamente piantati in asso. Il sultano capì che era il momento di agire.
Gridando: « La città è nostra! », incitò i giannizzeri a sferrare l'attacco. Più fitta che mai fu la grandinata di pietre e di palle che cadde sui difensori. E all'improvviso uno di essi scoprì che vicino alla Kerkoporta, nei pressi del palazzo di Costantino Porfirogenito, spuntavano dalle mura gli stendardi turchi. «Healo he polis!» (la città è presa!) urlò sconvolto. Era vero. Un gruppo di 50 giannizzeri si accorse che accanto alla Kerkoporta c'era un ingresso secondario aperto e se ne servì per penetrare nella fortezza: gli assediati che avevano compiuto una sortita si erano dimenticati di chiuderla. (Così almeno secondo la leggenda bizantina. Ma in realtà dev'essere stato il cannone di Urbano a sfondare la porta nella valle del Lygos.).
La situazione precipitò. Il panico attanagliò i difensori. I pochi genovesi rimasti uscirono allo scoperto e si arresero ai turchi, che si arrampicavano su tutte le mura. Costantino mise in atto un vano tentativo di porre rimedio allo sfacelo, facendo appello all'unità, ma gli uomini, disperati, non ubbidirono. Egli dovette rassegnarsi: la città era perduta. Si strappò di dosso il mantello di porpora, si lanciò nel trambusto e nessuno dei suoi lo vide più. Nessuno sa che fine abbia fatto. Si dice che nel mucchio di cadaveri sia stato riconosciuto anche il suo, identificabile dalle scarpe di porpora. La leggen da, più pietosa, racconta del misterioso spalancarsi di una porta, mai esistita prima nel muro di Hagia Sophia, che lo inghiottì per sempre.
Sphrantzes scrisse che, tre giorni dopo i preparativi d'attacco di Mehmet, «i nemici s'impossessarono della città; erano le 8,30 del 29 maggio 1453... O Cristo re, quant'è insondabile il tuo saggio tribunale!».
home I Turchi arrivarono a Santa Sofia mentre era in corso la messa del mattino, era gremita di gente, e a Santa Sofia ce ne sta di gente, i piu' deboli e le donne che cercavano rifugio, massacrarono la plebaglia e presero possesso dei nobili e benestanti merce da riscatto, i Sacerdoti vennero uccisi mentre ancora celebravano il rito, l'icona sacra della vergine venne fatta a pezzi.
Secondo una leggenda, quando i turchi fecero irruzione a Santa Sofia, una parete si aprì davanti al sacerdote che vi stava officiando una messa, questi vi entrò con il sacro calice mentre il muro si richiudeva alle sue spalle; sarebbe ricomparso per terminare la messa quando Costantinopoli fosse tornata cristiana. Maometto II invece quando entrò a cavallo in Santa Sofia ne rimase incantato (e questa non è una leggenda!), dallo storico Tursun Bey viene così descritta: "La cupola gareggia con le nove sfere del cielo [..], le pareti sono ricoperte, in luogo di intonaco, da frammenti di vetro e oro, cosicchè nessuno possa scoprirne le connessure; il pavimento è rivestito di marmi colorati tanto che chi guarda dalla terra al cielo ha l'impressione di vedere il firmamento, e chi guarda dal cielo alla terra ha l'impressione di vedere l'oceano ondoso [..] Nella cupola un abile artista ha raffigurato un uomo che da qualsiasi parte lo si osservasse sembrava guardare l'osservatore". Quest'ultimo era il grande mosaico del "Cristo Pantocràtor", simboleggiante il potere di Bisanzio, che però in osservanza della legge islamica sulle immagini, venne pesantemente intonacato insieme agli altri mosaici, e la chiesa di Santa Sofia fu trasformata in una moschea.
Costantinopoli passò tre giornate terribili. I turchi saccheg giarono, assassinarono, estorsero, violentarono e torturarono con una crudeltà senza precedenti. I tesori d'arte ancora esi stenti vennero distrutti. Gli invasori appiccarono il fuoco alle case, demolirono gli altari e ne strapparono con cieca rabbia le sacre immagini. Rubarono tutto ciò che non era saldamente infìsso nella pietra.
Altre cronache riferiscono che i Turchi erano cosi' tanti, e pochi i superstiti che dopo solo un giorno di violenze e saccheggio si decise di smetterla, contavvenendo alla regola mussulmana dei tre giorni, non fatevi ingannare fu un bagno di sangue nel vero senso del termine, l'uso turco mussulmano era quello di impalare i nemici, tutto quello che si faceva di meno era da loro considerato un atto di clemenza, quindi se ti staccavano la testa dovevi anche ringraziarli!
Mehmet non prese parte al saccheggio. Ricevette nella sua tenda il rappresentante del podestà di Calata e negoziò con lui lo status futuro della colonia genovese. Fece stendere rapporti e provvide a far giungere in ogni angolo dell'impero la notizia della sua vittoria.
Entrò in Costantinopoli soltanto il quarto giorno dopo la conquista, ordinò che il saccheggio cessasse, e prese possesso della città. Quindi montò a cavallo e salì sulla collina del castello, per ammirare la sua nuova capitale. Era al vertice del mondo? Imperatore dei romani? Non sappiamo cosa abbia pensato. Certo è che non era più quello di prima, di quando era cominciato l'assedio. Il prezzo di ogni vittoria è la rassegnazione.
Anche Mehmet lo ha pagato.
Costantinopoli era conquistata e Maometto II poteva vantare una delle più clamorose vittorie della storia. L'impero romano d'Oriente aveva cessato di esistere. Ecco come Franz Babinger, nel libro "Maometto il conquistatore e il suo tempo", ci narra le ultime ore prima dell'assedio finale a Costantinopoli:

"...Dal 26 maggio in poi si vedevano fino a notte fonda risplendere numerosi fuochi nell'accampamento turco, specialmente presso la Porta di San Romano, dove si trovava il sultano. L'intero esercito fremeva nell'ebbrezza gioiosa della promessa prossima conquista...Le grida e il giubilo del nemico erano così grandi che gli assediati credettero che il cielo stesse per aprirsi."


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Maometto II sotto le mura di Costantinopoli nel 1453. Gustave Doré (1832-1883). Incisione. Die Kreuzzüge und die Kultur ihrer Zeit. PMA:J99.1897. La frenesia drammatica dell'immagine di Doré con il cavallo impennato, l'impetuoso frangersi dei flutti e le navi assediate, esprime le profonde implicazioni spirituali e storiche della conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II nel 1453.

Cronologia degli eventi

Il bilancio

Non è impresa facile definire con esattezza le perdite subite dai due schieramenti, vista la discrepanza di dati fornita dalle fonti a noi giunte. Le cifre più probabili sono di circa 4.000 cittadini uccisi e ben 25.000 deportati in schiavitù. Certo è che la città dopo il saccheggio era rimasta quasi del tutto disabitata, visto anche il fatto che Maometto vi fece immigrare molte migliaia di turchi. Certo è anche il fatto che pochissimi greci riuscirono a scappare: le 10 navi bizantine ancorate al porto erano state sovraccaricate, diventando così facile preda per la flotta turca; mentre le 16 navi "occidentali", quasi del tutto vuote, poterono agevolmente rifugiarsi nelle isole genovesi e veneziane dell'Egeo. Non si hanno dati certi sulle perdite ottomane, anche se si può immaginare quanto caro fosse stato il prezzo per la conquista della città.
La caduta di Costantinopoli non ebbe tuttavia delle conseguenze così rilevanti sull'andamento della politica europea, se non in Italia dove venne firmata la pace (trattato di Lodi, 1454) tra gli statarelli italiani pronti ad essere uniti per fronteggiare la possibile invasione dei turchi. Per quanto riguarda tutti gli altri grandi stati d'Europa le guerre e i conflitti tra di loro erano destinati ad aggravarsi, tanto che il futuro papa, Pio II (all'epoca conosciuto come Enea Silvio Piccolomini) scrisse: "Ogni città ha un proprio re; ci sono tanti principi quante case. Come si possono persuadere i capi cristiani a prendere le armi?>>. Ma nonstante il saccheggio, la distruzione della capitale e la grande organizzazione ottomana, lo spirito dell'Impero d'Oriente rimase vivo, influenzando tutta la politica dei paesi balcanici, mentre la cristianità greco-ortodossa mantenne nel tempo la sua sacralità preservando parte dei popoli slavi dall'espansionismo dell'Islam, e favorendo ad est, molto lontano, la nascita di una grandissima potenza: Ivan III di Russia, infatti, sposo della figlia di Tommaso Paleologo, a sua volta nipote dell'ultimo imperatore di Bisanzio, avrebbe portato l'aquila bicipite bizantina su Mosca, la "Terza Roma", assegnando alla Russia un ruolo-guida che un tempo era stato di Costantinopoli".

Il Cronachista Leonardo (Giustiniani) da Chio, testimone oculare agli eventi riporta i momenti della conquista di Costantinopoli e delle vicende di Giovanni Longo, nella sua Epistula de urbis Costantinopoleos captivitate

Alcune letture critiche

Rino CAMMILLERI Bernardo II e la caduta di Costantinopoli tratto da I Santi militari, Piemme, Casale Monferrato 1992, p. 184-186.

Era figlio del margravio del Baden Giacomo V (margravio era il titolo che i tedeschi davano ad alcuni prìncipi e corrisponde all'incirca a marchese). Nacque verso il 1428. Presto si fidanzò con Maddalena, figlia del re Carlo VII di Francia (quello consacrato da Giovanna d'Arco) ma il matrimonio non fu poi concluso. Generale dell'esercito, combatté per l'imperatore Federico III. Nel 1453 Costantinopoli cadde in mano turca. Maometto II aveva cinto d'assedio la città, dopo aver impiegato gli anni precedenti a conquistare tutto il territorio dell'Impero Bizantino. Alle richieste d'aiuto dell'imperatore di Bisanzio l'Europa aveva fatto spallucce. Venezia aveva votato per gli aiuti ben due volte, ma entrambe le volte non se ne era fatto nulla: i suoi interessi commerciali erano più importanti. Solo il papa aveva fatto il possibile, armando a sue spese dieci navi da guerra. Purtroppo commise l'errore di affidarne il comando al re spagnolo di Napoli, che le aveva usate per scopi suoi. Poco alla volta i topi abbandonarono la nave bizantina e non pochi occidentali se la squagliarono prima del peggio. Solo il veneziano Gabriele Trevisan giurò con i suoi di restare fino all'ultimo. Ma un altro veneziano si comportò diversamente, suggerendo al sultano come penetrare con le sue navi nel porto della città. Né fu l'unico: l'ungherese Urban, rinomato fonditore di cannoni, aveva offerto i suoi servigi all'imperatore di Bisanzio, ma ormai le casse di Costantinopoli erano vuote. Così il rinnegato passò ai Turchi e fuse per loro il cannone più grande del mondo, arma che si rivelò determinante nell'assedio. All'ultimo assalto anche l'ammiraglio Giustiniani se la svignò su una galera genovese. Così Costantinopoli cadde e solo allora i cristiani parvero scuotersi dal torpore che li aveva paralizzati. L'imperatore Federico III inviò il nostro margravio, nel frattempo succeduto al padre, in missione diplomatica presso le corti d'Europa per cercare di organizzare una Crociata. Bernardo lasciò la reggenza del Baden al fratello Carlo e partì. Mentre si recava a Roma si ammalò gravemente e morì in Piemonte, a Moncalieri, a trent'anni, il 15 luglio 1458. Fu sepolto nella chiesa di S. Maria della Scala. Sulla sua tomba ben presto proliferarono i miracoli e ancora oggi il 15 luglio frotte di pellegrini tedeschi si recano a Moncalieri a venerarne il corpo.

Arrigo PETACCO Le mire espansionistiche di Mehmed II tratto da La croce e la mezzaluna. Lepanto 7 ottobre 1571: quando la Cristianità respinse l'Islam, Mondadori, Milano 2005, p. 7-10.

Murad II morì nel 1451 e gli successe il figlio Mehmed II. Il nuovo sultano aveva appena diciannove anni e l'impero che aveva ereditato dal padre era già potente e temuto: dominava infatti buona parte della penisola balcanica oltre una grossa fetta dell'Asia Minore. Soltanto Costantinopoli era ancora indipendente, ma come può esserlo un castello assediato. Murad l'aveva rispettata, forse perché intimorito più dal suo leggendario prestigio che dalla sua potenza militare. D'altronde, alla grandezza di Roma Costantinopoli assommava la magia della sua storia: sulla "regina delle città" avevano regnato novantadue imperatori e nessun altro luogo del mondo, tranne Roma, poteva vantare una storia tanto lunga ed ininterrotta. Mehmed era invece di tutt'altro avviso e voleva conquistarla per realizzare l'ambizioso disegno di ricostituire l'antico Impero romano, il cui mito era giunto anche fra le aride montagne dell'Anatolia. Mehmed era un uomo del suo tempo e la guerra era il suo sport preferito. Continuò le campagne iniziate dal genitore e mise a segno una serie di successi che ne ingigantirono l'immagine. Per le sue fulminanti vitorie, i soldati lo avevano ribattezzato Al Fàtih, il conquistatore, e l'eco delle sue imprese non aveva tardato a giungere anche nell'Occidente cristiano. Malgrado la giovane età, Mehmed era rispettato e temuto. Possedeva una forte personalità e un'ambizione illimitata: "Un solo Dio in cielo e un solo re sulla terra" era il suo motto, e lui naturalmente voleva essere quel "re". I suoi biografi sottolineano la sua intelligenza, la sua naturale crudeltà, nonché l'immancabile fanatismo religioso che lo animava: lui stesso era convinto di essere la "Spada dell'Islam". Ma non trascurano di metterne in rilievo anche la sorprendente cultura umanistica, l'interesse per il mondo greco e latino e l'ammirazione per i grandi condottieri dell'antichità. Avido lettore di testi classici, il giovane sultano, che aveva scelto quali modelli Alessandro Magno e Giulio Cesare, quando conquistò la Grecia (destinata a rimanere per tre secoli e mezzo sotto il dominio turco) si mostrò meno feroce del solito e manifestò una sorta di venerazione per Atene, da lui definita la "città dei saggi". Ne onorò le antiche vestigia, le tradizioni e accolse nella sua corte artisti e filosofi ellenici. Ma la conquista della Grecia non aveva appagato le ambizioni di Al Fàtih: egli guardava molto più lontano. Si raccontava che già all'età di quindici anni, al padre che gli suggeriva di rispettare Costantinopoli, avesse risposto: "Appena tu sarai spirato io farò la guerra contro l'imperatore romano perché, se lo sconfiggerò, diventerò padrone di tutto il mondo". Il mito di Roma affascinava Mehmed fin dalla più tenera età. Nei suoi sogni di conquista non figurava soltanto la "seconda Roma", ossia quella bizantina, ma la "prima", quella vera, quella latina: la più antica e più bramata dai guerrieri musulmani incoraggiati dalla profezia secondo cui Roma era la "mela rossa" che un giorno il sultano avrebbe staccato dal'albero. Non a caso il nome dell'agognata "mela rossa" era evocato anche dal grido di guerra dell'esercito otomano, che suonava all'incirca così: "Làilahà, Allah! Roma! Roma!". Per nobilitare il proprio lignaggio e per dare una sorta di legittimità alle sue mire espansionistiche, Mehmed II aveva accreditato e perfezionato una teoria piuttosto bizzarra che già era presente nell'immaginario islamico e che ora cercheremo di riassumere. Poiché, secondo la leggenda, i turchi discendevano da un mitico re Teucro - e "teucri" per qualche tempo i turchi erano stati chiamati (teucro significa infatti troiano) - il fantasioso sultano ne aveva ricavato la prova, si fa per dire, che il suo popolo discendeva direttamente dai troiani e che Priamo era il capostipite della sua dinastia. [...] Poiché, come "testimoniava" Virgilio nell'Eneide, Roma era stata fondata dalla progenie di Enea, ed Enea era un profugo troiano, di conseguenza il "vendicatore di Troia" poteva vantare dei diritti anche sulla città dei Cesari. Questa ricostruzione impapocchiata dell'albero genealogico del popolo turco oggi potrà far sorridere, ma all'epoca fu presa molto sul serio dai sudditi del sultano e non soltanto da loro. Il papa Niccolò V, per esempio, molto addolorato per la caduta di Costantinopoli, non sorrise affatto quando gli giunse una missiva risentita di Mehmed nella quale il sultano esprimeva la propria meraviglia per il fatto che i romani odiassero tanto i turchi visto che tutto sommato erano... "cugini".

Il Foglio, 23 settembre 2006, pp. VI e VII La conquista di Costantinopoli. Cronaca dell’ultimo giorno, ora per ora. “I tuoi giovani li divorò il fuoco e nessuno prese il lutto per le tue vergini”. “Costantinopoli cadde sotto il regno dell’imperatore Costantino, settimo dei Paleologi, il 29 maggio secondo il calendario bizantino nell’anno 6961 dall’inizio del mondo e 1124 dalla fondazione e colonizzazione della Città” (Critobulo di Imbro, “Sulle imprese compiute da Mehmed II negli anni 1451-1467”). “… l’imperiale e nobilissima città di Costantinopoli è perduta... E’ accaduto il giorno 29 maggio or ora trascorso, giorno quanto mai infausto” (Missiva spedita da Candia di Paolo Dotti, 11 giugno 1453). “Tutto questo avvenne nell’anno dell’Egira, cioè nell’857” (Qyvâmî, “Racconto delle conquiste del sultano Mehmed”). di Stefano di Michele

A voler credere a certi segnali, era chiaro che la faccenda buttava malissimo. Racconta John Julius Norwich in “Bisanzio” (Mondadori): “Intanto erano comparsi i prodigi. Il 22 maggio ci fu un’eclissi di luna: un paio di giorni dopo l’icona più venerata della Vergine, portata in processione perché intercedesse per la città, cadde a terra. Qualche minuto dopo scoppiò un violento temporale che costrinse i fedeli a rientrare nello loro case. Il giorno successivo Costantinopoli si svegliò sotto una fitta nebbia, un fenomeno inaudito alla fine di maggio, e alla sera la cupola di Santa Sofia fu avvolta da un arcano bagliore rossastro, che dalla base salì lentamente fino alla cima e quindi si dissolse. Lo notarono anche i turchi da Galata e lo stesso Mehemet ne fu molto turbato e si rassicurò soltanto dopo che i suoi astrologi lo ebbero interpretato come il segno che la Chiesa sarebbe ben presto stata illuminata dalla vera fede. I bizantini non ebbero dubbi sul suo significato: lo Spirito divino aveva abbandonato la loro città”. Costantinopoli sprofondava. Tra poche ore il sultano turco entrerà in Santa Sofia, che secondo i cronisti “ha un perimetro grande come il circuito di una corsa e quattrocentosessantatre porte d’onore e 6.000.600 e 66 colonne che la reggono ed è stata costruita in nome delle piaghe di nostro Signore”. “Un prodigio del paradiso”, la definiscono Tursun Beg e Ibn Kemâl, storici turchi dell’epoca. “Se desideri contemplare il paradiso, visita l’Aya Sofya. L’Aya Sofya è il più alto cerchio del Paradiso”. Raccontano ammirati nella “Storia del signore della conquista” : “E’ un edificio solido, una costruzione poderosa, al punto che, per salire sulla cima, che assomiglia al cielo, è necessario essere immuni dalle vertigini. Nulla di simile esiste al mondo, bisogna riconoscere che nulla di simile fu costruito sulla terra”. Sotto quella cupola, “che pretende di uguagliare la cupola dei nove cieli” - ora passeggia Mehmet (Maometto) II il Conquistatore. Con un gesto della mano ferma un soldato che sta devastando il pavimento di marmo a colpi d’ascia, con un secondo gesto invita l’imam più anziano a salire sul pulpito, da dove pronuncia il nome di Allah, “clemente e misericordioso”. Dal libro di Norwich: “Il sultano chinò il capo avvolto nel turbante fino a sfiorare il pavimento in segno di preghiera e di ringraziamento. Santa Sofia era diventata una moschea”. E’ in questo preciso istante che davvero Costantinopoli, la nuova Roma, smette di esistere. Ma mancano ancora alcune ore a tutto questo, le ore più tragiche della storia millenaria della città. Da quasi cinquanta giorni Mehmet bombarda le mura teodosiane, che per secoli l’avevano difesa. “All’assedio c’erano parecchie grosse bombarde e un gran numero di colubrine e altri strumenti per il lancio di proiettili”, scrisse nelle sue memorie Jacopo Tedaldi, mercante fiorentino che partecipò alla difesa della città. Intanto dentro Santa Sofia, quasi al buio, “tutte le candele, tranne quelle perenni, si spensero”, l’ultimo imperatore bizantino, Costantino XI Paleologo, prega. Non sono arrivate le navi veneziane, non si è mossa la cristianità. La città aspetta l’inevitabile. Costantino torna nel palazzo delle Blacherne, saluta i familiari. Percorre per l’ultima volta a cavallo il perimetro delle mura. Sta per morire. Di sicuro in battaglia. Ma nessuno saprà mai come, né dove sia finito il suo corpo. Ha lasciato scritto Giorgio Sphrantzès, che fu suo “gran logothetes”, più o meno il ministro delle finanze: “La vita di lui, imperatore e martire, di buona memoria, durò in tutto quarantanove anni, tre mesi e venti giorni, di cui quattro anni, quattro mesi e ventiquattro giorni come imperatore, ottavo nella successione della casa del Paleologi”. L’inizio della fine di Costantinopoli prende corpo all’una e mezza di notte, tra il 28 e il 29 maggio, quando il sultano dà il segnale dell’attacco finale. “La stella di Lucifero - scrisse l’umanista Ubertino Pusculo - impallidendo portava con sé il sorgere dell’aurora e per la città il suo ultimo giorno, la sua caduta”. Dall’accampamento turco urla, squilli di tromba, rullio di tamburi. Oltre le mura, suonano tutte le campane dell’antica Bisanzio. E’ l’inizio della battaglia. Ecco ciò che il cardinale Isidoro di Kiev vede con i suoi occhi e racconta in una lettera a Papa Nicolò V qualche settimana dopo: “Al termine della battaglia durata tutta la notte, quando le truppe turche erano ormai esauste, essendo riuscite a penetrare verso l’alba attraverso una breccia delle mura, la città di Costantinopoli, un tempo felice capitale di tutte le città, ora invece quanto mai infelice e degna di pietà, fu presa: era il giorno 29 maggio. La sua conquista supera di gran lunga tutte le conquiste di città avvenute dall’inizio del nostro secolo: quella di Gerusalemme da parte del re Nabucodonosor fu una piccola e povera cosa in confronto a questa, così grande e così grave”. E il racconto di Nicolò Barbaro, medico veneziano imbarcato su una galera della Serenissima: “Or i nostri cristiani avea una gran paura, fexe sonar el serenissimo imperador campana martelo per tutta la zitade, e cusì a le poste de le mure cridando ognomo: ‘Mixericordia eterno Dio’; cusì cridava homeni come done, e masima le muneghe e donzele; iera tanti i pianti che l’avaria fato pietà ad ogni crudo Zudeo”. E c’è scritto nel “Racconto di Costantinopoli” di Nestore Iskinder: “I cadaveri dei soldati di ambedue gli eserciti cadevano a mucchi dai bastioni e il loro sangue scorreva a fiumi lungo le mura ed i fossati si riempirono interamente di cadaveri, così che i turchi potevano passare su di essi, come se fossero delle scale, e combattere; per loro i morti erano come un ponte e una scala per penetrare nella città”. Infine, da una porticina penetrano i primi gruppi di assalitori - forse irregolari, non i temuti giannizzeri - appare una bandiera turca su un torrione a nord. La città cede. E’ l’inizio del suo giorno più duro e più lungo. Scrittori e testimoni di entrambi i fronti hanno lasciato testimonianza di quelle ore. Per alcuni di tremenda sconfitta, per altri di esaltante vittoria. Ma sempre testimonianze di un saccheggio sono. E un saccheggio è un saccheggio. Cioè, crudele sempre. Ecco come, per Isidoro di Kiev cardinale Ruteno, in una missiva “al reverendissimo signor Bessarione, vescovo di Tusculo cardinale Niceno, legato papale a Bologna”, morì Costantinopoli: “Tutte le vie, le strade e i vicoli erano pieni di sangue e di umore sanguigno che colava dai cadaveri degli uccisi e fatti a pezzi. Dalle case venivano tratte fuori le donne, nobili e libere, legate fra loro con una fune al collo, la serva assieme alla padrona e a piedi nudi, per lo più, e così pure i figli, rapiti con le loro sorelle, separati dai loro padri e dalle loro madri, erano trascinati via da ogni parte. Avresti potuto poi vedere - o sole, o terra! - schiavi e servi turchi d’infimo grado portar fuori e spartirsi fanciulle giovanissime e nobilissime, laiche e religiose, e trascinarle fuori dalla città, non come buoi o pecore o altri animali domestici e mansueti, ma come se fossero un gregge indomabile di fiere spaventevoli, selvagge e crudeli, circondate tutt’attorno da spade, sicari, guardie e assassini… ”. E poi, là dove sta per mettere piede il sultano: “Appena fu loro possibile buttarono giù e fecero a pezzi nella chiesa che si chiamava di Santa Sofia e che ora è una moschea turca, tutte le statue, tutte le icone e le immagini di Cristo, dei santi e delle sante, compiendovi ogni sorta di nefandezza. Saliti come invasati sul ripiano dell’ambone, sulle are e sugli altari, si facevano beffe, esultando, della nostra fede e dei riti cristiani e cantavano inni e lodi a Maometto. Abbattute le porte del santuario, ghermivano tutte le cose sacre e le sante reliquie e le gettavano via come cose spregevoli e abbiette. Preferisco passare sotto silenzio ciò che han fatto nei calici, nei vasi consacrati, sui drappi. I paramenti intessuti d’oro con le immagini di Cristo e i santi li usavano come giacigli in parte per i cani, in parte per i cavalli. Calpestano coi piedi gli Evangeli ed i libri delle chiese, abbattevano monumenti di marmo lucido e splendente, tutto facevano a pezzi…”. Lo stesso cardinale rischiò grosso. Nello scritto di un certo Enrico di Soemmern (forse un addetto alla cancelleria papale) si racconta: “Il cardinale Ruteno, greco di nascita, mandato lo scorso anno dal pontefice a Costantinopoli per indurre i greci a riconoscere anch’essi il primato della Chiesa di Roma e, fin dove è possibile, il suo potere di giurisdizione su tutte le Chiese del mondo (cosa che egli fece, ed è atteso a Roma tra otto giorni) riuscì a salvarsi. Quando la città cadde in mano a Mehmed, egli si era recato a Santa Sofia credendo che lì vi fossero degli armati in grado di resistere ai turchi. Non avendovi trovato nessuno in armi e vedendo che tutti fuggivano, il buon padre volle andare incontro ai turchi per versare il sangue per la fede. Poi, costretto da alcuni suoi servitori, si rifugiò nella chiesa, dove fu catturato dai turchi e rimase poi per tre giorni in incognito nel grande esercito dei turchi. Lo salvava il fatto che correva voce - e ci credeva anche l’imperatore dei turchi - che fosse stato ucciso”. Insomma, in un modo o nell’altro, Isidoro di Kiev se la cavò. In seguito racconterà: “Ho visto io stesso, con i miei occhi, le loro azioni ed i loro misfatti, e anch’io, assieme a tutti gli altri costantinopoliani, sono passato attraverso le stesse sofferenze, anche se Iddio mi ha strappato dalle mani degli empi, come Giona dal ventre del mostro”. Ed ecco le stesse scene di saccheggio - che viste dai vincitori assumono la valenza di scene di conquista - rievocate nella “Storia del signore della conquista” di Tursun Beg e Ibn Kemâl: Quando per il favore divino la fortezza fu espugnata, il nemico perdette ogni forza e fu incapace di reagire. Il popolo fedele non incontrò più ostacoli e pose mano al saccheggio in piena sicurezza. Si potrebbe dire che la vista della possibilità di poter fare bottino di ragazzi e di belle donne devastasse i loro cuori e i loro animi. Trassero fuori da tutti i palazzi, che uguagliavano il palazzo di Salomone e si avvicinavano alla sfera del cielo, trassero nelle strade, strappandole dai letti d’oro, dalle tende tempestate di pietre preziose, le beltà greche, franche, russe, ungheresi, cinesi, khotanesi, cioè in breve le belle dai morbidi capelli, uguali alle chiome degli idoli, appartenenti alle razze più diverse, e i giovanetti che suscitano turbamento, incontri paradisiaci… ”. E oro e pietre e perle e tessuti e argento e ogni sorta di cosa preziosa, “in una tale quantità che sembrò di vedere la terra far uscir fuori i suoi tesori”. Ciò che invece vide il medico veneziano Nicolò Barbaro: “Or per tuta questa zornada Turchi si fexe una gran taiada de cristiani per la tera; el sangue se coreva per la tera come el fosse stà piovesto, e che l’aqua si fosse andada per rigatoli cusì feva el sangue; i corpi morti cusì de cristiani, come de Turchi, queli si fo butdi in nel Dardanelo, i qual andava a segonda per mar, come fa i meloni per i canali. De l’imperador mai non se potè saver novela de fatti soi, nì vivo, nì morto, ma alguni dixe che el fo visto in nel numero di corpi morti, el qua fo dito, che el se sofegà al intra’ che fexe i Turchi a la porta de San Romano”. Già, dov’era finito Costantino XI, l’ultimo imperatore? Morto di sicuro, ma la sua fine resta un punto controverso. Silvia Ronchey, nel suo appassionante “L’enigma di Piero” - dove viene svelata l’ombra e rivelato un possibile tentativo di far rinascere a occidente parte della civiltà bizantina, attraverso l’analisi di simboli e figure della grandiosa Flagellazione di Piero della Francesca - rievoca una leggenda: “Costantino XI, l’ultimo eroico imperatore, era morto in battaglia. Molti non riuscivano a crederci e dicevano che si era marmificato: una statua di marmo sprofondata nei sotterranei della Città, che ogni notte si animava e continuava a combattere contro gli infedeli, lanciando con la spada scintille nel buio”. Scrive John Julius Norwich: “Correva naturalmente voce che si fosse salvato, ma quasi tutte le fonti, compreso Giorgio Sphrantzes, l’amico più intimo con cui Costatino avrebbe sicuramente comunicato se fosse stato vivo, sono concordi nel dire che egli morì combattendo. Un cronista racconta che i soldati turchi ne riconobbero il cadavere dalle aquile imperiali ricamate sugli stivali. Mehmet non poteva riservargli un sepolcro, che sarebbe diventato una meta di pellegrinaggio per tutti i filobizantini, ma non è del tutto escluso che le spoglie di Costantino siano state nascoste e sepolte in segreto. Fra tutte le versioni sul destino di Costatino XI, la più probabile tuttavia è la più semplice: che il cadavere non sia mai stato identificato e che l’ultimo imperatore di Bisanzio sia stato gettato in una fossa comune insieme ai suoi soldati”. Anche se altre storie, altre leggende, altri racconti dicono cose diverse. Una conclusione che trova qualche riscontro nelle cronache dello storico bizantino Ducas: “Allora l’imperatore, sentendosi perduto, tenendo saldamente ancora la spada e lo scudo disse queste parole commoventi: ‘Non c’è cristiano che mi tagli la testa?’. Era rimasto completamente solo. Allora uno dei turchi lo colpì e lo ferì al viso, ed egli gli restituì il colpo, ma uno di quelli che gli stavano alle spalle gli inferse un colpo mortale ed egli cadde a terra. I turchi però non sapevano che era l’imperatore, e quindi, dopo averlo ucciso, credendolo un soldato comune, lo lasciarono lì”. Invece Costantino di Ostrovica, che era giannizzero e che partecipò alla presa di Costantinopoli, sostiene che Costantino fu ucciso insieme ai suoi fanti e “tagliò la testa del suo cadavere un giannizzero di nome Sarielles, che la portò all’imperatore all’imperatore e gettatala ai suoi piedi disse: ‘Beatissimo signore, eccoti la testa del più crudele dei tuoi nemici’ ”. Finì così, sotto un mucchio di altri anonimi cadaveri, il sangue nobile mischiato a quello degli schiavi, una fossa o un rogo comune, l’ultimo basileus - Costantino XI Paleologo, figlio di quel Manuele citato da Benedetto XVI - della splendida Costantinopoli. O si può anche credere, come racconta Silvia Ronchey, che si sia fatto pietra e poi sprofondato sotto la terra, per tornare a combattere un giorno. Morti e sangue e urla e violenze accompagnano la fine di Bisanzio. Perché ogni testimone - cristiano o musulmano - pure questo racconta. Ecco cosa si trova, a proposito della sorte di Costantino XI e di quella della sua città, nelle pagine del “Libro che descrive il mondo” dello storico turco Mehmet Nesri, forse un dottore della legge islamica al tempo di Mehmet II: “I ghâzî penetrarono nella fortezza, tagliarono la testa al principe infedele, fecero prigioniero il suo vizir Kyr Luka con tutte le persone che da lui dipendevano. Nella fortezza vi era anche un altro discendente di Osman e sgozzarono pure lui. Passarono a fil di spada tutti i maschi dello stolto popolino della città, resero prigionieri delle catene e dei gioghi i loro familiari. In Aya Sofya e in altre chiese i ghâzî fecero a pezzi a colpi di scure gli idoli d’oro e d’argento, e chi si prese il braccio, chi le gambe, chi la testa. Misero a sacco tutto ciò che trovarono dei beni degli infedeli. Il bottino fu enorme. Disse il profeta: ‘Certo conquisteranno Costantinopoli e il suo principe sarà un principe eccellente e l’esercito che la conquisterà sarà un esercito eccellente’ (… ) Da quel momento è divenuto proverbiale dire a coloro cui si vuole attribuire una grande ricchezza: ‘Hai partecipato al sacco di Istanbul?’. Se dovessimo descrivere tutto il bottino che fu fatto, il discorso diventerebbe lungo. In questa guerra ci furono così tanti eventi che la penna non riesce a descriverli tutti, la lingua non riesce a enumerarli”. La stessa cosa, pur con altri occhi, vide Leonardo di Chio, arcivescovo di Mitilene, che fu fatto anche prigioniero e riuscì a fuggire. Scrisse “al signore nostro beatissimo” Papa Nicolò V nell’agosto del 1453: “Per tre giorni dunque la città fu percorsa da predatori e saccheggiatori e poi questi, sazi di ricchezze, la lasciarono in potere del sovrano turco. Ogni ricchezza ed ogni preda viene trasportata nelle tende; tutti i cristiani, in numero di circa sessantamila, legati con funi, cadono prigionieri. Le croci, strappate dalle cupole e dalle pareti delle chiese, furono calpestate sotto i piedi; vennero violentate le donne, deflorate le fanciulle, oltraggiati turpemente i giovanetti, contaminate con atti di lussuria le monache e quelle che le servivano. Dio mio, quanto devi esser adirato contro di noi, con quanta durezza hai distolto il tuo sguardo da noi tuoi fedeli! Che dire? Tacerò e racconterò le offese arrecate al Salvatore e alle sante immagini? Perdonami, o Signore, se narro crimini così orribili… Gettarono a terra le sacre icone di Dio e dei santi e su di esse compirono non solo orge, ma anche atti di lussuria. Poi portarono in giro per gli accampamenti il Crocefisso, facendolo precedere da suoni di timpani, per irrisione, e lo crocifissero di nuovo durante la processione…”. Fu più che la conquista di un esercito che espugna la capitale di un altro esercito. Fu sfida furibonda tra le due maggiori fedi, fu un epilogo e un nuovo avvio tra sante crociate e guerre sante. E perciò, nelle testimonianze del tempo - insieme al racconto degli abitanti uccisi o fatti schiavi, “uomini, donne, bambini, vecchi, giovani, sacerdoti, monaci, gente di ogni età e condizione”, elenca Critobulo di Imbro, allo scorrere del sangue, alle teste che volano, a una città che brucia - molto si insiste sulla profanazione delle chiese e dei luoghi santi. E tra mille e mille calici e altari, icone e quadri, paramenti e croci, il cuore di Costantinopoli era la grande icona che raffigurava la Vergine, da secoli al vertice della venerazione bizantina, quella che cadde poche ore prima della caduta della città. Ducas racconta dei giannizzeri che penetrano nel monastero del Grande Precursore e nel monastero di Chora, “in cui si trovava allora l’icona dell’intemerata mia Madre di Dio. ‘O lingua e labbra, come potrete dire dire ad alta voce ciò che fu perpetrato contro l’icona, a causa dei tuoi peccati?’. Mentre gli infedeli cercavano di volgere i loro assalti anche altrove, uno di loro, empio, impugnata la scure con le sue mani turpi, spaccò in quattro parti l’immagine e l’ornamento che essa aveva; e tirate a sorte le singole parti, ciascuno prese quella che gli toccò. E non se ne andarono prima di aver depredato le sacre suppellettili del monastero”. Il volto della Vergine strappato in più parti fece grande impressione nei testimoni del tempo. E in “Bisanzio”, secoli dopo, rievoca John Julius Norwich: “A mezzogiorno le strade di Costantinopoli erano rosse di sangue. Le case erano vuote, le donne e i bambini violentati o impalati, le chiese rase al suolo, le icone strappate dalle cornici, i libri stracciati. Il palazzo imperiale delle Blacherne era un guscio vuoto, l’icona più venerata dell’impero, la Vergine Odigitria, tagliata in quattro pezzi e distrutta. Le scene più odiose avvennero in Santa Sofia. I sacerdoti stavano celebrando il mattutino, quando si udirono i passi dei conquistatori, ebbri di sangue. Le porte di bronzo furono sbarrate, ma i turchi le abbatterono. Fra i fedeli, i più miseri e meno attraenti furono massacrati all’istante; gli altri furono trascinati all’accampamento turco in attesa di conoscere il loro destino. I sacerdoti continuarono a celebrare finché non furono abbattuti davanti all’altare. Ancora oggi però c’è chi crede che due di essi, afferrati i calici e le patene, si siano volatilizzati dentro il muro sud del santuario, da cui usciranno di nuovo soltanto quando Costantinopoli tornerà a essere una città cristiana. Allora la funzione riprenderà dal punto in cui era stata interrotta”. I monaci scomparsi con i calici, l’imperatore che dorme un sonno di marmo, la Vergine che cade: la fine di un impero millenario genera sempre grandi leggende. Ma Costantinopoli era già una leggenda in terra. Lo era anche per il suo conquistatore, Mehmet II. Era salito sul trono a diciannove anni, riuscì a passeggiare sotto la cupola di Santa Sofia ad appena ventun anni, quando, come dice poeticamente Tursun Beg, conquistò “la giovane sposa a cui aspirarono molti re e molti sultani dell’Islam”. Il sultano è ovviamente un personaggio centrale nella letteratura del tempo. Lo racconta benissimo Agostino Pertusi, che fu professore di letteratura greca e filologia bizantina presso la Cattolica di Milano, e curò per la Fondazione Lorenzo Valla due bellissimi volumi su “La caduta di Costantinopoli”, con le testimonianze dei contemporanei e l’eco suscitato nel mondo dall’evento, ampiamente usati in questa ricostruzione. Scrive dunque Pertusi, analizzando i testi islamici del tempo: “Mehmed è costantemente rappresentato come ‘saldo e forte’, con ‘spirito rivolto alla giustizia e alla misericordia’, osservante ‘delle norme della legge divina’, combattente ‘per Dio la vera guerra santa’, confidente nei detti del Corano”. Pertugi cita l’opera di Tursun Beg che si rivolge a Mehmet. “ ‘L’evento della conquista’, egli scrive, ‘ebbe luogo in un momento storico, il momento felice della tua fede - ed è Dio che percuote con la sua spada - un momento senza precedenti’. Mehmed è il destino di Dio’, l sue bombarde sono le ‘esecutrici del destino’, la sua vittoria è ‘quella che viene da Dio’; al momento della sua entrata a cavallo ‘davanti a lui si teneva il Favore celeste, dietro di lui la Felicità, a destra la Vittoria, a sinistra la Potenza’, Come Maometto divenne a suo tempo ‘il suggello della Profezia’, così Mehmed è divenuto ‘l’illustrazione di ciò che significhi la devozione della Fede… l’ombra della bontà di Dio’ ”. Ovviamente, tutt’altra lettura della personalità del sultano turco davano i cristiani. Il mercante fiorentino che combattè sulle mura di Costantinopoli, Jacopo Tedaldi, scrisse: “Si sa da coloro che sono scampati al Turco e che sono a conoscenza delle sue condizioni e della sua potenza che egli ha ventitrè o ventiquattro anni, che è più crudele di Nerone, si compiace di spargere sangue umano, pieno di coraggio e desideroso di signoreggiare e di convertire tutto il mondo, assai più che Alessandro o Cesare o altro potente che viene ricordato, poiché egli stima di avere una potenza ed una signoria assai più grande di quella che sia mai stata posseduta da altri”. Per il cardinale Isidoro di Kiev “egli nutre un odio, un’avversione e un furore così forte contro i cristiani, che quando egli vede con i suoi occhi un cristiano, ritenendo di aver subito una grave deturpazione e sozzura, lava e deterge i propri occhi. Un nemico tale della fede cristiana non ci fu mai, e non ce n’è uno simile a lui, né alcun uomo vide mai né vedrà tra il popolo cristiano”. Ecco che se dal punto di vista degli sconfitti la caduta di Costantinopoli rappresentò un colpo tremendo, dal punto di vista dei vincitori la presa di Costantinopoli segnò un trionfo senza pari. Sul Bosforo il mondo di allora finì in un equilibrio non molto diverso da quello di oggi. Perché Costantinopoli, la greca Costantinopoli, la cristiana Costantinopoli, l’ortodossa Costantinopoli, esercitava un grande fascino sullo stesso sultano turco. Il racconto è nel “Libro che racconta la conquista di Istanbul protetta da Dio” del poeta Tâdij Beg-zâde Ga’fer Celebi: “Visitò da un capo all’altro i larghi quartieri, le piazze quadrate, i posti meravigliosi, i luoghi strani, le località amene e le posizioni fortificate, i palazzi e i castelli dalle solide strutture che ne facevano la gloria, le case dai mattoni colorati, i luoghi di preghiera, i templi dalla pura forma. Infine si recò a visitare il grande edificio, l’alto tempio conosciuto con il nome di Aya Sofya… di cui la grandiosità e la sublimità non può esser descritta con le parole…”. Questo, e molto altro, successe il giorno che Costantinopoli cadde. E il 29 maggio 1453 divenne una data simbolo, un crinale tra un tempo storico e un altro, perché non una città cristiana, ma la città cristiana - di Costantino e sant’Elena, di mille reliquie, di infiniti concili, di dispute eterne, l’ultima precariamente sanata, a fittizia unione tra i cristiani pochi mesi prima che tutto crollasse - cadde nelle mani dell’islam. Perché in realtà già Bisanzio aveva subito un saccheggio destinato forse a piegarla per sempre: quello del 1204, durante la quarta crociata. A opera dei crociati cattolici. Né fu - seppur tra fratelli, diciamo così, di fede - meno crudele di quello che avverrà quattro secoli dopo. “Fu l’ora più buia per Costantinopoli, ancora più buia, forse - secondo Norwich - di quella che avrebbe visto la sua caduta definitiva per mano del sultano ottomano”. Racconta lo storico: “Alla breccia nelle mura della città seguì una carneficina spaventosa. I vincitori proclamarono la tregua soltanto a sera e si accamparono in una delle grandi piazze di Costantinopoli. Al mattino ogni resistenza era stata domata. Ma per i bizantini era soltanto il primo atto della tragedia. I francesi non avevano aspettato tutto quel tempo davanti alle porte della capitale più ricca del mondo per andarsene a mani vuote. Nei tre abituali giorni di saccheggio concessi alle truppe vittoriose, si gettarono sulla preda come cavallette. Era dai tempi delle invasioni barbariche che in Europa non si vedevano più brutalità e vandalismi del genere. E mai tanta bellezza e tanta straordinaria maestria furono cancellate per capriccio, in così breve tempo, dalla faccia della terra”. Né i crociati, con in petto la croce, furono più rispettosi dei luoghi sacri di quanto lo furono i conquistatori ottomani secolo dopo. Ecco il racconto del grande storico bizantino Niceta Coniata, testimone della furia di quei giorni: “Sfasciarono le sacre immagini e gettarono le sacre reliquie dei martiri in luoghi che ho vergogna a nominare, spargendo ovunque il corpo e il sangue del Salvatore… Quanto alla profanazione della Chiesa Grande, essi distrussero l’altare maggiore e se ne spartirono i pezzi… E introdussero nella chiesa muli e cavalli, per portare via con più facilità i sacri calici e il pulpito e le porte e gli arredi su cui mettevano le mani, e quando qualche animale scivolava e cadeva lo trapassavano con la spada, insozzando di sangue e lordura la chiesa. Sul trono del patriarca fu fatta sedere una prostituta per insultare Gesù Cristo; e la donna cantò canzoni sconce e danzò con immodestia nel luogo santo… né ci fu pietà per le matrone virtuose, per le fanciulle innocenti e neppure per le vergini consacrate a Dio”. Un saccheggio è un saccheggio è un saccheggio. Ma fu quello che avvenne secoli dopo, a opera di Mehmet II, il saccheggio che colpì il cuore della cristianità. Letto come castigo del cielo, ira divina, fulmine sull’ignavia dei cattolici. E chi si lamentava e chi invocava la riscossa. Chi prometteva guerra santa a guerra santa e chi già stringeva accordi con i nuovi padroni di Istanbul, non più Costantinopoli, mai più Bisanzio. “Ma fu forse la pietà divina a permettere ciò - scriveva Fra Girolamo da Firenze - Ed ora la potenza e il valore dei cristiani, che sono pieni di spavento, sorgano in armi in modo più coraggioso e virile, come è necessario, con l’aiuto del signor nostro Gesù Cristo: si tratta della sua difesa”. E il cardinale Enea Silvio Piccolomini, futuro Pio II, scrive al Papa Nicolò V. Una lettera piuttosto maliziosa: “Vostra Beatitudine ha fatto ciò che ha potuto. Non c’è nulla che possa esser posto a carico di vostra Clemenza; ciò malgrado i posteri, ignari della situazione, ve ne faranno carico, quando leggeranno che Costantinopoli fu presa durante il vostro regno… E’ vostro dovere ormai muovervi, scrivere ai re, inviare legati, ammonire, esortare i principi ed i comuni perché si riuniscano o inviino i loro rappresentanti in un luogo comune. Ora che la ferita è ancora fresca, si affrettino a venire in aiuto della comunità cristiana, in nome della fede facciano pace o tregua tra alleati e, unite le forze, muovano contro i nemici della croce salvifica… ”. Scrive al Papa pure Isidoro di Kiev: “Suscita dunque la tua potenza, o più santo dei padri, e poiché tu conosci a fondo le cose e le capisci e hai potere di influenza notevole su tutte le altre podestà inferiori, cerca di assumerti con la forza necessaria e di affrontare questa che è la causa di Cristo, nostro Dio; volgi ad essa la tua ira possente…”. Un monaco del santuario della Vergine Pammakaristos, Gennadio Scolario: “La sciagure abbattutesi sulla nostra capitale provenivano manifestamente da Dio e dalla giustizia celeste. La potenza, l’arte e la tecnica di guerra dei nemici, che si abbatterono su di noi e che ci distrussero, non ebbero la loro forza da altri che da Dio… ”. Giorgio di Trebisonda nientemeno scrive allo stesso Mehmed II per proporgli di unificare la religione cattolica e quella musulmana, e “nessuno meglio di te, mirabile emiro, può portare a termine un’impresa di tal genere”. Non succede quasi niente. Persino il Senato veneziano si rivolge al Papa, “noi ricorriamo a vostra Santità come al pastore sommo del gregge di Dio, supplicandovi con la nostra solita devozione filiale che vi degniate di provvedere a un tal male con tutti i mezzi e con tutte le preghiere che parranno opportune alla vostra saggezza”. Tutti quelli che non avevano fatto, ora sembrano smaniare per fare. Vengono composte opera, canti, suppliche, pianti e monodie. Si lamenta Abraham di Ankara, poeta armeno, forse un monaco, “pieno di peccati ho composto questo lamento con grande dolore”. E dice, appunto, questo lamento dedicato alla città appena conquistata: “Ti hanno reso obbrobrio dei vicini e sei divenuta oggetto di derisione per chi ti sta intorno. I tuoi giovani li divorò il fuoco e nessuno prese il lutto per le tue vergini, i tuoi sacerdoti caddero di spada, nessuno pianse le tue vedove”. Di qua il lamento, di là il canto di gioia. “Gli amici del sultano ottomano ne esultarono e ne furono felici, i nemici della fede e dello stato ne rimasero stupefatti e schiacciati”, scrive Tâdji Beg-zâde Ga’fer Celebi. Non succederà quasi nulla. Mehmet non arriverà a Roma, come qualcuno paventava, ma gli ottomani da Istanbul non andranno più via, Costantinopoli sarà sepolta per sempre. Comincerà anche la leggenda nera di Bisanzio, come quella raccontata nell’Ottocento nella “History of European Morals” di W.E.H. Lecky, “i suoi vizi erano i vizi di uomini che avevano cessato di essere eroici senza avere imparato a essere virtuosi… la storia dell’impero è un racconto monotono di intrighi di preti, eunuchi e donne, di avvelenamenti, di cospirazioni, di continua ingratitudine e di perenni fraticidi”. Alla faccia del racconto monotono. Fondato lunedì 11 maggio 330 da Costantino il Grande, l’impero romano d’Oriente finì martedì 29 maggio 1453, sotto Costantino XI: da allora nel mondo greco martedì è giorno infausto. E’ durato 1123 anni e diciotto giorni: un tempo immenso. Ecco, questa è la storia dell’ultimo giorno di Costantinopoli, di martedì 29 maggio 1453, di ciò che videro quelli che c’erano, quelli che poi piansero e quelli che gioirono. Sulla cupola di Santa Sofia, ora moschea, sale Mehmet II, si guarda ammirato intorno e recita antichi versi persiani: “Il ragno assolve alla funzione di portinaio nel palazzo di Cosroe… ”. Sotto, Costantinopoli e il suo ultimo imperatore sono ora pietra che arde.


I chiotes e la conquista di Costantinopoli di Miljan Peter Ilich
Costantino XI e la caduta di Costantinopoli a cura di Andrea Frediani.
L'assedio di Costantinopoli - "Eroismi, valore d'arme e paure nell'ultima ora di Bisanzioa cura di Strato Gelsomino.
Entrambi tratti da www.imperobizantino.it
La Chiesa cattolica latina e la sua Comunità di Costantinopoli a cura di Rinaldo Marmara, Docente dell’Università Montpellier III Storico ufficiale del Vicariato Apostolico di Istanbul. Riproduzione su Korazym.org per gentile concessione de L’Osservatore Romano

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