LA COLLEZIONE GIUSTINIANI
La fase classicista


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Paesaggio con Giunone e Argo - Nicolas Poussin
Paesaggio con Latona - Herman van Swanevelt
Paesaggio con Cefalo e Procri riuniti da Diana - Claude Lorrain
Mosè fa scaturire l'acqua dalla roccia - Pietro Testa
Labano cerca gli idoli nascosti da Rachele - Pietro Testa
Mosè davanti al Faraone - Giovan Battista Ruggeri
Morte di Cicerone - François Perrier
Agar confortata dall'angelo - Carel Philips Spierinck
S. Gregorio Magno - Carlo Saraceni
Sacra Famiglia- Gian Domenico Cerrini
Cristo porta la croce al Calvario - Nicolò Musso
Predica di S. Vincenzo Ferreri - Bernardo Castello
Decollazione di S. Giovanni Battista - Gerrit van Honthorst
S.Francesco - artista vicino a Jusepe de Ribera
Mercurio e Cupido - François Du Quesnoy
Testa di Fauno - Baccio Bandinelli
Il tema dell' antico: la collezione di statue nelle testimonianze dei contemporanei

1 rilievo

Rilievo con cavaliere - Artista greco di ambiente fidiaco

3 opere a stampa in vetrina (complessivamente 4 volumi):

Rilievo in Galleria Giustiniana-Reinier van Persjn
Fauno Giustiniani in Segmenta Nobilium...-Francois Perrier

Disegni incorniciati e appesi:

Marsia - Joachim von Sandrart
Sileno con l'otre di vino - Joachim von Sandrart
Apollo con la pelle di Marsia -Joachim von Sandrart
Polimnia ("Sabina") - Joachim von Sandrart
Erma di Omero - Joachim von Sandrart
Le Tre Grazie - Joachim von Sandrart
Minerva Giustiniani - Joachim von Sandrart


Paesaggio con Giunone e Argo - Nicolas Poussin
Nell’inventario di Vincenzo Giustiniani del 1638 il quadro è descritto nella sua funzione di sopraporta, condivisa generalmente dagli altri paesaggi di dimensioni analoghe, e il soggetto è indicato come "un paese e figurine picciole con l’Istoria di Mercurio che ha ucciso Argo, che custodiva la Vacca Hio..." (SALERNO [1960], I, n. 133). Il dipinto è probabilmente il meno noto fra quelli di Poussin che facevano parte della collezione: di ben altra attenzione critica ha goduto per esempio la Strage degli innocenti ora a Chantilly, capolavoro del maestro francese che nella raccolta Giustiniani era inserito all’interno della celebre serie di soggetti stoici, scelti fra le vicende dell’antichità e della Bibbia ritenute esemplari in quanto a sopportazione del dolore in virtù di alti ideali (CROPPER-DEMPSEY [1996], p. 85). Il Paesaggio con Giunone ed Argo, di cui il solo Grautoff ha messo in dubbio la paternità poussiniana, avanzando un’ipotesi attributiva in favore di un imitatore, forse Pierre Dulin (GRAUTOFF [1914], vol. II, pp. 261-262), presenta forse qualche difficoltà di sistemazione all’interno della cronologia del pittore. La presenza di putti e ninfe sulla sinistra contribuisce infatti ad avvicinare il dipinto alle prime opere romane di Poussin, i paesaggi abitati da satiri e fanciulle addormentate eseguiti entro il terzo decennio (WHITFIELD [1994]); allo stesso modo il tipo di vegetazione, con gli alberi slanciati e incrociati, sembra in relazione con le ricerche naturalistiche sulla fusione delle fronde e sulla resa dell’atmosfera dei pittori italianizzanti e di Filippo Napoletano, che sono fra l’altro i termini di paragone usati da Cassiano dal Pozzo nella sua celebre lettera del 1631 per la capacità di Poussin nel fare i "paesi" (RINEHART [1960]). A proposito del legame con la pittura di paesaggio dei primi decenni, va sottolineata un’altra indicazione che già si trova nella citazione inventariale: il dipinto è un "paese con figure piccole", di quelli portati in auge all’inizio del Seicento a Roma da Annibale e Domenichino, e che si erano affermati nelle collezioni romane nel primo decennio. Poussin non adopererà molto spesso questa quasi arcaica declinazione del genere: già nel Paesaggio con S. Giovanni Battista del Louvre, datato alla metà degli anni Trenta, la scala fra i personaggi e lo sfondo naturale raggiunge un equilibrio di grandezze diverso e originale. L’affiorare di elementi giovanili, così come il raffronto con le opere degli anni Trenta, decisamente più mature e indipendenti, hanno fatto ritenere a Thuillier troppo avanzata la datazione proposta da Blunt, che si atteneva alla data ante quem del 1638 per fissare l’esecuzione della tela ai due anni immediatamente precedenti; lo studioso francese ha proposto invece un significativo arretramento al 1634 circa. Se i rapporti con Giustiniani si possono già situare intorno al 1630, tuttavia una data intermedia come quella proposta da Thuillier può essere condivisa considerando che oltre agli elementi stilistici degli anni giovanili il quadro mostra una certa ambizione nella scelta articolata del soggetto: ai poco individuati protagonisti di Baccanali o di corteggiamenti campestri si sostituisce la rappresentazione di un raro episodio della vicenda di Mercurio ed Argo, narrata nelle Metamorfosi di Ovidio e, per altro, di grande fortuna nella tradizione nordica di inizio Seicento. Mercurio viene inviato da Giove a sopprimere Argo, il mostro dai cento occhi a cui Giunone ha affidato la custodia della ninfa Io, amata da Giove e trasformata in vacca; l’episodio prescelto da Poussin non è quello dell’incontro fra Mercurio ed Argo o quello cruento dell’uccisione, ma il momento elegiaco dell’omaggio che Giunone rende al suo devoto servitore ponendone gli occhi a decorazione della coda del pavone, animale a lei sacro.
(Francesca Cappelletti)

Paesaggio con Latona che trasforma in rane i contadini della Licia - Herman van Swanevelt
Si deve a Luigi Salerno (SALERNO [1960]) l'aver riconosciuto nel Paesaggio con Latona che trasforma in rane i contadini della Licia, allora nel Kaiser Friedrich Museum, il sovrapporta descritto nell'inventario di morte del marchese Vincenzo (1638) in palazzo Giustiniani: "nell'anticamera dell'appartamento grande del card.le". Il dipinto, che l'estensore seicentesco del documento attribuiva con prudenza a monsù Erman ("si crede di mano del monsù Erman") - pur non avendo vissuto la sorte comune a molti altri quadri di paesaggio della collezione, che avevano ricevuto, nella fase di dispersione del patrimonio artistico Giustiniani, più altisonanti appellativi (come nel caso dei dipinti di Viola, venduti sotto il nome di Annibale Carracci o di Domenichino, cfr. in tal senso DELAROCHE [1812]) - una volta entrato nelle collezioni berlinesi del Kaiser Friedrich Museum era stato erroneamente catalogato come opera di Jan Frans van Bloemen (da Bode, cfr. Geismeier in ROMA [1979]). Solo nel 1960 l'appellativo seicentesco di "monsù Erman" ritornava a sciogliersi in quello di Herman van Swanevelt, meglio noto nella Roma dei suoi tempi come monsù Armanno, detto l'Eremita. La riscoperta di questo nuovo numero del catalogo di Swanevelt non venne accolta senza qualche riserva: se Roethlisberger (ROETHLISBERGER [1961]) vi riconobbe una delle migliori opere del paesaggista nederlandese, "un capolavoro", come l'aveva già definito il catalogo di vendita di Delaroche (DELAROCHE [1812]), Blankert (UTRECHT [1965]; BLANKERT [1978]), dal canto suo, mise in discussione l'attribuzione del dipinto, riscontrandovi una scrittura degli elementi paesistici e delle figure molto diversa da quella osservabile nelle altre opere note di Swanevelt. Nell'impaginazione del paesaggio l'opera appare vicina alla lunetta superstite della sacrestia di S. Maria sopra Minerva con Martirio di un Domenicano (S. Pietro Martire?), restituita a Swanevelt da Bodart grazie all'interpretazione del passo relativo delle Vite del Passeri (BODART [1970a], vol. I, p. 300; BODART [1971]). Come nell'affresco della sacrestia del tempio domenicano, così anche nel dipinto Giustiniani ora a Berlino, lo schema è piuttosto semplificato: un corso d'acqua, che scorre diagonalmente, risulta inquadrato da due quinte di alberi ad alto fusto, dalle folte chiome. Nonostante le ovvie disparità nella tecnica esecutiva e nello stato di conservazione, le due opere appaiono in stretta connessione qualora si osservino le circostanze in cui l'affresco della sacrestia di S. Maria sopra Minerva (insieme al compagno, distrutto prima del 1637 per la costruzione della cappella di S. Caterina da Siena) venne realizzato dal pittore di Woerden. Se infatti, come racconta Passeri e confermano i documenti, Swanevelt nel 1634, a seguito di una condanna da parte del Santo Offizio per "aver professato in apparenza il cattolichismo per politica" (BODART [1970a], p. 300, nota 4; BODART [1971]), ebbe la possibilità di scontare la propria pena semplicemente trascorrendo un soggiorno presso il convento di S. Maria sopra Minerva (durante il quale affrescò le due lunette), è possibile ipotizzare che tale blanda soluzione alla controversia che vedeva Swanevelt sfortunato protagonista fosse stata suggerita da un membro della famiglia Giustiniani. Già a partire dall'ultimo quarto del Cinquecento, la chiesa di S. Maria sopra Minerva era stata luogo d'influenza diretta della famiglia genovese-romana. Il cardinal Vincenzo Giustiniani (m. 1582), fratello del padre del marchese Vincenzo, era stato generale dei Domenicani, e aveva fatto eseguire lavori nel chiostro; nella chiesa, come è noto, si trovava la cappella di famiglia, concessa al cardinale poco dopo il 1570 e decorata nel 1584 con la pala di Bernardo Castello (vedi scheda A3, ma soprattutto DANESI SQUARZINA [1995], in part. p. 100). L'ipotesi che Swanevelt appartenesse alla cerchia di artisti che godevano della protezione di Vincenzo Giustiniani potrebbe essere in qualche modo comprovata da una serie di circostanze. Proprio negli anni del "pasticcio" con il tribunale ecclesiastico, ovvero dal 1632 al 1634, il nederlandese divideva la propria abitazione, situata nella parrocchia di S. Andrea delle Fratte, con Carlo Vadram, intagliatore, da identificarsi con Charles Audran, incisore della Galleria Giustiniana e traduttore di molte composizioni dell'artista nederlandese stampate a Roma e più tardi a Parigi (BOUSQUET [1987]; BLUME [1994]). Il nome di un certo Ermanno, inoltre, compare fra i pagamenti degli artisti che approntano disegni e incidono i rami per i volumi della Galleria Giustiniana (cfr. DANESI SQUARZINA, infra). Infine, sarà in tal senso degno di nota rilevare che nel 1634 Swanevelt (sebbene sotto la pressione di un pesante carico legale) fosse registrato all'Accademia di S. Luca proprio in compagnia di altri tre artisti "forestieri", non a caso, tutti protetti dal marchese Giustiniani: François Du Quesnoy, Carel Philip Spierinck, Sigismondo Laire (cfr. BOUSQUET [1987], pp. 73-74). Le coincidenze menzionate renderebbero possibile suggerire un rapporto non proprio episodico tra il pittore e il marchese Giustiniani e una datazione del dipinto a ridosso della lieve risoluzione della condanna, intorno al 1634, andando così ad arricchire il poverissimo novero di certezze su cui possiamo contare per la ricostruzione dell'attività romana di Swanevelt nel quarto decennio del Seicento. Il soggetto del dipinto - che nel palazzo davanti a S. Luigi dei Francesi era collocato in pendant con il Paesaggio con Cefalo, Procri e Diana di Claude Lorrain (come già notato da ROETHLISBERGER [1961] e da MACLEAN [1995], cfr. scheda E3) - deriva dalle Metamorfosi di Ovidio (VI, 338-383). La descrizione offerta nell'inventario si fonda chiaramente su di un equivoco: la giovane donna raffigurata a ridosso del corso d'acqua non è Diana, detta anch'essa Latonia, bensì Latona, figlia di uno dei Titani e madre dei gemelli Apollo e Artemide (Diana). Nella narrazione delle Metamorfosi l'episodio rappresentato coincide con il momento in cui la divinità, alla ricerca di acqua per dissetare la sua prole, viene ostacolata dai contadini della Licia, che non le permettono di attingere dal corso d'acqua, e che la dea per ripicca trasforma in rane. Tale soggetto, per la vena favolistica che suggerisce, conobbe un successo particolare tra i pittori di paesaggio di primo Seicento e le figure nel dipinto di Swanevelt, in particolare quella di Latona, sono debitrici di spunti da composizioni di piccolo formato su rame di Jan Breughel il Vecchio (Amsterdam, Rijksmuseum), di Paul Bril (Berlino, Gemäldegalerie, inv. 714A) e di Pietro Paolo Bonzi (Parigi, Louvre, inv. 134). Viste nel panorama del periodo romano di Swanevelt, di cui conosciamo ancora ben poco, le figurine rappresentate costituiscono un'eccezione: lontane dai tratti allungati e asciutti che contraddistinguono lo staffage del pittore di Woerden (anche nelle prime prove note, come La partenza di Giacobbe del Bredius Museum dell'Aja, datato 1630), esse potrebbero essere opera di un secondo pittore di cui al momento non è possibile stabilire l'identità.
(Giovanna Capitelli)

Paesaggio con Cefalo e Procri riuniti da Diana - Claude Lorrain
Il dipinto è l’unica opera di Claude Lorrain con sicurezza appartenuta a Vincenzo Giustiniani o per lo meno citata nel suo inventario del 1638 con l’attribuzione al pittore lorenese, stabilitosi definitivamente a Roma dal 1627, dopo un primo arrivo nella città pontificia intorno alla metà del secondo decennio, un viaggio a Napoli e un breve ritorno in patria da collocare intorno al 1625. Il legame di Claude con Vincenzo Giustiniani è indirettamente testimoniato dalle notizie che si ricavano dalla lettura del trattato di Joachim von Sandrart. Questi ricorda infatti, fra le escursioni compiute insieme con il pittore francese per disegnare all’aperto, proprio quelle che avevano come teatro la villa di Porta del Popolo del marchese Giustiniani. Nel Sandrart, protetto dal marchese Vincenzo e incaricato fra l’altro del coordinamento di disegnatori e incisori della Galleria Giustiniana, va probabilmente riconosciuto il tramite fra i due (Russell in WASHINGTON-PARIS [1982-1983]). L’iscrizione lacunosa sul dipinto, che nella raccolta era esibito a pendant con un paesaggio di Herman van Swanevelt (cfr. scheda n. 00##), non consente di stabilirne con certezza la cronologia, anche se una data ante quem, oltre ovviamente a quella dell’inventario, è fornita dall’assenza del dipinto nel Liber Veritatis, il celebre volume in cui Claude cominciò a registrare, a partire circa dal 1635, le opere eseguite, riproducendole e annotando il destinatario, allo scopo di fronteggiare i tentativi di contraffazione dei suoi dipinti che il crescente successo del quarto decennio stava portando con sé (KITSON [1978]). Per gli aspetti stilistici il quadro sembra avvicinabile alle ricerche atmosferiche compiute da Claude in sintonia con i pittori stranieri che aveva potuto frequentare a Roma e a Napoli, da Paul Bril a Gottfried Wals, e paragonabili agli esiti dei suoi contemporanei, da Bartholomeus Breenbergh a Filippo Napoletano. Già nei dipinti degli anni Trenta la luce pulviscolare e soffusa, attentamente studiata nelle ville e nei dintorni di Roma, avvolge le composizioni e nella resa dell’atmosfera emerge un’attenzione paragonabile solo alla meticolosa passione con cui Adam Elsheimer, morto un ventennio prima, aveva animato i suoi dipinti. Nel Paesaggio fluviale del 1631 (Boston, Museum of Fine Arts), uno dei primi dipinti databili con certezza, si manifestano alcuni dei tratti stilistici che si preciseranno negli anni seguenti: la scelta di dipingere un paesaggio nella quieta luce dell’alba o all’inizio del tramonto, momenti luministici precisi che diventano principi unificanti del quadro, senza compromettere il rilievo quasi filologico che acquistano i particolari descrittivi. Nel quadro di Berlino gli attributi che contraddistinguono il gruppo di figure, studiati in quello che può essere considerato il disegno preparatorio (London, British Museum; ROETHLISBERGER [1968], n. 69), sono molto accurati: compaiono la lancia e il cane, doni di Procri al marito Cefalo, appassionato cacciatore; nella radura a destra, dove gli alberi inclinati e frondosi mostrano i tronchi ricoperti di vegetazione, si affacciano i volti delle altre ninfe del corteggio di Diana, a cui Procri si era unita. Nello sfondo a sinistra si distende, animato da una luce rosata, un paesaggio punteggiato in lontananza da un ponte probabilmente tratto da esempi romani, un primo accenno all’introduzione di elementi architettonici sulla linea dell’orizzonte che si affermerà come prassi nei quadri di Claude allo scadere del decennio, come nel Paesaggio con il ritrovamento di Mosè (1639-1640; Madrid, Prado). All’epoca del già citato inventario del 1638 i personaggi raffigurati nel dipinto sono descritti semplicemente come "tre figurine di ninfe" (SALERNO [1960], parte I, pp. 98, 117); l’identificazione del soggetto mitologico venne assolutamente trascurata, sia perché probabilmente la lettura del dipinto era resa difficoltosa dalla sua funzione di sopraporta, sia per la scarsa diffusione del soggetto, decisamente poco rappresentato e dunque poco riconoscibile. In genere, della storia di Cefalo e Procri, del loro amore contrastato e delle loro reciproche infedeltà, raccontate con qualche variante da Ovidio fino ad Igino nelle Fabulae, veniva prediletta la sfortunata conclusione, quando Cefalo colpisce per errore la moglie che, in preda alla gelosia, l’aveva seguito durante una battuta di caccia nascondendosi dietro un cespuglio. Anche Claude rappresentò questo episodio (Wine in LONDON [1994], p. 107), anche se, come di consueto, mostrò di prediligere un tema meno frequentato dai pittori e solo adombrato nella letteratura antica. Nella sua produzione si contano infatti almeno quattro versioni del momento in cui la dea Diana procede ad una riunificazione fra i due sposi: Procri si era infatti unita alle ninfe della dea dopo aver abbandonato Cefalo che l’aveva crudelmente ingannata. Egli era stato rapito da Aurora e, al suo ritorno, aveva voluto mettere alla prova la fedeltà coniugale della sua bella sposa spacciandosi per uno sconosciuto che aveva intenzione di donare a Procri una ingente ricchezza in cambio dei suoi favori. Quando l’eroina, dopo molti dinieghi, aveva mostrato un segno di cedimento, Cefalo si era rivelato, suscitando in lei un risentimento feroce. Prima delle sperimentazioni di Claude il soggetto è praticamente sconosciuto e, anche nella ampia trattazione di Ovidio (Metamorfosi, VII, 752-765), non compare l’incontro fra i due propiziato dalla dea, che faceva invece parte della tradizione rinascimentale della storia, come era stata trasposta in alcune rappresentazioni teatrali (Wine in LONDON [1994]). La seconda versione in ordine cronologico, con il paesaggio variato e popolato di armenti è quella, oggi alla National Gallery di Londra, eseguita nel 1645 per uno sconosciuto committente francese (Liber Veritatis ###); a questa tengono dietro la quasi contemporanea variazione dipinta per il principe Camillo Pamphilj in formato verticale e ridotto nelle dimensioni, in cui il gruppo di personaggi appare invertito nella posa rispetto al quadro della National Gallery (Roma, Galleria Doria Pamphilj, Liber Veritatis 91) e consegnato in pendant con l’Apollo musico che custodisce le greggi di Admeto (Roma, Galleria Doria Pamphilj). Ancora una volta associato ad un dipinto che ha protagonista Apollo, fratello di Diana, è l’ultimo quadro eseguito da Claude sul tema di Cefalo e Procri riuniti da Diana: destinato a Louis d’Anglure, signore di Bourlemont, nel 1664 (Gran Bretagna, collezione privata), condivide con i dipinti dell’ultimo periodo quell’allungamento delle figure che rende ancora più eterei e inafferrabili i miti spesso rari e oscuri a cui Claude si dedica in maniera quasi esclusiva nella fase estrema della sua attività.
(Francesca Cappelletti)


Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia - Pietro Testa
Questo dipinto viene descritto nell’inventario del 1638, redatto alla morte del marchese Vincenzo Giustiniani, come pendant del seguente: "Dui quadri sopraporti Uno con L’Istoria di Moisè che batte un sasso con la verga, e fà scaturir acqua per servitio del Populo Hebreo [...] dipinti in tela alta palmi 6. larga 8. incirca senza cornici di mano di Pietro Testa lucchese" (SALERNO [1960], I, n. 105; DANESI SQUARZINA [2001]). L’iconografia, molto frequente fin dai primi anni del Cristianesimo, vuole alludere alla salvezza che viene dall’acqua del Battesimo e probabilmente fu scelta, in accordo con il committente, per costituire, con quella del pendant, una sorta di riflessione morale sul tema del male e della salvezza (vedi scheda seguente). Proprio la pubblicazione dell’inventario del 1638 da parte di SALERNO [1960] ha restituito definitivamente al pittore lucchese Pietro Testa, detto il Lucchesino, i due quadri di Potsdam, che da allora sono entrati a far parte del non cospicuo numero dei suoi dipinti (SCHLEIER [1970] ne elenca diciassette, ai quali va aggiunta L’adorazione dei pastori di Edimburgo, National Gallery of Scotland, pubblicata da BRIGSTOCKE [1976]). Il Testa infatti fu soprattutto disegnatore ed incisore (Cropper in PHILADELPHIA [1988]). Per quanto riguarda la datazione, gli studiosi che si sono in seguito occupati dei due dipinti (che tuttavia non sono mai stati oggetto di un’analisi approfondita) concordano sul fatto che devono essere stati realizzati pochi anni prima della morte del marchese Vincenzo Giustiniani (27 dicembre 1637). Il Lucchesino aveva già lavorato per il marchese fin dai primi anni del suo soggiorno romano (1628-1637), quando il Sandrart lo aveva conosciuto, povero e privo di risorse, mentre disegnava dall’antico al Colosseo, sul Palatino, sul Campidoglio (SANDRART [1675], pp. 288-289; per la biografia del Testa CROPPER [1984] e Cropper in PHILADELPHIA [1988]); CROPPER-DEMPSEY [1996], pp. 23 ss. con bibliografia precedente). Il pittore tedesco aveva da poco ricevuto l’incarico di portare avanti l’impresa della Galleria Giustiniana, che si sarebbe concretizzata nella pubblicazione dei due volumi di incisioni riproducenti i pezzi migliori della collezione del marchese Vincenzo (sulla Galleria DANESI SQUARZINA-CAPODURO [2000], con bibliografia precedente), e chiese al Lucchesino di realizzare alcuni disegni da tradurre poi in incisioni (HERKLOTZ [1999], p. 144, nota 183 e DANESI SQUARZINA-CAPODURO [2000], p. 162, nota 41, individuano alcune tavole della Galleria che possono derivare da disegni del Testa). È stato osservato quanto questo giovanile apprendistato sulle statue antiche, delle quali il Testa apprezzava particolarmente lo stile (PASSERI [1673, ed.1934]), proseguito con l’attività di disegnatore per il Museo Cartaceo di Cassiano dal Pozzo (TURNER [1992]; TURNER [1993]; ROMA [2000b], nn. 165-172), contribuì al definirsi dello stile classico del Lucchesino. Nel frattempo egli aveva potuto intrattenere significativi rapporti, sia con i disegnatori e incisori fiamminghi che lavoravano sotto la guida del Sandrart, sia con lo scultore Du Quesnoy. Forse attraverso quest’ultimo, o presso lo studio del Domenichino, che il Testa frequentò fino al 1631, conobbe il Poussin, rinsaldando poi l’amicizia nell’entourage di Cassiano. Il pittore francese, che alla fine degli anni Venti occupava ormai un posto di tutto rispetto nel panorama artistico romano, aveva condotto ricerche fondamentali per l’elaborazione del suo linguaggio artistico: l’antico, classico o biblico, ricreato attraverso la resa degli "affetti", spesso letto alla luce di un risvolto etico-filosofico, il colore veneto, il paesaggio, esperienze fondamentali per il giovane Testa, che negli anni Trenta fu il solo, fra gli artisti italiani, "che si sforzò veramente di dare una risposta personale a Poussin" (BRIGSTOCKE [1990], pp. 219 ss.), spesso realizzando opere "en echo" (BRIDGESTOCKE [1990] p. 222) con le sue. In questa ottica si colloca la realizzazione da parte del Testa del Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia, dipinto probabilmente negli stessi anni di quello di Poussin con il medesimo soggetto, commissionato dal consigliere del re di Francia Melchior Gillier (Edimburgo, National Gallery of Scotland, prestito dalla collezione del duca di Sutherland; datato, sulla scorta del FÉLIBIEN [1725], agli anni 1633-1635 dal THUILLIER [1994], p. 253, n. 101, e da Rosenberg in PARISE [1994-1995], p. 420). Non potendo datare ad annum né il dipinto di Poussin né quello di Testa, non possiamo nemmeno essere certi di quale fu realizzato per primo, tuttavia è abbastanza verosimile che fu il giovane Lucchesino a tenere presente, in occasione dell’importante commissione del marchese Vincenzo, quanto il più maturo maestro francese stava elaborando. Nei primi anni Trenta, infatti, Poussin aveva dato inizio alla sua riflessione sulla figura di Mosè, sulla quale sarebbe tornato più volte in seguito. Verso il 1633 aveva realizzato i due dipinti pendants per Amedeo dal Pozzo, raffiguranti Il passaggio del Mar Rosso (Melbourne, National Gallery of Victoria) e L’adorazione del vitello d’oro (Londra, National Gallery), appena precedenti il Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia. È al complesso di queste tre opere - come aveva suggerito la CROPPER [1984], p. 26, nota 107 - che Testa si riferisce nel costruire il suo Mosè. Vediamo infatti sulla sinistra la massa scura della rupe contro la quale si staglia la figura di Mosè, di iconografia michelangiolesca; intorno a lui i gruppi degli israeliti assetati si dispongono su piani diversi ed in pose variate: alcuni tendono le mani al cielo in segno di preghiera, altri si chinano a raccogliere l’acqua sgorgata miracolosamente, le donne, con i bambini in braccio, chiedono aiuto e vengono soccorse. Al centro del dipinto si apre uno squarcio di cielo, dal quale si diffonde la luce chiara, che rivela i toni cangianti dei panneggi e l’anatomia possente dei corpi. Sulla destra il paesaggio si perde in lontananza, lasciando scorgere le tende dell’accampamento. Proprio in questa concezione del dipinto visto come un racconto corale, al quale contribuiscono le numerose e varie figure, ciascuna colta in un atteggiamento preciso suscitato dall’evento miracoloso, e i volti resi con espressioni intense, per dispiegare la più estesa gamma degli affetti (MÉROT [1990], p. 69), il Testa dimostra di aver colto appieno la problematica che Poussin aveva affrontato in quei primi anni Trenta, avviandosi sulla via della narrazione drammatica e della ricerca psicologica (BRIGSTOCKE [1981], p. 59, n. 28). Il Lucchesino è in sintonia con il maestro francese, perché ha gli stessi punti di riferimento: i grandi pittori del Cinquecento - Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Giulio Romano, i Veneti (BLUNT [1967], pp. 128-129) - e l’antico, tuttavia affronta i problemi posti da Poussin dando una risposta personale: accentua ulteriormente il tono drammatico della scena, attraverso le espressioni intense degli assetati ed i panneggi agitati dal vento e rende più calde e sfumate le tonalità venete del colore.
(Luisa Capoduro)


Labano cerca gli idoli nascosti da Rachele - Pietro Testa
Questo dipinto viene descritto nell'inventario del 1638, redatto alla morte del marchese Vincenzo Giustiniani, come un quadro sopraporta, pendant del precedente, "con L'historia delli fratelli di Gioseppe che furno cercati per strada dalli mandati dal detto Giuseppe, dipinti in tela alta palmi 6. larga 8. incirca senza cornici di mano di Pietro Testa lucchese" (SALERNO [1960], I, n. 106; DANESI SQUARZINA [2001]). Tale descrizione viene ripetuta nei successivi inventari Giustiniani del 1667, 1680, 1684, 1757, in quanto sono tutti copia di quello del 1638; nell'inventario del 1793, redatto ex novo da Pietro Angeletti, troviamo invece la seguente descrizione: "92. Altro di palmi 7.5. per traverso, rappresentante la Rachele quando aveva rubbato gl'Idoli al Padre, del Posino, con Cornice come sopra", sostanzialmente ripetuta nell'inventario del 1802, dal VASI [1804], p. 346, dal DELAROCHE [1812], n. 140, dal LANDON [1812], pp. 47-49, fig. 21. Ritengo che quest'ultima sia l'esatta iconografia del dipinto, anche se metodologicamente saremmo portati a dare maggior credito all'inventario più antico. Chi compilò l'inventario del 1638, forse in mancanza di un'indicazione precisa, riconobbe nel dipinto l'episodio de I fratelli di Giuseppe inseguiti dall'inviato di Giuseppe stesso, detto anche La coppa ritrovata nel sacco di Beniamino (Genesi, 44), probabilmente perché tale soggetto aveva avuto un'ampia diffusione nell'arte dei secoli XV e XVI (PIGLER [1956], vol. I, p. 85) mentre l'episodio di Labano che cerca gli idoli è diffuso soprattutto a partire dal XVII secolo (PIGLER [1956], vol. I, p. 62; KIRSCHBAUM [1971], vol. III, p. 491, II/2). La confusione è stata possibile per la presenza, in entrambe le iconografie, di un uomo, accompagnato dal suo seguito, che fruga nei bagagli di una carovana. Nel primo caso si tratta dell'inviato di Giuseppe che cerca la preziosa coppa nascosta nel sacco di Beniamino (Genesi, 44), nel secondo Labano cerca nei bagagli di Giacobbe gli idoli che sua figlia Rachele gli ha sottratto prima di partire (Genesi, 31). Nel dipinto di Potsdam, vediamo infatti sulla destra Rachele seduta sul basto del cammello sotto il quale ha nascosto i teraphim, le statuette delle divinità domestiche che ha sottratto alla casa paterna; vicino a lei un bambino, verosimilmente il piccolo Giuseppe. Nell'iconografia de I fratelli di Giuseppe..., al contrario, non compaiono solitamente, secondo il racconto biblico, figure di donne e di bambini. Sembra quindi probabile che il Testa abbia voluto raffigurare nel dipinto per Vincenzo Giustiniani proprio la storia di Labano, Rachele e Giacobbe, sia per l'evidenza iconografica, sia per il significato allegorico-spirituale che a tale episodio veniva tradizionalmente attribuito (Gregorio Magno, Moralium Libri, XXV, 72, in PL 76, 563-564, ripreso dalla Glossa ordinaria a Genesi, 31, in PL, CXIII, 158): nella figura di Labano si adombra il male, il mondo nella sua materialità; egli insegue Giacobbe, figura di Cristo, che ha sposato sua figlia Rachele, immagine della Chiesa sposa di Cristo, che, sedendo a terra umilmente, nasconde gli idoli, simbolo della concupiscenza terrena e dell'avarizia (Gregorio Magno, cit.). Il tema del dipinto, letto in parallelo con quello del suo pendant - la salvezza che viene dal Battesimo - può ben essere stato elaborato dall'artista in accordo con l'anziano committente, il marchese Vincenzo Giustiniani (nel 1635 ha 71 anni), che negli anni Trenta vediamo meditare, alla luce della fede cattolica, sulla fine della vita, sul senso delle azioni compiute, sul valore delle cose materiali, che pure in vita gli avevano procurato piacere. Nel 1631, infatti, redige il suo testamento, nel quale istituisce il fedecommesso, perché la sua collezione rimanga integra in sua memoria, ma nel quale stabilisce anche un gran numero di lasciti a istituzioni di carità (vedi schede A12, F1); nel 1636 aggiunge al testamento un codicillo nel quale affida al nipote Camillo Massimo i rami della Galleria Giustiniana, perché li consegni ai Governatori della famiglia Giustiniani di Genova, affinché da successive tirature traggano utili per i poveri della famiglia (DANESI SQUARZINA [2001]). Egli si esprime con le seguenti parole: "...havendo io fatta questa opera di far intagliare le cose della mia Galleria, messa e raccolta insieme per un humor peccante havuto di lunga mano con ispesa continuata più che mediocre [...] e conoscendo benissimo che questa spesa si poteva applicare ad altro uso più pio e più utile al prossimo, ho voluto in qualche parte supplire al mio mancamento...", facendoci percepire un possibile, sottile legame fra le statue della sua collezione, oggetti profondamente amati, ma "per un humor peccante" e gli idoli di Rachele. Un'opera col medesimo soggetto venne dipinta da Pietro da Cortona negli stessi anni (Bristol, City Art Gallery, inv. 40; BRIGANTI [1982], p. 210, n. 61, tav. 157, lo data al 1630-1635), forse proprio nel periodo in cui il Testa frequentò la sua bottega (1631-1632). Non ci sembra tuttavia di poter stabilire legami significativi tra il dipinto di Pietro da Cortona e quello di Testa (che tuttavia OTTIERI [1988] ha definito "sottilmente cortonesco"). Dal punto di vista stilistico il dipinto di Potsdam, come il suo pendant, appare "molto influenzato dallo stile giovanile del Poussin degli anni 1626-1631" rivelando inoltre "certe affinità coi quadri coevi del Castiglione e con le composizioni di Duquesnoy" (SCHLEIER [1989], pp. 309-310). Queste sono del resto le personalità artistiche con le quali il Testa era entrato significativamente in contatto nei primi anni del suo soggiorno romano. Nel suo Labano cerca gli idoli nascosti da Rachele notiamo il desiderio di cimentarsi con le contemporanee ricerche di Poussin: l'episodio biblico (o mitologico) interpretato in chiave filosofico-morale, il colorismo di ascendenza veneta, il paesaggio, che si perde in lontananza e conferisce alla scena un'atmosfera romantica. Un confronto significativo si può stabilire con il paesaggio di Teseo ritrova le armi del padre, di Poussin, datato proprio al 1633-1634 circa. Le figure di Rachele e di Giacobbe hanno una posa solenne, classica, certo elaborata dal Testa sulla base degli esempi dei marmi antichi, da lui a lungo riprodotti per la Galleria Giustiniana e per il Museo Cartaceo. Da ultimo vorrei notare la presenza del cane in primo piano, figura congeniale al Testa, se si confronta con i cani raffigurati in primo piano nel dipinto coevo Venere e Adone (Vienna, Akademie der bildenden Kunste; vedi anche, con lo stesso soggetto, l'incisione, Vienna, Kupferstichkabinett Albertina ed il disegno preparatorio, Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe), ma che forse può ancora una volta ricondurci al marchese Vincenzo, che amava far ritrarre i suoi cani preferiti ai pittori del suo entourage - vedi inventario del 1638, I, n. 3 (SALERNO [1960]; DANESI SQUARZINA [2001]): "Un quadro grande con Christo à tavola con due Apostoli in fractione panis con il ritratto della Cagna Dama dipinto in tela alta palmi tredici larga dieci incirca di mano di Nicolò Ranieri senza cornice" e I, n. 111: "Un quadro sopraporto con il ritratto della Cagna Filide della razza di Bertagna con un'Inglese che la tiene à Laccia dipinta in tela di grandezza de palmi 8. requadrati incirca si crede di mano di Gioacchino Sandrat pittor fiammengo senza cornice". (Luisa Capoduro)

Mosè davanti al Faraone - Battista Ruggieri
La prima citazione del Mosè davanti al Faraone risale al 1638, quando nell’inventario dei beni ereditari di Vincenzo Giustiniani è elencato un "quadro sopraporto di mezze figure, con l’historia della figlia di Re faraone che tiene Moisè putto nell’atto che si pose un carbone acceso di fuocho in bocca in presenza del medesimo Re faraone dipinto in tela alta palmi cinque larga 8. incirca si crede di mano di Giovanni Battista Ruggieri pittore Bolognese senza cornice" (SALERNO [1960], p. 146, n. 248). La completezza della citazione si rivela preziosa da un lato per stabilire un punto fermo nell’attività di Giovan Battista Ruggeri, il cui percorso resta per molti aspetti ancora sconosciuto e controverso; dall’altro, individuando nei protagonisti della scena Mosè bambino, la figlia del faraone e il re egiziano in persona, permette di chiarire con esattezza il soggetto, per altro piuttosto raro, derivato dalle storie dello Speculum Humanae Salvationis e assente invece nelle narrazioni più note e diffuse delle vicende del patriarca come l’Esodo o le Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio (RÉAU [1956], vol. II, 1, pp. 182-183). Si tratta infatti di un episodio generalmente poco rappresentato: giocando con il re, il piccolo Mosè fa cadere la corona e la calpesta, gesto che suscita l’orrore dei dignitari e la richiesta di mettere il fanciullo alla prova. Perché possa dimostrare di aver agito senza intenzioni sacrileghe, vengono portati a Mosè due piatti, uno pieno di carboni accesi e l’altro ricolmo di ciliege; scegliendo di mettersi in bocca un pezzo di carbone, che lo renderà balbuziente, il bambino dimostra l’innocenza contenuta nei suoi atti. Se la scena legata alla caduta della corona del faraone trova una certa diffusione nella tradizione iconografica, la raffigurazione della prova di Mosè rimane confinata ad un numero esiguo di esempi (PIGLER [1974], vol. II, pp. 94-96). Negli anni immediatamente precedenti al dipinto di Ruggeri il soggetto si ritrova però presso alcuni artisti genovesi che intrapresero il viaggio a Roma ed entrarono, con peso diverso, nelle grazie e nella collezione di Vincenzo Giustiniani. A Palazzo Bianco a Genova è conservata un’opera di Domenico Fiasella, protetto durante il soggiorno romano dal marchese, raffigurante la Prova di Mosè (NEWCOME SCHLEIER [1995], p. 47); probabilmente a Roma venne invece eseguito l’unico altro dipinto di questo soggetto riferibile ai primi trent’anni del Seicento, la Prova di Mosè oggi a Vienna, già attribuito al Fiasella (SUIDA [1922]) e assai dipendente dal quadro di Palazzo Bianco, ma da riferire in realtà ad un suo allievo, il meno noto Luca Saltarelli (WIEN [1991], p. 107). Anche quest’ultimo si giovò del rapporto con il Giustiniani, per il quale realizzò almeno un dipinto, la Crocifissione di S. Pietro, presente nell’inventario del 1638 (SALERNO [1960], p. 94, n. 6). Anche se non si può ipotizzare con certezza una conoscenza diretta degli esemplari genovesi da parte del Ruggeri o del Giustiniani stesso, la scelta di un soggetto così poco frequentato, l’impostazione sintetica della scena, in cui appare soltanto il piatto con i carboni, e l’atteggiamento protettivo della figlia del faraone, che cerca di sottrarre il bambino alla prova, rendono accostabili i tre dipinti. Sullo stesso canovaccio della leggenda a margine della Bibbia, Ruggeri costruisce una tela a mezze figure in cui emergono, come caratteri distintivi da un punto di vista stilistico, la lunga consuetudine con l’antico e l’ammirazione per la pittura classicista della sua epoca, tanto da giustificare le attribuzioni più tarde del dipinto, considerato all’inizio dell’Ottocento opera di Reni o di Poussin. Irrintracciabili, al momento, le altre due tele che Ruggeri aveva eseguito per il Giustiniani, una Storia di Anania (SALERNO [1960], I, 122) e una Natività (SALERNO [1960], II, 58), il dipinto di Potsdam è di grande importanza per la ricostruzione del percorso dell’artista poiché costituisce uno dei pochissimi punti fermi del suo catalogo. Delle opere eseguite dal Ruggeri a Roma ed elencate dal Baglione nella biografia dedicata al pittore bolognese ([1642], p. 361), molte risultano purtroppo non individuabili o distrutte (CAPPELLETTI [2000]). Fra quelle esistenti, i Santi nel sottarco della cappella Bonanni Primi in S. Caterina a Montemagnanapoli (BEVILACQUA [1993], pp. 69, 75, 80; CAPPELLETTI [2000]), databili alla fine degli anni Venti, mostrano una impostazione che, in raccorciato, rende scultoree le figure e potenti i loro gesti. Il contemporaneo affresco con la Natività, nel chiostro di S. Maria sopra Minerva, alquanto poco leggibile, lascia filtrare, oltre alla composizione ampia e monumentale della scena, il volto delicato e perfetto della Vergine, di chiara ispirazione reniana. Oltre a Domenichino, con il quale Ruggeri collaborò in varie occasioni ai suoi esordi romani (BAGLIONE [1642]; PASSERI [1773, ed. 1934, 1995]), Guido Reni appare un punto di riferimento decisivo per quello che resta dell’opera di Ruggeri: anche la figura della figlia del faraone nel quadro Giustiniani, che occupa la metà sinistra della scena, con la sua posa che rende solenne un gesto dettato dall’impeto, sembra improntata, nell’inquadratura di profilo e nella solennità del gesto, ai modelli reniani. L’impostazione a mezze figure della scena diventa, nell’allineamento dei protagonisti sul primo piano e nella presenza suggerita delle teste dei comprimari e degli astanti sullo sfondo, una costruzione improntata ai valori spaziali del bassorilievo, rendendo leggibile l’altro tratto distintivo della cultura pittorica di Ruggeri, oltre alla sua aderenza ai prototipi bolognesi: la familiarità con la scultura antica. Questa caratteristica era già sottolineata dal Baglione, che ne ricorda l’attività di disegnatore di marmi per i collezionisti romani. Istruito nel greco e nel latino (BAGLIONE [1642], p. 361; MALVASIA [1678-1769, ed. 1841-1844], p. 252), abile nella pratica del disegno, Giovanni Battista "disegnò molte cose per il Marchese Vincenzo Giustiniani, e ritrasse altre opere antiche per il Signor Cavaliere Cassiano dal Pozzo" (BAGLIONE [1642], pp. 360-361); la sua partecipazione alla Galleria Giustiniana (Ficacci in ROMA [1989], p. 290), l’impresa documentativa delle proprie collezioni varata da Vincenzo alla fine del secondo decennio, è stata ulteriormente precisata da recenti ritrovamenti documentari e arricchita da proposte attributive (DANESI SQUARZINA-CAPODURO [2000]). Considerate le difficoltà di definizione del catalogo, anche la datazione delle opere note di Ruggeri è piuttosto problematica; le già scarne notizie documentarie si arrestano al 1633, con il pagamento per gli affreschi nell’ospedale di S. Giovanni in Laterano commissionati da Valerio Santacroce (CURCIO [1979], p. 115, nota 45), lo stesso personaggio per cui l’anno precedente aveva eseguito due dipinti (SINISI [1963], p. 17). Solo di recente, inoltre, è stato possibile chiarire la data della morte dell’artista al 1633 (PERRI [in corso di stampa????]; DANESI SQUARZINA-CAPODURO [2000]). La padronanza compositiva della tela Giustiniani farebbe propendere per una sua datazione alla fase estrema della breve vita di Ruggeri, subito a ridosso delle tele eseguite nel 1632 per il marchese Santacroce, la Continenza di Scipione e David e Abigail, probabilmente da identificare con i due quadri ex Mattei oggi nella Galleria Nazionale di palazzo Barberini a Roma (F. Cappelletti in CAPPELLETTI-TESTA [1994], pp. 84, 122-123). Anche in queste due opere, nel consueto modulo a mezza figura, l’artista impagina prestiti da Domenichino e da Guido Reni e li affianca a presenze statuarie, mostrando una confidenza con l’antico ormai sedimentata. Sulle tracce degli altri pittori carracceschi, il Ruggeri si avviava alla ricerca, precocemente interrotta, di uno stile personale, attraverso una mediazione sofisticata fra la formazione bolognese e le esperienze romane. (Francesca Cappelletti)

La morte di Cicerone - Francois Perrier
Il dipinto fu eseguito per il marchese Vincenzo Giustiniani ed era situato, in origine, nella "quinta Stanza Grande", nota agli studiosi come "stanza dei filosofi" a causa della presenza, insieme a questa, di altre tre sopraporte rappresentanti scene di morti virtuose causate dall’esercizio della tirrania (KLEMM [1979], pp. 156-157). Delle quattro tele soltanto due sono sopravvissute alle vicende susseguitesi alla dispersione della collezione: la Morte di Seneca (inv. 1638, I, n. 156), dipinta da Joachim von Sandrart (fig. 1), e la Morte di Socrate (inv. 1638, I, n. 158) (fig. 2), opera del misterioso "Giusto fiammingo", furono distrutte durante l’incendio del Flakturm a Friedrichschain, Berlino; la Strage degli Innocenti (inv. 1638, I, n. 153) di Nicolas Poussin è oggi conservata presso il Musée Condé a Chantilly, mentre la Morte di Cicerone di Perrier è entrata a far parte, dopo l’acquisto del re di Prussia nel 1815 e dopo varie vicende, della raccolta del castello di Bad Homburg. Le circostanze relative alla commissione di questa presunta "serie" di dipinti sono, di fatto, sconosciute, per cui le ipotesi avanzate in merito dagli studiosi debbono essere considerate con estrema cautela. Delle quattro tele in questione, l’unica databile con certezza è la Morte di Seneca di Sandrart, firmata e datata 1635 (NICOLSON-VERTOVA [1990], vol. I, p. 169). In quest’ultima, i riferimenti antiquari utilizzati dall’artista per costruire l’iconografia dell’episodio rappresentato sono facilmente riconoscibili: si noti, in particolare, come il filosofo lasci sgorgare il sangue in un cratere decorato munito di maniglie laterali del tutto simile a quello riscontrabile in alcune composizioni rubensiane derivate dal cosiddetto Seneca morente di collezione Borghese (riprodotto dallo stesso Sandrart nelle Sculpturae veteris Admiranda, cfr. L. de Lachenal in ROMA [2000a], vol. II, p. 194, n. 10). Particolarmente complessa è la questione della datazione della Strage degli innocenti di Poussin in merito alla quale divergono in particolare le posizioni assunte da J. Thuiller e da E. Cropper. Il primo, infatti, propende ormai da tempo per una datazione molto precoce, intorno agli anni 1624-1625 e considera il dipinto come un primo sforzo dell’artista francese volto a conquistare il favore della committenza romana più influente (THUILLIER [1994]). La Cropper, invece, si è pronunciata nettamente contraria a tale ipotesi e ritiene che, per varie ragioni, il dipinto non poté essere eseguito prima del 1632 circa. Al di là della nota questione legata all’influenza del poema del Marino La strage degli innocenti (che tuttavia Poussin avrebbe potuto conoscere prima della pubblicazione effettiva, in virtù della propria amicizia con il letterato), la Cropper ritiene che il dipinto di Chantilly sia comunque da considerare in modo complementare alla esecuzione degli altri sopraporta componenti la serie delle "morti stoiche", a suo parere eseguita tra il 1632 ed il 1635 (CROPPER [1992b] e CROPPER-DEMPSEY [1996]). A queste posizioni critiche, va aggiunta quella esposta da Rosenberg e Prat in CHANTILLY [1994-1995]: i due studiosi ritengono che il dipinto non sia ispirato al poema del Marino e negano la validità di tale connessione come base per la datazione dell’opera. Al contempo, essi ritengono la proposta di Thuillier troppo precoce e, sulla base dell’affinità tra il disegno preparatorio conservato a Lille (fig. 3) (Musée des Beaux-Arts, ROSENBERG-PRAT [1994], n. 38) e i disegni eseguiti da Poussin per il Martirio di S. Erasmo (databili al 1627-1628), propongono una collocazione cronologica prossima al 1628. Altrettanto problematica appare la datazione della Morte di Socrate: l’identificazione del "Giusto Fiammingo" menzionato dall’inventario rimane, infatti, ancora irrisolta. Dopo la proposta avanzata da SALERNO [1960] di riconoscervi Giusto Sustermans, BODART [1970a], vol. I, p. 73, ha suggerito il nome di Josse de Pape (1618/1619-1646), giunto a Roma verso il 1635 e molto attivo come disegnatore nell’ambito dell’impresa della Galleria Giustiniana (Ficacci in ROMA [1989a], p. 289; su "Giusto Fiammingo" vedi anche NICOLSON-VERTOVA [1990], vol. I, p. 117). Sull’altro "Giusto Fiammingo" menzionato negli Stati d’anime e registrato come caduto vittima di omicidio per mano del pittore Cornelis Schut nel 1627, i dati a disposizione appaiono troppo scarsi per potere avanzare una valida ipotesi di identificazione (BERTOLOTTI [1880], pp. 110-111). HOOGEWERFF [1915], pp. 122-123, ha proposto di riconoscervi Joost uit den Haech, alias Schotsche Trommel (vedi anche HOOGEWERFF [1953], p. 138). Alla luce di quanto esposto appare evidente che anche per la Morte di Cicerone di François Perrier, non sussistono puntelli cronologici sicuri se non quelli relativi ai due soggiorni romani dell’artista. Il pittore risulta attivo a Roma in due momenti ben distinti: dal 1625 al 1629, quando è registrato come collaboratore di Lanfranco presso il cantiere della cupola di S. Andrea della Valle; e, successivamente, dopo un breve ritorno in patria, dal 1635 al 1645 (gli Stati d’anime attestano ininterrottamente la sua presenza presso la parrocchia di S. Lorenzo in Lucina, "in strada Serena", dal 1642 al 1648, cfr. MODESTINI [1995-1996], pp. 228 e ss.). È in questa seconda fase, caratterizzata sul piano stilistico da una forte influenza di Poussin e di Pietro da Cortona, che viene abitualmente collocata l’esecuzione del dipinto in esame (per l’attività romana di Perrier, vedi SCHLEIER [1968], [1972], [1989]). EBERT SCHIFFERER [1994], p. 106, ha proposto la data del 1635 circa. Tale datazione sarebbe in linea di massima coerente con l’unico pagamento sinora rinvenuto rispetto all’attività di Perrier come collaboratore della Galleria Giustiniana. Il 19 gennaio 1637 viene emesso un mandato di pagamento in suo favore per l’esecuzione di otto disegni di teste e due disegni di Madonne nonché per un intervento decorativo: "Et a di 19 Gennaio scudi dodici m.ta pag.ti a Frac.o Perier pittore per sua ricognitione d’haver dipinto sopra una tela un fregio per la Mad.a grande di Titiano per tenere in tapezzaria et per haver disegnato otto teste antiche, quattro d’huomini e quattro di femine e due Mad.ne, una del Cangiaso et l’altra di Ludovico Caracci, per far intagliar in rame" (GALLOTTINI [1998a], pp. 241, 268, n. 259). Sarebbe ragionevole, comunque, ritenere che l’artista abbia cominciato a collaborare all’atelier della Galleria prima del 1637: egli infatti eseguì almeno altre due tavole, tra cui il celebre Bacco con la tigre e una Ninfa (vol. I, tavv. 139, 142), entrambe firmate. È interessante notare che la natura della "ricognitione" menzionata dal pagamento succitato viene puntualmente confermata e chiarita dall’inventario del 1638, ove al numero II, 69, leggiamo: "Un quadro con una Madonna [copia della Madonna di Titiano che stà nella stanza grande de quadri antichi] con un freggio attorno di dui Angeli, che coronano la Madonna [fatto da Francesco Perier] dipinto in tela alta palmi 9. larga 6.Þ in circa [che si doveva tessere in tapezzaria d’ordine della bona memoria del Signor Marchese Vincenzo Giustiniani]". Una collocazione cronologica della Morte di Cicerone intorno alla metà del quarto decennio aiuterebbe forse la lettura del dipinto alla luce della produzione pittorica di Poussin degli anni 1633-1634. La composizione animata dell’opera, mitigata nel ritmo dalla scrupolosa ricerca antiquaria (si noti la derivazione diretta della fisionomia di Cicerone da esemplari scultorei classici, fig. 4) e dall’intento di variare la rappresentazione degli "affetti", denunciano la conoscenza diretta del pittore di Les Andelys. Va notato, tuttavia, che nel dipinto di Perrier l’azione si svolge con una concitazione ed un impeto che ricordano l’atroce violenza della Strage degli innocenti Giustiniani e del Martirio di S. Erasmo piuttosto che la raggelata compostezza di opere più tarde. Il dipinto va comunque messo in relazione con l’intensa attività incisoria praticata da Perrier nel corso del suo soggiorno romano: il 1638 è l’anno della pubblicazione della sua prima, fortunatissima, raccolta di stampe dall’antico: Segmenta nobilium signorum et statuarum que temporis dentem invidum evaserunt (vedi scheda n. ##). Non vi sono elementi sufficienti, a nostro parere, per ritenere che le quattro tele di tema stoico collocate nella "quinta stanza grande" del palazzo furono eseguite all’unisono, in un arco cronologico ristretto, a seguito di una commissione organica da parte del marchese Vincenzo Giustiniani. Le discrepanze relative alle dimensioni dei dipinti, nonché alla loro iconografia rendono difficoltosa tale ipotesi. È stato, peraltro, già osservato come, soprattutto per la Strage degli innocenti di Poussin, gli elementi di diversità riscontrabili costituiscano in tal senso un ostacolo oggettivo: la tela presenta, infatti, delle misure nettamente inferiori a quelle degli altri dipinti (palmi 7 ´ 8 secondo l’inventario corrispondenti ai cm 148,5 ´ 174,5 dell’opera, da confrontare con i palmi 8 ´ 10.Þ delle altre opere, corrispondenti a cm 171 ´ 215 per la tela di Sandrart, cm 174 ´ 243 per quella di "Giusto Fiammingo" e cm 180 ´ 245 per quella di Perrier), mentre la scelta del soggetto biblico appare, nonostante gli sforzi interpretativi in cui si sono cimentati gli studiosi, sostanzialmente aliena rispetto a quella ben più coerente degli episodi di soggetto storico illustrati dalle altre tre sopraporte. È innegabile, tuttavia, che alla base della commissione di questi dipinti vada riconosciuto l’interesse di Vincenzo Giustiniani per il neostoicismo europeo e per il pensiero di Giusto Lipsio (vedi il saggio di I. Baldriga sulla biblioteca del marchese). Fu, per esempio, proprio ad emulazione del noto filosofo che Giustiniani ed il suo amico Dirck van Ameyden si cimentarono nella redazione di "lettere" tematiche sui temi del bere, del mangiare, o dei cavalli (per le lettere scritte da Lipsio su questi stessi temi, vedi MORFORD [1991], p. 33; per gli scritti del marchese vedi il saggio di M.G. Aurigemma, infra). Il legame di profonda amicizia che legò i due personaggi, peraltro, sembra assai prossimo allo spirito del contubernium professato da Lipsio. Al di là dei forse più frequentati soggetti delle morti di Seneca e di Socrate (per altri esempi di tali rappresentazioni nell’ambito della pittura caravaggista, vedi NICOLSON-VERTOVA [1990]), quello della morte di Cicerone merita forse qualche considerazione ulteriore. L’iconografia del dipinto sembra esemplata sulla narrazione fornita da Plutarco nelle Vite parallele: perduto il favore di Ottaviano e avendo fallito il proprio attacco politico contro Antonio, Cicerone tenta di fuggire all’inevitabile morte prendendo la via del mare e rifugiandosi poi nella sua villa di Gaeta. Qui, l’oratore viene raggiunto dai sicari Erennio e Pompilio e, vedendoli arrivare, accetta eroicamente la fine: "La chioma sul capo era tutta arruffata, il volto disfatto dalle apprensioni di quelle giornate, così che molti si coprirono gli occhi, quando Erennio lo scannò: protese il collo fuori dalla lettiga e fu scannato. Aveva sessantaquattro anni. La testa e le mani con cui scrisse le Filippiche gli furono mozzate da Erennio per ordine di Antonio; Filippiche è il titolo che Cicerone stesso diede alle orazioni che pronunciò contro Antonio, e Filippiche si chiamano ancora oggi queste opere" (Plutarco, Morte di Cicerone, par. 47-48). Fedele alla tradizione letteraria, Perrier rappresenta il momento drammatico in cui l’oratore, conscio della morte imminente, tende la testa offrendosi ai carnefici. Sullo sfondo del paesaggio, è visibile una nave dalle vele spiegate. Non soltanto l’episodio della morte di Cicerone rientra nell’ambito delle tematiche care al neostoicismo europeo, ma la figura stessa dell’oratore e l’importanza delle sue opere, in realtà, ricorrono con insistenza negli scritti di Lipsio. In particolare, il contributo di Cicerone fu fondamentale per l’elaborazione del suo pensiero rispetto al valore dell’amicizia (MORFORD [1991], pp. 14-15). Inoltre, il filosofo fiammingo adottò l’ideale ciceroniano del "vir optimus", inteso come persona economicamente agiata di grande rispettabilità, destinata ad affermarsi nella compagine sociale (MORFORD [1991], p. 42), mentre le virtù politiche di "clementia" e "iustitia" celebrate da Cicerone appaiono tema fondante della Politica. A queste considerazioni andrebbe aggiunta la constatazione per cui taluni aspetti del pensiero di Cicerone, severo assertore nel De senectute della decadenza della società romana (NARDUCCI [1998], passim) nonché infaticabile sostenitore della superiorità della toga sulle armi (NARDUCCI [1998], p. 42), poterono apparire congeniali al Giustiniani, appartato quanto attento osservatore degli avvenimenti politici della sua epoca. La lettura degli scritti filosofici e dei discorsi di Cicerone veniva consigliata da Giusto Lipsio come attività cui dedicarsi quotidianamente, almeno un’ora al giorno (MORFORD [1991], p. 31). Non vi è dubbio che Vincenzo Giustiniani, appassionato conoscitore del mondo antico, abbia potuto votarsi agli studi auspicati dal Lipsio per i suoi allievi: nella sua biblioteca compaiono i testi di Tacito, di Svetonio, ma anche la Politica del filosofo fiammingo. (Irene Baldriga - Silvia Danesi Squarzina)

Agar confortata dall’angelo - Carel Philips Spierinck
Il dipinto era di incerta attribuzione; attribuito da PAILLET-DELAROCHE [s.d. (1808)], da DELAROCHE [1812], da LANDON [1812] a Nicolas Poussin, da POENSGEN [1935] a Laurent de La Hire. Pierre Rosenberg (oralmente nel 1992) aveva suggerito un riferimento al Romanelli. Pur essendo nota la sua appartenenza al gruppo di opere Giustiniani acquistate dal re di Prussia en bloc a Parigi, giunte a Berlino nel 1815, non era stata individuata la sua descrizione nell’inventario del 1638. Eppure era al nome di Carlo Filippo, indicato in quell’inventario, che Blunt aveva fatto riferimento per ricostruire la figura dimenticata di Spierinck (BLUNT [1960], p. 311, nota 11). Un confronto fra la tav. 69, vol. I della Galleria Giustiniana, firmata da Karel Philips Spierinck come disegnatore e da Michel Natalis come incisore, e la figura dell’angelo, che appare nel dipinto, ha fornito, per la vistosa somiglianza, una prima traccia orientativa; i pochi quadri noti dell’artista fiammingo, morto a Roma in giovane età (1639), di qualità forse leggermente inferiore, offrivano concrete affinità stilistiche nel modo di tagliare la composizione quasi al centro, con un albero in controluce, nel putto sdraiato in terra, circonfuso di chiarore, simile per tutto ad altri putti ebbri di scene bacchiche (vedi il Sileno ebbro, collezione Hunter-Blair, Blairquan), specialità della prima fase dell’artista, da ricollegare alla folgorante presenza del famoso gruppo di opere di Tiziano, portate a Roma dal cardinale Pietro Aldobrandini; va anche segnalato come il tralcio di edera, con piccole foglie disegnate in scuro, sia una specie di firma che Spierinck inserisce sempre nei suoi dipinti. Sulla base di queste considerazioni la tela, che si trova dal 1995 nei depositi del Neues Palais di Potsdam, a cui ho potuto accedere nel 1996 grazie alla amabilità di Gerd Bartoschek, è stata attribuita a Spierinck (DANESI SQUARZINA [1999b]). Dopo l’acquisto a Parigi il dipinto, approdato a Berlino, era stato trasferito a Potsdam in quanto considerato di importanza secondaria rispetto ad altri capolavori Giustiniani; con questa stessa motivazione era stata trasferita a Potsdam anche L’incredulità di S. Tommaso di Caravaggio; ciò si evince dalla lista del 1829, di cui Voss dava notizia (L1829, cfr. VOSS [1923]), studiata da Gerd Bartoschek (infra). La vicenda è ispirata alla Bibbia (Genesi 21,8-21): Agar, serva egiziana di Sara, moglie di Abramo, ha da quest’ultimo un figlio, Ismaele, che può essere l’erede di Abramo poiché Sara è sterile. Ma nonostante l’età avanzata Sara partorisce Isacco e in seguito ottiene che Agar venga allontanata; la donna attraversa il deserto e rischia di morire di fame e di sete, quando un angelo salva lei e il piccolo Ismaele. La storia è narrata con toni contenuti attraverso la mimica dei gesti; Agar indica con la destra il piccolo Ismaele nudo che dorme e porta la mano sinistra al cuore; l’angelo le indica la fonte d’acqua che li salverà; di lato l’otre vuoto di cui parlano le Scritture. La lezione di Poussin è raccolta e svolta con delicatezza di toni, con misurato rapporto tra luce e colore; in ottimo stato di conservazione, il dipinto testimonia la vivacità della cerchia di giovani nordici che gravitavano attorno al grande artista, non tanto in funzione di copisti quanto di devoto cenacolo; del resto la poca disponibilità a far replicare le proprie opere da altre mani traspare nelle lettere di Poussin a Chantelou in occasione della richiesta di una nuova serie dei Sacramenti. Qui indubbiamente Carlo Filippo si riscatta dalla etichetta di copista che può piuttosto essere data a un suo omonimo (vedi inventari Dal Pozzo, STANDRING [1988]; SPARTI [1990] e [1992], p. 218: "Settangolo con una vergine di Filippo Francese che imitava Monsù Posino"); il Riposo durante la fuga in Egitto di Budapest, che gli veniva attribuito, è stato restituito a Poussin (cfr. CIFANI MONETTI [1994]; ROMA [1998], p. 88, scheda 29). Per gli imitatori di Poussin vedi inoltre STERLING [1960] pp. 256-257. Egli mostra una buona qualità pittorica e desiderio di attuare quella che era una indicazione di Vincenzo Giustiniani, "…è necessaria l’erudizione dell’antichità, e l’osservanza di molte varie cose, tanto attinenti alle istorie e favole…", e quella che era una prassi di Poussin, nutrire la pittura di storia con i modelli offerti dalla statuaria antica; nel caso di questo dipinto il percorso dell’ispirazione fu breve e raccolto, circoscritto alle frequentazioni dell’artista, di cui, attraverso gli Stati delle anime e i versamenti all’Accademia di S. Luca, è ricostruibile la biografia; trasferito a Roma nel 1624, abita dapprima con altri fiamminghi presso Piazza di Spagna, poi si trasferisce nella parrocchia di S. Lorenzo in Lucina e diventa convivente di François Du Quesnoy, che a sua volta aveva abitato con Poussin in Strada Paolina; ebbe, sembra, a casa la piccola statua di Bacco, di collezione Giustiniani, restaurata da Du Quesnoy (è stato individuato il pagamento, DANESI SQUARZINA [1999b], GALLOTTINI [1998a], p. 264, n. 209: "Et a dì d. [8 dicembre 1635] scudi otto pag.ti a Michel Natale per haver intagliato in rame un disegno di Bacco antico che restaura Fran.o fiamengo per la Gallaria". Gallottini, a mio avviso erroneamente, riferisce il pagamento alla tav. 71, vol. I della Galleria Giustiniana, mentre ritengo corrisponda alla tav. 69 dello stesso volume); ciò ci riconduce alla tavola disegnata da Spierinck che fa da modello inequivocabile per il gestire, per il delicato disegno dei muscoli pettorali, il misurato contrapposto, i calzari all’antica, all’angelo che indica la fonte a Agar, ma ci porta anche alla piccola statua di Bacco riprodotta dal Visconti (VISCONTI [1885], n. 22), già in collezione Giustiniani, ora in collezione Torlonia grazie all’acquisto dell’intero gruppo di statue che costituiva la Galleria (e che nell’Ottocento, come dimostrato da C. Strunck in questo catalogo, era trasferito in una sala del palazzo Giustiniani prospiciente la Piazza della Rotonda). Attraverso l’individuazione dell’autore della Agar confortata dall’angelo e della genesi dell’opera è stato dunque possibile ricostruire un inedito restauro di Du Quesnoy. L’entità degli interventi, data la difficoltà di accedere alla statua, è valutabile attraverso l’incisione contenuta nel volume di Clarac (CLARAC [1850], testo, vol. IV, pp. 197-198, n. 1595B, tavole, vol. IV, tav. 678A) in cui una linea leggera delimita le zone di restauro. Il dipinto è databile alla metà degli anni Trenta del Seicento, ossia in prossimità del pagamento dell’incisione della tavola della Galleria Giustiniana disegnata da Spierinck. Spierinck muore soffocato a Roma, il 22 maggio 1639, e viene sepolto in S. Maria presso il Camposanto Teutonico; nell’atto di morte viene detto di trent’anni ma Bodart ha dimostrato che era nato intorno al 1600 (BODART [1970a] pp. 137-140; PINCHART [1877], pp. 304-315); i dipinti che doveva eseguire per la Sacrestia della chiesa di S. Maria dell’Anima non vennero mai consegnati; sue opere sono menzionate negli inventari dei mercanti Philips Baldescot e Peter Visscher (HOOGEWERFF [1913]; LORIZZO [1997-1998]). Nell’inventario dei suoi beni, redatto alla sua morte su richiesta di François Du Quesnoy e Jean Baptiste Cleissens, risultano opere incompiute, un Narciso, un Satiro, calchi in gesso della Colonna Traiana e "tre sacche di terra Santa", ASR, Notai del Tribunale della Sacra Rota, Uff. 2, vol. 30 (BERTOLOTTI [1880]; FRANSOLET [1941], p. 150-151). (Silvia Danesi Squarzina)

S. Gregorio Magno - Carlo Saraceni
Il dipinto proviene dalla collezione Torlonia, dove era considerato opera di Caravaggio (Gaspare Landi, inv. 1814, n. 434; Guattani in VENTURI [1896], inv. 1817-1821, p. 95, n. 15; VODRET [1994], pp. 348 e ss.). Le parole di Guattani, che ricorda la provenienza dalla galleria Giustiniani, attestano la considerazione di cui godeva il quadro, e: "Senza tema di errare asseriremo esser questo dipinto uno de’ maggiori sforzi di Michelangelo da Caravaggio. La sua solita forza, vibratezza ed effetto è questa volta così temperata, che mai fu questo autore così armonioso, delicato ed esatto. Se ne faccia pure il confronto e si vedrà che il suo S. Gregorio sorpassa quello del Sacchi nel Vaticano, né teme il paragone dell’altro che fu già in una cappella della chiesa di questo Santo sul Celio, opera simatissima di Annibal Carracci. Fece questo quadro altra volta uno de’ più insigni ornamenti della Galleria Giustiniani" (in VENTURI [1896], p. 95). L’assenza di citazioni del S. Gregorio negli inventari secenteschi della collezione Giustiniani ha indotto SALERNO [1960], p. 27, ad escludere l’illustre provenienza. Tuttavia la tela compare, con l’attribuzione a Caravaggio, nella camera del camino di casa Giustiniani, in un inventario ancora inedito compilato nel 1802, in ottemperanza alle disposizioni previste dall’Editto del cardinale Pacca (VODRET [1994], p. 96). I documentati rapporti, soprattutto economici, tra Giovanni e Giuseppe Torlonia e il marchese Vincenzo Giustiniani nei primi due decenni del XIX secolo, che portarono i Torlonia ad essere ad un passo dall’acquisizione dell’intera collezione di dipinti Giustiniani (vedi, in proposito, lo scambio di lettere tra Giovanni Torlonia e Vincenzo Giustiniani pubblicate in catalogo), confermano l’ipotesi di Guattani e consentono di riproporre, con fondamento, la provenienza di questo dipinto dalla collezione Giustiniani. È evidente tuttavia che il dipinto entrò a far parte della collezione Giustiniani in un’epoca successiva all’inventario di Vincenzo del 1638. Nei successivi inventari della collezione Torlonia la tela compare con un’attribuzione a Ignazio Stern, (inv. 1855, n. 102; inv. 1892, n. 102, in VODRET [1994], p. 408), che ha conservato anche dopo il suo ingresso nella Galleria Nazionale di Roma. L’attribuzione a Saraceni è di Longhi che ha proposto una datazione al secondo decennio del XVII secolo, in rapporto ai dipinti in S. Lorenzo in Lucina e S. Maria dell’Anima (LONGHI [1943], p. 23; LONGHI [1951], p. 85). L’attribuzione di Longhi, non condivisa da NICOLSON [1979], p. 289, MORASSI [1959], p. 276 e MOIR [1967], p. 83, è stata poi ripresa dalla GREGORI [1968], p. 415, che pubblica un’altra versione più tarda dello stesso soggetto, e dalla OTTANI CAVINA [1968], p. 114, che data il dipinto al 1617-1618. Nicolson, che nel 1979 accetta l’attribuzione a Saraceni, nel 1990 lo riferisce ad un imitatore italiano di Saraceni, forse in rapporto con un’opera perduta del pittore veneziano (NICOLSON [1979]; NICOLSON-VERTOVA [1990]). La rapidità esecutiva e vivacità della gamma cromatica sono stati probabilmente i motivi che hanno indotto a sostenere il nome di Saraceni. Tuttavia i confronti con opere sicure di questo artista (come la Madonna con il Bambino e S. Anna conservata nella stessa galleria) non sono perfettamente convincenti. In particolare sembrano estranei ai modi del maestro veneziano la lucida resa ottica dei particolari, elemento che aveva fatto pensare ad un pittore fiammingo, e l’inedita posizione del Santo, visto di spalle con una inusuale esaltazione di particolari come la nuca e l’ardito scorcio dell’orecchio, anch’essa diffusa in ambito fiammingo. L’innegabile impronta saraceniana della tela induce a ritenere che l’autore debba essere cercato nella cosmopolita, e ancora problematica bottega romana di Saraceni, che riuscì ad aggiudicarsi gran parte delle committenze pubbliche nel corso del secondo decennio del Seicento, fino al ritorno del maestro a Venezia nel 1619.
(Rossella Vodret)

Sacra famiglia - Domenico Cerrini
Ritenuta nei vecchi cataloghi opera di Giovan Battista Salvi, detto il Sassoferrato, questa Sacra Famiglia fu riconosciuta come lavoro del Cerrini per la prima volta da Voss nel 1924, e da lì ha mantenuto l'attribuzione. Si tratta di una composizione più volte replicata dal pittore; se ne conoscono infatti quattro versioni: due a Perugia, Galleria Nazionale e chiesa di S. Pietro, l'ultima ristretta al solo gruppo della Madonna con il Bambino, una nella chiesa dei SS. Mario e Cirillo a Pian degli Ontani, presso Pistoia, proveniente dalla collezione del Gran Principe Ferdinando de' Medici a palazzo Pitti, e questa di Potsdam. Nessuna delle varianti è databile con certezza, ma della versione di Pian degli Ontani è documentata la paternità al Cerrini attraverso l'inventario per autore dei quadri di palazzo Pitti, datato 1700-1710 circa (Guardaroba medicea 1185, c. 301, n. 294: BOREA [1978], p. 22). La più vicina al nostro quadro è la versione di Perugia, Galleria Nazionale, che si differenzia solo per alcune teste di cherubini in alto a destra. Il disegno andato in vendita a New York nel 1996, con il riferimento alla tela di Perugia, sembrerebbe proporre invece un confronto più puntuale con la Madonna di Pian degli Ontani, la cui posizione della mano sul seno è leggermente più bassa (CHRISTIE'S NEW YORK [1996]). Al di là delle differenze di formato e di sfondo, ininfluenti nel trattamento del soggetto, la variante più sensibile che presenta la tela di Pian degli Ontani rispetto alle altre versioni consiste proprio nel diverso atteggiamento della Madonna, protesa con un'attenzione materna tutta vera e realistica a controllare che il Bambino, rivolto verso il seno della madre, e non distratto dal S. Giovannino, prenda il latte. Ciò sembra indicare una prolungata riflessione del pittore sull'iconografia della Madonna Lactans, il cui culto aveva visto fin dai primordi della cosiddetta "Riforma cattolica" una rinnovata fortuna, e che era fervidamente praticato soprattutto dai Carmelitani (BONANI-BALDASSARRE BONANI [1995], p. 33), per i quali Cerrini era stato attivo in S. Maria della Vittoria a Roma e nel convento di Montecompatri tra il 1652 ed entro il 1660 (MIGNOSI TANTILLO [1990], p. 61). Questo piccolo gruppo di opere di analogo soggetto ha sempre trovato una difficile collocazione nell'ambito del corpus del Cerrini, ed è stato per lo più genericamente indicato come espressione della sua opera tarda, caratterizzata da una maggiore adesione ai modi reniani, da una maggiore severità e compostezza compositiva, da una predilezione per teneri cromatismi smaltati e per artificiosi grafismi soprattutto nei panneggi, in contrapposizione con le pale d'altare documentate agli anni Quaranta e con i dipinti che vi si possono accostare per ragioni stilistiche, ricchi di suggestioni dal Lanfranco e da Guercino, ma sensibili anche ai testi sacchiani e memori di stilemi roncalliani. La difficoltà di datazione aumenta in considerazione dell'esiguità dei punti di riferimento certi, e del fatto che il percorso stilistico del Cerrini non è univocamente delineato da tutta la critica. Borea ritiene di dover spingere la tela di Pian degli Ontani e le sue varianti, tra cui quella di Potsdam, ad un periodo ben avanzato rispetto al ritorno del Cerrini a Roma da Firenze, per la sua netta lontananza stilistica dal Mosè e Aronne dell'Accademia Petrarca di Arezzo, documentato al 1661 grazie ad un pagamento al Cerrini da parte del cardinale Leopoldo de' Medici, in cui il pittore perugino sembra prendere una netta posizione di austero classicismo rispetto al cortonismo imperante (BOREA [1978], p. 15; FORNASARI BISACCIONI [1993], pp. 270-272). Ma pur nell'evidente differenza di carattere ed atmosfera e di trattamento di ombre e panni, non vedo una cesura così netta tra i due momenti del Cerrini, in primo luogo perché anche nelle varie versioni della Maria Lactans il Cerrini non palesa concessioni al gusto cortonesco, ma si indirizza comunque su di un coté classicista, recuperando semmai le fonti bolognesi, in stretta osservanza reniana; secondo poi, perché concettualmente la tela di Potsdam è costruita in modo analogo a quella di Arezzo, entrambe tutte chiuse intorno alla "centralità perfetta dell'oggetto" (BOREA [1978], p. 15), che nel Mosè è il vaso con la manna, e nel quadro Giustiniani è il seno che dà il nutrimento al figlio di Dio. Il gioco degli sguardi, in continui rimandi dall'uno all'altro dei personaggi rappresentati, ma tutto circolare e chiuso all'interno della scena, priva di languide attitudini e di occhi estaticamente rivolti in punti esterni al quadro, è simile nelle due tele; ma più di ogni altro quadro noto del Cerrini, la tela di Potsdam è vicina al S. Pietro liberato dal carcere della galleria Pallavicini, genericamente indicato come del periodo tardo (ZERI [1959], p. 59, n. 136), nella compostezza delle pose, nella linea che unisce la spalla alla nuca rispettivamente della Madonna e dell'angelo, nel volto stesso dell'angelo e della Madonna, dal mento un po' sfuggente, dai capelli appena increspati da ondine bionde che coprono parte dell'orecchio, dal modo di far proseguire la sottile linea delle sopracciglia nell'ombra sfumata del naso, e ancora, nei panneggi rigonfi e autonomi, di volta in volta sostenuti in pieghe rotonde e scivolanti in rivoli e bordi ondulati, ma non ancora arricciati in movimenti innaturali. Gli stessi particolari del velo e dei capelli sono molto vicini ad un bel volto di Madonna conservata nell'Amherst College (SHAPLEY [1973], vol.III, p. 70, n. 1783). La tela di Potsdam, se eseguita, come è altamente probabile, a Roma, si potrebbe collocare subito dopo il soggiorno fiorentino con la relativa pausa perugina, intorno al 1662-1663. Non è comunque a mio parere da collocare in una data troppo avanzata, perché il movimento autonomo dei panneggi, che si articolano in ricci e volute artificiosamente mossi dal vento, non è ancora nel quadro di Potsdam portato alle estreme conseguenze come sarà invece nell'Apollo e la Sibilla Cumana di Berlino, da datare dopo il 1666, e nei quadri che gli sono stati avvicinati (SCHLEIER [1996]). Non si sa quando la Sacra Famiglia di Potsdam sia entrata a far parte della collezione Giustiniani, unico quadro di quest'autore nella raccolta romana. Nessuna Sacra Famiglia del Cerrini è infatti rintracciabile nell'inventario del 1638 della collezione di Vincenzo Giustiniani (SALERNO [1960]) e, come si è visto, gli elementi stilistici suggeriscono una data che supera di gran lunga non solo la morte di Vincenzo, ma anche quella del suo figlio adottivo ed erede fidecommissario, Andrea; la prima menzione che se ne fa negli inventari della famiglia è molto tarda, e risale al 1793. Si tratta di un quadro dal forte carattere devozionale, e con questo spirito sarà stato probabilmente acquistato in una data che rimane tuttora imprecisata. Non è però da escludere che un primo iniziale contatto con la famiglia Giustiniani possa essere avvenuto in virtù dei suoi lavori alla Chiesa Nuova, e in tal caso dovrebbe risalire agli anni Quaranta: al 1642-1643 è stata infatti datata l'Assunta del Cerrini per la Vallicella (WATERHOUSE [1937], p. 52; Barroero in BARROERO-SARACA COLONNELLI [1991], p. 133, n. 92), e in quegli anni era ancora vivo il cardinale oratoriano Orazio Giustiniani, documentato per il 1647-1649 come abitante nel palazzo di S. Luigi de' Francesi (DANESI SQUARZINA [1994], p. 385). Il dipinto fu poi acquistato nel 1812 a Parigi dal re di Prussia Federico Guglielmo III insieme agli altri pezzi della collezione Giustiniani, e dal 1829 entrò a far parte delle collezioni da esporre nei castelli reali; esibito nella galleria dello Schloss Sanssouci di Potsdam fino al 1930, fu successivamente conservato nei depositi e dal 1963 figura nuovamente nella quadreria.(Cecilia Mazzetti di Pietralata)

Cristo porta la croce al Calvario - Nicolò Musso
Ai nn. 163 e 164 dell’inventario di Vincenzo Giustiniani del 1638 sono elencati "Dui quadri grandi simili. Uno della Natività di Christo Nostro Signore e l’Angelo che annuntia alli Pastori di Lontano, l’altro di Christo che porta la Croce al Calvario, dipinti in tela, alta palmi 11 lar. 8 in circa senza cornice di mano di Francesco Casale" (SALERNO [1960], p. 102). Luigi Salerno riconosceva il Cristo porta la croce al Calvario in un’opera allora presso il palazzo già Giustiniani a Bassano di Sutri e identificava dubitativamente la Natività in un dipinto sul mercato antiquario proveniente da una collezione privata romana già ricondotto oralmente al Musso da Federico Zeri; su basi stilistiche indicava il loro autore in Nicolò Musso che identificava con il Francesco Casale citato nell’inventario, ritenendo di dover considerare "Casale" non come un cognome ma come la città di provenienza del pittore, mentre il nome Francesco doveva derivare da una confusione da parte del compilatore che in più di una occasione aveva mostrato delle incertezze. Tutta la critica è concorde nel riconoscere il Cristo porta la croce al Calvario, approdata nel 1990 alla Galleria Sabauda di Torino, come un’opera di Nicolò Musso proveniente dalla collezione Giustiniani, mentre alcune perplessità, dovute alla differenza tra le misure del Calvario e della Natività ora presso la Banca di Roma (inferiore di 40 cm di altezza e di 9 di larghezza) e alle diversità stilistiche, rendono incerta l’identificazione di quest’ultima con il dipinto descritto nella collezione romana (i primi dubbi sono sollevati dallo stesso SALERNO [1960], p. 102, poi dal MOIR [1967], vol. I, p. 267, vol. II, p. 65 e da ROMANO [1971], pp. 50-51, 57-58 nota 26 e [1990], pp. 16, 18, 26 nota 26, pp. 34, 45 note 10 e 13 che la ritiene un’opera eseguita dal Musso al suo ritorno a Casale, collocata in origine nella chiesa di S. Paolo e quindi passata nella collezione Mossi; sono invece favorevoli all’identificazione con la tela Giustiniani NICOLSON [1979], p. 76; LONDON [1985], pp. 53-55, n. 13; Bacchi in ROMA [1989c], pp. 37-38, n. II.6). Il Cristo porta la croce al Calvario si colloca all’inizio dell’itinerario di Nicolò Musso, pittore casalese con un percorso biografico ancora molto sfuggente, di cui si conoscono rare ma straordinarie opere (BAVA [1999b], pp. 193-237, con bibliografia precedente). Musso dovette lasciare ancora molto giovane la città natale dato che già nel 1607 risulta essere residente a Roma in Campo Marzio nella contrada degli Otto Cantoni (TERZAGHI [1999], pp. 35-38), nel cuore della vita artistica della città. Sappiamo ancora poco della sua attività romana - di cui il Cristo porta la croce al Calvario è l’unica opera certa - così come sono ancora da indagare le sue frequentazioni nell’Urbe che lasciò per tornare in patria prima del 1618, anno in cui è datata la pala della Madonna del Rosario in S. Domenico a Casale Monferrato (BAVA [1999b], pp. 208-217, con bibliografia precedente). Nell’affascinante ambiente di S. Lorenzo in Lucina saranno avvenuti i primi incontri tra Nicolò Musso e i protagonisti della Roma caravaggesca, con i quali egli poté confrontarsi da vicino nelle prestigiose sale di palazzo Giustiniani. La destinazione originaria dei due dipinti richiestigli dal marchese è ignota; si può però notare che il Cristo porta la croce al Calvario e la Natività riportano le stesse misure di altri quattro quadri elencati nello stesso ambiente del palazzo tutti dedicati a scene cristologiche: si tratta di due tele, che il compilatore dell’inventario riporta come opere credute dell’Albani, raffiguranti Cristo e la Cananea e la Samaritana al pozzo, e di due dipinti con Cristo che risana il cieco e Cristo che resuscita il figlio della vedova "di mano del Sarzana" identificati con due tele di Domenico Fiasella attualmente conservate al Ringling Museum di Sarasota, databili intorno al 1615 (Donati in GENOVA [1990], pp. 88-92; PAPI [1992], pp. 199-208; NEWCOME SCHLEIER [1995], pp. 41-44; CAPPELLETTI [1998], pp. 28-30, vedi schede nn.##). Non è da escludere che i sei dipinti facessero parte di uno stesso progetto decorativo comprendente anche altre tele distribuite nel 1638 in diverse stanze del palazzo, affidate da Vincenzo Giustiniani ad artisti vari nel corso del secondo decennio del Seicento, all’inizio del quale va riferita anche la Salita al Calvario. Giovanni Romano ha ipotizzato che appartenesse al ciclo anche la tela di Bartolomeo Manfredi oggi a Cremona con Cristo che appare alla madre dopo la resurrezione (che misura cm 257 ´ 178) (ROMANO [1990], p. 34; per il dipinto vedi scheda n. ###) e Massimo Pulini ha avvicinato alla serie anche la distrutta Moltiplicazione dei pani e dei pesci di Berlino giustamente attribuita a Giuseppe Vermiglio, già pubblicata dal Salerno come opera di Giacinto Campana (SALERNO [1960], p. 95, n. 12; PULINI [1993], p. 304 e p. 306, nota 11 e [1996], pp. 55-56; MORANDOTTI [1999], pp. 247-250; TERZAGHI [2000], p. 18 e p. 34, nota 17). La tela della Sabauda mostra un’adesione profonda di Nicolò Musso alla moderna pittura romana attraverso una rimeditazione dell’opera matura del Merisi. Ne sono sintomatici i rimandi quasi letterali ad alcuni tipi umani del Caravaggio: si vedano per esempio le affinità tra il volto del Cireneo (nel quale ROMANO [1971], p. 48 e [1990], p. 14 notava la possibilità di riconoscere tratti fisionomici affini a quelli di Vincenzo Giustiniani secondo l’immagine trasmessaci da un’incisione del Mellan) e la figura di Nicodemo nella Deposizione del Merisi alla Pinacoteca Vaticana. La somiglianza tra il volto del giovane dai lineamenti delicati e con i capelli scompigliati sulla fronte ritratto sulla sinistra del dipinto mentre guarda impietosito la Vergine piangente e l’autoritratto del Musso del Museo Civico di Casale Monferrato (forse eseguito negli anni romani), non lascia dubbi sul fatto che il giovane pittore, come il Merisi nel Martirio di S. Matteo, si sia voluto ritrarre nella pala Giustiniani (Barbero in MAZZA-SPANTIGATI [1995], p. 126; BAVA [1999b], pp. 217-220; TERZAGHI [1999], pp. 35-36). Musso appare debitore del Caravaggio anche per il timbro sentimentale e malinconico del volto dolente del Cristo con la fronte corrucciata, lo sguardo spossato verso la Veronica e le labbra socchiuse. Le analisi radiografiche effettuate sul dipinto durante il restauro condotto dal laboratorio Nicola d’Aramengo nel 1990 hanno rivelato una tecnica simile a quella del Merisi con l’assenza di un disegno preparatorio e la presenza invece di diversi pentimenti, tra i quali quello di maggior interesse riguarda il volto di Cristo, che nella prima stesura appariva ad occhi chiusi con un’espressione ancora più sofferente (NICOLA-AROSIO [1990], pp. 47-59). Dalle opere tarde del Caravaggio Musso sembra aver compreso che si può rinunciare all’integrità della figura umana e ne dà prova nella Veronica con il volto cancellato nell’ombra del quale si intuisce appena il profilo, a cui si contrappone il velo di un bianco purissimo e il candido panno sul quale si riflette l’ombra del braccio completamente oscurato. Nel modo di sintetizzare i volumi nella figura della Veronica e nel giallo avana del manto che cade con pieghe larghe e delicate Musso tiene ancora conto di Gentileschi, mentre nel rosso calcato dell’abito di Cristo e nel gesto dello sgherro che alza il braccio per frustare il Redentore Musso si ispira al Manfredi, richiamando l’analogo gesto fotografato nel Castigo di Cupido dell’Art Institute di Chicago e nella tela con Cristo che scaccia i mercanti dal tempio del Museo di Libourne. È probabile che tra questi e il pittore casalese ci possa essere stato un contatto, essendo entrambi sudditi del duca di Mantova, ma l’intima aderenza del Musso alla grammatica caravaggesca accomuna piuttosto le scelte del pittore a quelle di altri artisti come lo Spadarino che furono tra i più stretti e fedeli seguaci del Merisi. Nella prima produzione del pittore casalese è possibile però che alla traduzione fedele del verbo caravaggesco si contrapponesse qualche incertezza di maniera. Qualche limite appare evidente ancora nella tela della Galleria Sabauda in cui, alla scena principale in primo piano di matrice caravaggesca, fa da sfondo una composizione serrata (con un’attenzione all’ambientazione architettonica che Musso abbandonerà nelle opere successive) indice di reminiscenze manieristiche da parte del pittore. Come ha notato Giovanni Romano, il dipinto si appoggia per molti particolari alle note incisioni del Calvario di Dürer dei cicli della Piccola e della Grande Passione: ritorna in Musso la stessa composizione affollata, i personaggi a cavallo sullo sfondo che dialogano fra di loro, un’analoga posizione del Cristo spinto dagli sgherri e della figura del manigoldo in torsione in primo piano, e persino il dettaglio della Vergine piangente che porta il fazzoletto al viso per asciugarsi le lacrime (ROMANO [1990], pp. 33-34). Quest’ultimo particolare trova una citazione ancora più stringente nella figura di una delle Marie a sinistra del Calvario affrescato da Gaudenzio Ferrari in S. Maria delle Grazie a Varallo Sesia. È possibile che all’avvio della sua carriera Musso, oltre a prendere a modello incisioni nordiche, portasse con sé nella memoria ricordi delle opere gaudenziane presenti nel Casalese e non lontano dal Monferrato. Queste concessioni di Nicolò Musso nei primi anni della sua attività potevano non dispiacere anche ad un collezionista come Vincenzo Giustiniani che nella sua quadreria esponeva due dipinti attribuiti a Gaudenzio Ferrari (CANESTRO CHIOVENDA [1976], pp. 98-108; AGOSTI [1996], pp. 28-32). (Anna Maria Bava)

La predica di S. Vincenzo - Bernardo Castello. Roma, Chiesa di S. Maria sopra Minerva, cappella Giustiniani
La pala d'altare che decora la cappella Giustiniani era un'opera concordemente datata intorno al 1604, sulla base di quanto riferito dalle fonti. Secondo alcuni storiografi, a cominciare dal Soprani, con questo dipinto il Castello si rese noto ai romani durante il suo primo soggiorno documentato nella città papale (1604-1605) (SOPRANI [1674], p. 122; SOPRANI-RATTI [1768-1769], vol. I, p. 160; BALDINUCCI [1681-1728], vol. V, 1712, p. 288); secondo altri, la pala sarebbe stata inviata da Genova poco prima (BAGLIONE [1642], vol. I, p. 284; TITI [1763], p. 162). Si discostavano da tale cronologia Regina Erbentraut, che attraverso l'analisi stilistica era giunta a collocare l'opera intorno al 1584 (ERBENTRAUT [1989], pp. 69-73), e Silvia Danesi Squarzina (DANESI SQUARZINA [1996], pp. 94-121). Il recente restauro del dipinto (1998), compiuto da Rossano Pizzinelli per la Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Roma, sotto la direzione di Claudio Strinati, ha rivelato l'esattezza di questa datazione - 1584 - scritta in nero con numeri arabi sulla colonna sostenuta dall'angelo in alto a destra (fig. 1). La pala fu dunque eseguita a Genova poco dopo la morte del cardinale Vincenzo Giustiniani (1582), generale dell'Ordine Domenicano presso S. Maria Sopra Minerva, e titolare della cappella. Alla luce della nuova datazione, risulta più probabile che i committenti dell'opera fossero Pietro, Giuseppe e Giorgio, i congiunti del prelato che curarono la sepoltura (vedi epigrafe del monumento funerario sulla parete sinistra della cappella) piuttosto che il cardinale Benedetto Giustiniani, nipote di Vincenzo, come indicavano gli storiografi. Nel dipinto molte delle figure mostrano un chiaro intento ritrattistico: esse rappresentano, con evidenza, i membri della famiglia Giustiniani, tra i quali sono sicuramente anche i committenti; alla Danesi Squarzina si deve l'individuazione di alcuni di essi. La studiosa ha indicato nel volto del prelato in nero, alla destra del santo, la fisionomia del citato cardinale Benedetto, fratello del celebre collezionista Vincenzo; quest'ultimo è forse rappresentato nel giovane in primo piano a sinistra. Un personaggio di più sicura identificazione è il marchese Giuseppe Giustiniani, padre dei due fratelli, poiché il volto in primo piano a destra, dietro l'uomo con l'armatura, è identico al ritratto nel monumento funebre del marchese e alla stampa che reca la medesima effigie nella raccolta di incisioni che costituiscono la Galleria Giustiniana (DANESI SQUARZINA [1995], p. 100). Un'uguale fisionomia è riscontrabile anche in una figura dell'Adorazione dei Pastori di Baltimora (Walters Art Gallery), quadro di Bernardo Castello datato 1582 che, secondo Federico Zeri, è pervenuto alla collezione americana dalla collezione Massarenti. L'ubicazione del ritratto di Giuseppe Giustiniani al margine destro, nel luogo deputato al committente, indica invece che l'opera appartenne alla collezione di quest'ultimo. Essa è stata quindi identificata dalla Danesi Squarzina in una tela, citata al n. 85, nei due inventari inediti del cardinale Benedetto Giustiniani erede di quella collezione, resi noti dalla studiosa (DANESI SQUARZINA [1995], p. 101; DANESI SQUARZINA [1997], pp. 766-791; DANESI SQUARZINA [1998a], pp. 102-118). Bernardo Castello cominciò dunque a lavorare per i Giustiniani fin dal 1582 e, vista l'ampia attività ritrattistica del pittore, per la quale fu particolarmente stimato (SOPRANI [1674], pp. 119-121; SOPRANI-RATTI [1768-1769], vol. I, pp. 156-159), è plausibile la proposta recentemente avanzata dalla stessa studiosa di attribuirgli l'esecuzione di altre opere della cappella gentilizia romana: i due ritratti del cardinale Vincenzo e del marchese Giuseppe inseriti nei rispettivi monumenti funebri (DANESI SQUARZINA [1995], pp. 100-102). Del resto nella collezione del cardinale Benedetto, risulta dagli inventari, figuravano anche altri ritratti eseguiti dallo stesso pittore (DANESI SQUARZINA [1997], pp. 766-791; DANESI SQUARZINA [1998a], pp. 102-118). Vincenzo Giustiniani fece edificare la cappella gentilizia, a lui concessa in seguito alla nomina a cardinale, poco dopo il 1570. Poiché nello stesso luogo preesisteva un altare intitolato al santo domenicano Vincenzo Ferreri, la dedicazione della nuova cappella allo stesso fu quasi ovvia: egli era anche il santo protettore del prelato, che ne portava il nome. Meno ovvio è il soggetto, assai raro, che i committenti chiesero di realizzare nel dipinto, certamente suggerito dal fatto che la biografia del cardinale defunto aveva molte affinità con quella del santo. Vincenzo Ferreri, al centro della figurazione, è in atto di parlare ad un folto gruppo di persone che lo circonda, davanti all'imperatore Sigismondo, al papa Benedetto XIII e ai loro consiglieri. A destra si individuano i laici, a sinistra i religiosi: il pontefice e l'imperatore in primo piano sono le massime autorità che li rappresentano. Sullo sfondo si vedono due quinte architettoniche simmetriche e la facciata di un edificio di alessiana memoria. La scena terrena è sovrastata da un'apparizione divina, cui volge lo sguardo il santo predicatore, costituita dal Cristo giudice e da angeli recanti i simboli della passione. S. Vincenzo si adoperò con tutti i mezzi di cui disponeva e soprattutto con la predicazione, affinché la chiesa, disgregatasi con lo Scisma d'Occidente, tornasse a unificarsi. Durante il concilio di Costanza (1414-1418), convocato allo scopo di eleggere un nuovo e unico capo della Chiesa, il santo spagnolo profuse grande impegno per convincere il papa suo connazionale, Benedetto XIII, a rinunciare al soglio pontificio, come già avevano fatto per libera scelta o per imposizione gli altri papi scismatici Gregorio XII e Giovanni XXIII. A Perpignan si svolse nel 1416 un incontro tra il pontefice renitente, l'imperatore e il re Ferdinando di Castiglia, cui partecipò anche il Ferreri; poiché le trattative non ebbero successo, quest'ultimo pronunciò un discorso, rimasto celebre, davanti a cardinali, principi e allo stesso Benedetto XIII. La Erbentraut ritiene che la scena rappresentata da Bernardo Castello si riferisca a tale episodio (ERBENTRAUT [1989], p. 70). Le vicende biografiche del cardinale Vincenzo Giustiniani coincidono in molti punti con quelle del santo. Egli dedicò molte energie alla ricostituzione dell'unità della Chiesa messa in serio pericolo dalla Riforma protestante, prendendo parte ai lavori del concilio di Trento (1545-1563) nel corso del quale furono dichiarati eretici Lutero, Zwingli e Calvino, in analogia a quanto avvenne durante il concilio di Costanza, con la condanna per eterodossia di Hus, Wyclif e Girolamo da Praga. Come S. Vincenzo combatté l'eresia degli Albigesi e dei Catari attraverso la predicazione, così il cardinale contrastò il protestantesimo e contribuì a diffondere la religione cattolica attraverso l'invio dei missionari nei paesi in cui essa era sconosciuta. Infine, nel soggetto rappresentato dal Castello potrebbe scorgersi un riferimento indiretto ad un altro santo domenicano, Pio V Ghislieri (1566-1572), il pontefice cui il Giustiniani doveva la porpora, il quale ebbe un'impostazione politica assai simile a quella che assunse successivamente il cardinale. Il quadro realizzato da Bernardo Castello ha una figurazione complessa; l'impianto è ancora manieristico, ma anche rigorosamente simmetrico e ordinato, conforme alle tendenze della pittura religiosa di fine Cinquecento aderente allo spirito della Controriforma. Per questi aspetti, la Erbentraut inserisce il dipinto nella corrente artistica definita da Freedberg della Counter Maniera (ERBENTRAUT [1989], pp. 69-73; FREEDBERG [1971]). L'opera del Castello era stata oggetto di giudizi pesantemente negativi da parte della critica poiché, collocata nei primi anni del Seicento, risultava attardata, mentre ora, con una cronologia anticipata di vent'anni, è possibile rivalutarla a pieno. Bernardo si mostra, anzi, pittore aggiornato alla produzione artistica del tempo: a quella di Luca Cambiaso, del quale frequentava in quegli anni la bottega, a quella lombarda (guardando in particolare a Simone Peterzano) e a quella tardo-manieristica romana. Quest'ultimo è l'elemento più nuovo ed interessante emerso dal recente restauro, poiché contribuisce a confermare l'ipotesi di un soggiorno romano del Castello anteriore a quello documentato del 1604. L'intervento di restauro ha portato a un notevole recupero della cromia originale, ed è così riapparsa la ricca decorazione delle vesti del pontefice e dell'imperatore, in passato non visibile a causa delle vaste ridipinture e degli offuscamenti del colore nella parte inferiore del dipinto. La composizione del quadro ha uno schema analogo a quello del Martirio di S. Stefano di Giulio Romano. Bernardo conosceva bene quest'opera genovese poiché, poco prima di realizzare la pala Giustiniani, intorno al 1583, ne dipinse una copia per la chiesa di S. Giorgio dei Genovesi di Palermo. Il nostro pittore ricevette importanti commissioni dalla città siciliana, forse grazie a persone influenti come Sofonisba Anguissola e, in tempi successivi, ad un suo nipote molto ricco e potente, Gregorio, figlio del fratello Giovanni Battista, il miniatore. Secondo i risultati delle ricerche condotte da chi scrive, al conte Gregorio Castello, trasferitosi a Palermo nel primo Seicento, appartenne l'album di disegni oggi a palazzo Abatellis, a lui giunto forse attraverso il padre Giovanni Battista (GRUMO [1995], pp. 46-63). Si tratta di un'importante raccolta poiché in essa è conservata, insieme a numerosi disegni di scuola genovese, la serie, quasi completa, dei disegni preparatori che Bernardo Castello eseguì per l'edizione illustrata della Gerusalemme Liberata, stampata a Genova nel 1590 (BERNINI [1985] pp. 9-12; Bon di Valsassina in GENOVA [1985], n. 51). (Giovanna Grumo)

Decollazione di S. Giovanni Battista - Gerrit Van Honthorst
Il dipinto fu eseguito dal pittore olandese Gerrit van Honthorst nel 1618 per l’altare della prima cappella a destra della chiesa di S. Maria della Scala di Roma, come dimostrano alcuni pagamenti contenuti nei Libri Mastri del convento (BORSOOK [1954], p. 271; MEGNA [2001] con alcune precisazioni e rettifiche). La cappella, nei primi anni del Seicento, era appartenuta a Giovanni Battista Longhi di Fileto, maggiordomo del cardinale Tolomeo Gallio, il quale, morto nel dicembre 1610 e ivi sepolto, aveva lasciato disposizioni al suo esecutore testamentario, Maurizio Sanzio di Pontremoli, affinché essa fosse ornata e dedicata a S. Giovanni Battista, suo omonimo. La commissione del dipinto, in ogni modo, deve essere stata concepita e concordata dal committente in stretta relazione con i Carmelitani Scalzi della Congregazione di S. Elia che, con la protezione, tra gli altri, del cardinale Benedetto Giustiniani, avevano fondato il convento e la chiesa della Scala nel 1597, e che si erano sempre dimostrati attentissimi nella scelta delle opere da esporre nell’edificio, come dimostrano chiaramente i casi della Morte della Vergine di Caravaggio, rifiutata dai frati perché ritenuta indecorosa (BAGLIONE [1642]), e del Transito della Madonna di Carlo Saraceni, che doveva sostituire la tela del Merisi e che il pittore fu costretto a rifare per ben due volte prima di ottenere l’assenso dei religiosi alla sua collocazione nella cappella Cherubini. La scelta del pittore olandese quale esecutore della pala d’altare può essere stata verosimilmente compiuta di comune accordo tra Maurizio Sanzio, il frate Domenico di Gesù e Maria, priore di S. Maria della Scala dal 1614 al 1617 (LORIZZO [1995], pp. 160-162), e il cardinale Benedetto Giustiniani, insieme al fratello Vincenzo, primo importante referente di Honthorst a Roma, che deve aver svolto un ruolo determinante nel far ottenere una commissione pubblica al giovane pittore suo protetto. La prova del rapporto personale e della grande amicizia che legavano il frate carmelitano a Benedetto Giustiniani e ai suoi più stretti familiari è data da tre lettere del 1618, che ho rinvenuto presso l’Archivio di Stato di Roma (la corrispondenza di Benedetto Giustiniani è stata segnalata da Silvia Danesi Squarzina nel 1994. Vedi Fondo Giustiniani, busta 103; per la trascrizione completa vedi DANESI SQUARZINA [2001]), inviate al cardinale rispettivamente da Genova, Bologna e Firenze, nelle quali Domenico di Gesù e Maria si esprime in termini di grande affetto e stima nei suoi confronti affermando, ad esempio, nella lettera inviata da Genova il 12 luglio, "il travaglio e patimento della lontananza mi par partito fra li due con giuste portioni, se bene l’alleggerisce alquanto la particolare memoria che tengo di lei" e ancora "non mi scordo di pregare per il mio amatissimo cardinale, quale procurerò di rivedere quanto prima come hora lo risaluto insieme alli Compagni caramente e Monsignor Camillo, e li altri amici". La menzione nella lettera di "Monsignor Camillo", ovvero Camillo I Massimo, nipote di Benedetto, in quanto figlio di sua sorella Virginia andata in sposa ad Ascanio Massimo, è particolarmente interessante, a mio parere, anche in relazione al fatto che, nell’inventario dei beni di Camillo, redatto alla sua morte nel 1640, compaiono tre dipinti di Gerrit van Honthorst, tra i quali una "Santa Teresia" (DANESI SQUARZINA [2001], con la trascrizione completa dell’inventario a cura di Luisa Capoduro), identificata recentemente con un quadro in collezione privata romana (PAPI [1999], pp. 140-141). La devozione di Camillo verso la Santa carmelitana è testimoniata anche dalla presenza nella sua collezione di un’altra "Santa Theresia di rilievo". Che i rapporti tra il frate Domenico di Gesù e Maria e i Giustiniani fossero di reciproca stima e familiarità è, infine, ulteriormente provato anche dalla presenza nella biblioteca di Vincenzo dei Documenti e prattiche affettuose nella vita della perfettione Christiana del Padre Fr. Domenico di Giesù e Maria Carmelitano scalzo in 8° (sulla biblioteca vedi il saggio di Irene Baldriga in catalogo). Dal punto di vista iconografico il dipinto di Honthorst rispetta in pieno il principio del decorum tanto caro ai frati della Scala, raffigurando il martirio del Battista in un contesto scenico dove ogni attore ha un suo ruolo prestabilito: il carnefice sulla destra, col volto truce atteggiato per la circostanza, il Santo inginocchiato, ben composto e con le mani giunte, pronto al sacrificio mentre, sulla sinistra, Salomè e la fantesca assistono defilate alla scena; dall’alto, intanto, quasi fosse una macchina teatrale, ecco scendere l’angelo divino che sta per donare a Giovanni la corona del martirio. Il tutto si svolge in uno spazio architettonico, aperto alla luce artificiale di una fiaccola e di una lanterna, che costituiscono le fonti di illuminazione interne del dipinto, secondo quel procedimento tipico usato dall’artista in Italia che gli valse il soprannome di Gherardo delle Notti. La tela, proprio in virtù di questi "reflessi e sbattimenti" di lumi tipici anche di altre opere dell’artista come la famosa "Cena di Boffonarie" degli Uffizi descritta dal Mancini (MANCINI [1617-1621, ed. 1956-1957], vol. I, p. 258), fu particolarmente apprezzata dai suoi contemporanei suscitando anche le lodi di Bellori che, inserendo l’artista tra quelli che "hanno maggior nome" tra i pochi seguaci del Caravaggio a suo parere degni di nota, così si espresse descrivendo il dipinto: "Tutte le figure in bellissimo modo si rischiarano alla luce notturna, essendovi una vecchia che per far lume sporge avanti il braccio con una torcia, la quale illumina la spalla del Santo ignudo fino al petto col mantello rosso, e nella riverberatione, e forza del lume si tinge di rosso il volto crespo della vecchia stessa, essendovi appresso la figlia d’Herodiade in vago, e legiadro habito succinto di ballo, e col disco posato al fianco" (BELLORI [1672, ed.1976], p. 265). Il Lanzi, che di certo non amava i caravaggeschi, nella sua Storia pittorica d’Italia (LANZI [1789], vol. II, p. 139), ebbe parole di elogio per questo quadro a dimostrazione di una fama del pittore che rimase salda nel tempo come provano del resto anche le moltissime copie che ne furono tratte (JUDSON-EKKART [1999], p. 70) tra le quali va ricordata almeno quella del castello di Seneffe in Svizzera che sembrerebbe provenire direttamente dalla collezione Giustiniani (vedi Getty Provenance Index: Sale Catalogues Database). (Loredana Lorizzo) Note d’archivio Il dipinto che il pittore olandese Gerrit van Honthorst eseguì per la chiesa di S. Maria della Scala appare indirettamente connesso alla committenza di Benedetto Giustiniani; il cardinale, infatti, nell’ultimo lustro del Cinquecento, fu, insieme al cardinale Tolomeo Gallio, protector della Casa Pia - un istituto di accoglienza per donne "mal maritate", zitelle e penitenti fondato nel 1563 da Federico Borromeo durante gli anni di cardinalato trascorsi a Roma - sui cui terreni fu edificata, nel 1597, la chiesa carmelitana di S. Maria della Scala, grazie al favore (soprattutto economico) dei due cardinali (ASR, Carmelitani Scalzi, S. Maria della Scala, b. 38-39, c. 13). Benedetto Giustiniani svolse, inoltre, un importante ruolo di mediatore nel risolvere la questione del debito di 2050 scudi che i frati Carmelitani della Scala avevano contratto con la Casa Pia, consentendo che la transazione del denaro avvenisse attraverso i "banchi" del marchese Vincenzo. (Tommaso Megna)

S. Francesco - Artista vicino a Jusepe Ribera
Il dipinto, di sicura provenienza Giustiniani, corrisponde per formato e iconografia alla descrizione contenuta nell'inventario del 1638 ("Un quadro con una mezza figura d'un S. Francesco che tiene le braccia in Croce et una croce in mano dipinto in tela d'Imperatore senza cornice [di mano del Spagnoletti]", inv. 1638, I, n. 147), collocato in una piccola stanza con altri sette quadri, tutti dati allo spagnolo Jusepe de Ribera; vista la mediocre qualità del dipinto, l'attribuzione deve essere sottoposta a verifica; è stato già chiarito, in un errata corrige del 1998 e in una comunicazione orale a Erich Schleier, che il dipinto di Potsdam non corrisponde al S. Francesco citato nell'inventario della "Guardarobba" di Benedetto Giustiniani (inv. 1600, n. 36, cfr. DANESI SQUARZINA [1997]), per ovvi motivi di cronologia e di discordanze nella descrizione. L'incisione riprodotta in Landon (LANDON [1812], p. 131, fig. 62,3) e ora il dipinto qui esaminato e finora malnoto, attraggono l'attenzione degli studiosi per la coincidenza iconografica con il S. Francesco di Princeton, N.J., collezione Barbara P. Johnson. Il Santo stringe la croce nella mano destra, incrocia le braccia, ha le stimmate, sta in posizione eretta, frontale a tre quarti di figura e inclina la testa indietro, verso sinistra, arrovesciando gli occhi. Alla precisa affinità nel disegno compositivo non corrisponde una uguaglianza qualitativa; il dipinto Johnson ha un'autorità di gran lunga superiore e su di esso vedi BOLOGNA F. [1992], pp. 237-262, 310, scheda 29, 348 scheda 105, 357 nota 7, con bibliografia precedente. Il dipinto di Potsdam non sembra possa risolvere il problema dell'attribuzione del S. Francesco Johnson, da Ferdinando Bologna dato a Caravaggio secondo un'ottica non sproporzionata alla grande qualità dell'opera, che ha trovato seguito tra altri studiosi (Benedict Nicolson e Denis Mahon). Roberto Contini invece, infra, assume una posizione più favorevole all'attribuzione a Gentileschi formulata da una parte della critica. Certo la presenza nel S. Francesco del Neues Palais di un po' di paesaggio e di una vasta porzione di tela sopra la testa del Santo, che manca invece nel quadro di Princeton, lascia supporre l'esistenza di un prototipo che abbia fatto da modello a entrambi. Tuttavia, anche se molto più modesto dell'altro fulgido esemplare, il dipinto di Potsdam non può mancare di interessarci come tappa di percorsi e scambi fra stranieri, da Baburen a Ribera (vedi anche scheda D20) nella Roma del secondo decennio del Seicento. Se dobbiamo accogliere l'indicazione fornita dall'inventario, perlomeno come area di appartenenza, è utile rilevare che durante il soggiorno romano Ribera risulta attorniato da un folto gruppo di familiari e collaboratori, che abitano con lui in via Margutta: "[…] Giuseppe Riviera Valentiano Pittore / Giovanni suo fratello / Giovanni Coraldo di Saragozza / Giovanni Calvo di Saragozza / Pietro Maria da Valeriano italiano" - per gli Stati delle anime del 1615 e 1616, vedi Gabriele Finaldi in NAPOLI [1992], pp. 387-408 con bibliografia precedente e GALLO [1998], p. 330; vedi inoltre GALLO [1998], pp. 318-319 per l'inclusione di Ribera nella lista dei non comunicati e per quanto rileva Mancini (MANCINI [1617-1621, ed. 1956-1957], pp. 249-251) sulle sue presunte irregolarità nella pratica religiosa e la richiesta di un "non gravetur"; a questo proposito ritengo sia forse da considerare quanto scrive Milicua, NAPOLI [1992], p. 18 circa il padre del pittore, calzolaio "morisco" -. Nei temi trattati dallo Spagnoletto e quindi nella sua committenza, vi è un prevalere della religiosità degli ordini pauperisti, francescani, domenicani o consimili; ordini religiosi che erano più aperti verso gli artisti meno solidamente inseriti nel contesto della "ufficialità". Il dipinto si presenta notevolmente ingiallito, ma i Musei di Potsdam sono contrari alla asportazione delle vecchie vernici; per quanto è possibile vedere, ci sono analogie di tecnica pittorica sia con la cerchia di Baburen sia con quella di Ribera, più accentuate verso quest'ultima. È probabile che Ribera, giunto a Roma da poco, privo di notorietà ma già gravato da una piccola schiera di aiutanti, abbia ricevuto l'incarico di eseguire una copia di un S. Francesco di una certa importanza e l'abbia affidato a uno dei suoi; certamente i Giustiniani lo incoraggiarono e lo sostennero, dato il buon numero di opere ascritte allo Spagnoletto che risultano negli inventari (tredici dipinti) e che sono plausibilmente da circoscrivere al soggiorno romano 1613-1616. È probabile che qualcosa riemerga, dato che alcune di esse sono menzionate nell'inventario del 1793, e quindi ancora presenti nella collezione: fra esse da segnalare la "Disputa di Gesù nel Tempio" (inv. 1638, I, n. 146), palmi 9 ¥ 13 di larghezza, descritto in inv. 1793, I, n. 126, con attribuzione a Caravaggio; il "David con la testa di Golia" (inv. 1638, I, n. 174), tela d'imperatore di "mano di Spagnoletti", riappare in 1793, I, n. 173, con la stessa attribuzione al Merisi; solo il "S. Giacomo" (inv. 1621, n. 83, in coppia con un "S. Pietro", inv. 1638, I, nn. 145-146) è in 1793, I, n. 74 con attribuzione a Ribera. Forse l'opera era firmata, dato che la sua paternità non viene confusa con quella di altri autori (cfr. DANESI SQUARZINA [2001]). (Silvia Danesi Squarzina)

Mercurio e Cupido - François Du Quesnoy
Nell'équipe che lavorò alla Galleria Giustiniana, il fiammingo François Du Quesnoy occupa un ruolo di peculiare importanza: non soltanto egli disegnò il frontespizio della celebre raccolta di stampe, ma fu l'unico scultore moderno ad essere inserito, con una propria opera, all'interno della Galleria di statue antiche. Autore dell'incisione rappresentante il Mercurio e Cupido di Du Quesnoy fu Claude Mellan, che vi appose, con discrezione, le proprie iniziali ("C.M.G. inc.") riservando alla scritta "Fran.co du Quesnoy Brux.is sculptor fecit" l'intera lunghezza dello zoccolo lasciato in bianco (Galleria Giustiniana , vol. I, tav. 84). Probabilmente, Du Quesnoy fu introdotto a Vincenzo Giustiniani da Joachim von Sandrart per essere poi impiegato, almeno in un primo momento, come restauratore di antichità. Tracce dei suoi interventi sono state riconosciute da Olga Raggio nel Bacco seduto su una pantera del Metropolitan Museum di New York (Raggio in CROPPER-DEMPSEY [1996], pp. 317-318, n. 28) e da Silvia Danesi Squarzina nel Bacco di una collezione romana (vedi la scheda n. ####### di Silvia Danesi Squarzina su Agar consolata dall'angelo di Spierinck). Non è difficile immaginare come il proprietario di una delle collezioni di antichità più prestigiose dell'epoca, autore al contempo di un Discorso sopra la scultura, abbia potuto riconoscere con il suo occhio esperto l'abilità del maestro fiammingo; affascinato dalla vena classicista del suo scalpello, il Giustiniani volle offrirgli, così, la possibilità di esercitare al meglio il suo talento. Opere celebri come la S. Susanna, direttamente ispirata alla Donna Augustea (Galleria Giustiniana, vol. I, tav. 73), o il S. Andrea, elaborato a partire dal Giove presente nella stessa collezione (Galleria Giustiniana, vol. I, tav. 105), dimostrano come Du Quesnoy non si sia limitato a beneficiare degli incarichi affidatigli dal marchese, ma che sfruttò in pieno la possibilità di studiare da vicino la raccolta di antichità conservata nel palazzo. Il sostegno offerto dal marchese allo scultore, a volte, andò oltre il mecenatismo; così, quando Du Quesnoy si trovò in difficoltà finanziarie per realizzare il colosso di S. Pietro, Giustiniani accettò di anticipare 300 scudi come acconto per una statua rappresentante la Vergine con il bambino, che invece non fu mai realizzata (SANDRART [1675, ed. 1925], p. 233; FALDI [1959], pp. 60-62). Il Mercurio e Cupido fu senza dubbio la commissione più importante e stimolante del marchese a Du Quesnoy: creare una scultura che facesse da pendant ad un Ercole antico bronzeo dell'altezza di circa sessanta centimetri, replicandone il materiale e le dimensioni. L'invenzione così come il successo del Mercurio Giustiniani provano che Du Quesnoy riuscì a superare la sfida di questo confronto diretto con l'antico. Le due statue, poste su uno zoccolo d'ebano, furono presentate nella seconda stanza dell'appartamento che era stato del padre di Vincenzo, nel palazzo Giustiniani. Il Mercurio, in piedi e con il caduceo nella mano sinistra, si appoggia, con la destra, sul tronco di un albero, come lo descrive Bellori: "si volge e si piega indietro a riguardare un Amoretto che gli allaccia i talari al piede". Il soggetto della composizione, ispirato al Mercurio e Amore realizzato da Adrian de Vries per la fontana di Augsbourg (LARSSON [1967], p. 24), fu probabilmente suggerito a Du Quesnoy non dalla stampa di Kiliam del 1614, come è stato già proposto, ma dal committente stesso. Durante il suo viaggio nel Nord Europa del 1606, Giustiniani passò, infatti, da Augsbourg: nel Diario di Viaggio redatto da Bernardo Bizoni, vengono menzionate per ben due volte delle "fontane belle" (BIZONI [1606, ed. 1942], pp. 47-48). D'altro canto, a differenza di Adrian De Vries, che riprese il modello allora dominante del Mercurio di Giambologna, Du Quesnoy non ha rappresentato il dio nell'atto di prendere il volo, con il corpo teso verso il cielo. Il Mercurio Giustiniani disegna una curva semplice che si chiude in se stessa grazie al volgersi della testa e dello sguardo del dio verso Cupido. Questa attitudine calma e intima, senza dubbio ispirata al Meleagro di Dresda, attribuito a Francavilla (BIZONI [1606, ed. 1942], pp. 47-48), fa eco alla posa dell'Ercole posto a pendant. Alla forza virile di quest'ultimo, variazione dall'Ercole Farnese, il Fiammingo oppose il modello perfetto della grazia giovanile, l'Antinoo del Belvedere, modello conosciuto dallo scultore che lo aveva studiato in compagnia di Poussin (BELLORI [1672], p. 426). Se l'Ercole bronzeo della collezione Giustiniani è conservato a Villa Albani, si ignora invece la collocazione attuale del Mercurio e Cupido di Du Quesnoy e i critici esitano ad identificarlo con una delle sei repliche antiche oggi conosciute (Vaduz, collezione del principe Liechtenstein; Madrid, palazzo Reale; Madrid, collezione Thyssen-Bornemisza; Parigi, Museo del Louvre; Parigi, collezione privata; San Marino, collezione Huntington). Nel 1985 Raggio ha escluso l'esemplare Liechtenstein dal dibattito: menzionato nel 1658 nella collezione Liechtenstein con un Apollo e Cupido, anch'esso di Du Quesnoy ma non realizzato per il marchese Giustiniani, come il testo di Bellori aveva lasciato pensare, questo Mercurio e il suo pendant sarebbero stati commissionati direttamente dal principe Karl Eusebius Liechtenstein durante il suo viaggio in Italia nel 1636 (Raggio in NEW-YORK [1985], pp. 79-80 e Raggio in FRANKFURT [1986], pp. 152-154). Recentemente Cacciotti ha proposto di riconoscere il Mercurio Giustiniani nella statua del palazzo Reale di Madrid: l'opera, citata con l'Apollo e Cupido che gli fa ancora da pendant nell'inventario di Isabella Farnese del 1746, proverrebbe, secondo l'autore, dalla collezione Carpio, il cui inventario del 1682 menziona effettivamente un Mercurio "della mano del Fiammingo" (CACCIOTTI [1994], p. 188, n. 208). Tuttavia, non solo non si tratta della stessa opera, ma di due distinte versioni del Mercurio di Duquesnoy, come vedremo, e inoltre nessuna di esse può essere identificata con il Mercurio Giustiniani per ragioni cronologiche. L'inventario della famiglia Giustiniani indica, infatti, la presenza del Mercurio e Cupido a fianco dell'Ercole sino alla metà del XVIII secolo, come conferma, inoltre, la letteratura artistica contemporanea (BELLORI [1664]; BELLORI [1672]; ROSSINI [1693]; RICHARDSON [1722]; DE BROSSES [1740]; KEYSSLER [1751]). È allora possibile identificare il Mercurio Giustiniani con uno dei tre esemplari restanti per i quali non sussiste alcun documento d'archivio? Due fonti visive essenziali, e non indagate a sufficienza, permettono di apportare al dibattito elementi nuovi e decisivi. Contrariamente a ciò che si è sempre creduto, non esiste un modello del Mercurio di Du Quesnoy, ma due: il Mercurio Giustiniani, identificabile grazie all'incisione di Mellan, e quello che potremmo denominare Mercurio del Carpio, riprodotto in un disegno anonimo dell'album del marchese spagnolo (l'album del Carpio è conservato presso la Society of Antiquaries a Londra). Se queste opere grafiche sono a priori difficili da comparare, essendo le statue presentate con una diversa angolazione, il confronto con gli esemplari in bronzo permette di dimostrare che si tratta effettivamente di due tipologie simili, ma distinte. Come il Mercurio della collezione Liechtenstein e quello di Madrid, il Mercurio della collezione Huntington o, ancora, quello del Louvre corrispondono in ogni parte alla stampa di Mellan, cioè alla tipologia del Mercurio Giustiniani, e ciò persino nelle irregolarità caratteristiche dello zoccolo che l'incisore ebbe cura di evocare. D'altro canto, se si confrontano questi esemplari con il disegno della collezione del Carpio, si possono rilevare delle profonde differenze: la posizione della statua sullo zoccolo, spostata sull'estrema destra; le gambe poste da una parte e dall'altra del tronco; il piede destro appoggiato su un monticello; o ancora dei dettagli come la forte muscolatura, la testa allungata e la capigliatura appiattita sul cranio, il ramo del tronco, corto e più basso, il braccio di Mercurio piegato ad angolo retto o la manica del caduceo più corta. A questo secondo modello, elaborato probabilmente dallo stesso Du Quesnoy per adattarlo al nuovo pendant, l'Apollo e Cupido, corrispondono gli esemplari della collezione parigina e della collezione Thyssen-Bornemisza, due opere nelle quali è dunque impossibile riconoscere il Mercurio Giustiniani (questo problema sarà sviluppato nella monografia sull'artista attualmente in preparazione a cura di scrive). I due bronzi che restano in lizza, ossia quelli del Louvre e della collezione Huntington, non possono essere identificati con il Mercurio "gettato e fatto dal Sig.re Francesco fiamengo" per Giustiniani e devono essere considerati come delle opere tardive, come dimostra la bassa qualità della fusione e della cesellatura. Queste repliche testimoniano però il successo dell'invenzione di Du Quesnoy fino al XIX secolo e forniscono, esse sole, un'immagine esatta del gruppo come appare nella stampa di Mellan del quale hanno conservato tutti gli elementi compositivi. Il Mercurio e Cupido di Du Quesnoy dovette letteralmente affascinare il marchese Giustiniani: l'opera, infatti, appare come la rappresentazione stessa delle idee espresse dal collezionista nel suo Discorso sopra la scultura (GIUSTINIANI [s.d, ed. 1981], p. 67): lo scultore ha "con le proprie mani" dimostrato la superiorità della sua arte creando una statua degna di rivaleggiare con quelle degli Antichi ed è dunque riprodotta nella Galleria. Meno di due secoli più tardi, la paternità del bronzo sarà dimenticata in virtù della sua presenza nella celebre raccolta di stampe: sia nel Musée de sculpture di Clarac (CLARAC [1836-1837], vol. IV, tav. 659, n. 1519) che nel successivo Répertoire de la statuaire grecque et romaine di Reinach (REINACH [1897], vol. I, p. 364), il Mercurio Giustiniani è ormai rappresentato come un'opera antica. (Marion Boudon)

Testa di Fauno - Baccio Bandinelli
Nell'Ottocento il busto veniva generalmente assegnato a Michelangelo. L'attribuzione al Bandinelli, che fu proposta per la prima volta da Ernest Liphart nel 1912, si basava su osservazioni di carattere esclusivamente stilistico: "questo busto presenta il caratteristico collo rotondo, tipico delle opere del Bandinelli". L'accostamento del marmo al nome di Bandinelli venne successivamente accolto anche in alcune pubblicazioni dell'Ermitage. In realtà, va detto che le affinità riscontrabili tra il Fauno e altre opere del Bandinelli comportano per lo più considerazioni di carattere iconografico. Per esempio, la tipologia del viso ricorda quella della figura centrale del rilievo del Bandinelli rappresentante L'Ebbrezza di Noè (Firenze, Museo Nazionale del Bargello). Pertanto, è possibile che il busto sia opera di un allievo o di un imitatore dello scultore. Non vi sono, invece, dubbi in merito al fatto che in passato il busto dell'Ermitage venisse non soltanto considerato opera di Michelangelo, ma godesse di grandissima fama. Si ritiene che nell'Ottocento un'altra replica, anch'essa attribuita a Michelangelo, fosse conosciuta a San Pietroburgo. In base alla testimonianza dello scrittore russo Aleksej Tolstoj (1817-1875), la scultura, acquistata a Venezia dalla collezione Grimani da A. Perovskij prima del 1831, si trovava alla metà dell'Ottocento nella casa dei Buturlin (TOLSTOJ [1964], vol. IV, pp. 10, 62, 425). Recentemente, il marmo corrispondente alla testa del Fauno dell'Ermitage è stato ritrovato tra le sculture antiche del Museo del Louvre a Parigi. Un aspetto particolarmente interessante è quello dell'esistenza delle numerose copie e repliche con varianti realizzate sul modello del Fauno, in forma di bronzetti. Una di queste repliche è stata presentata nel 1988 presso Sotheby come una copia italiana del Seicento da un originale antico (Sotheby's. European Works of Art and Sculpture, 21 aprile 1988, lotto 134). Altre repliche, piuttosto simili al modello e attribuite a Massimiliano Soldani-Benzi sono conservate nella collezione Liechtenstein, Vaduz, mentre alcune sono passate attraverso le aste Christie's, 1988 e 1993 (Christie's Important European Sculpture and Works of Art, 20 aprile 1988, lotto 111; Christie's Important European Sculpture and Works of Art, 7 dicembre 1993, lotto 132). Esiste anche una copia del busto in piombo, di dimensioni maggiori dell'originale (altezza cm 69,2) (Christie's. European Sculpture, 7 luglio 1998, lotto 111). La presenza di tante repliche e copie conferma ulteriormente l'importanza del busto, oggi di proprietà dell'Ermitage. Purtroppo, non abbiamo notizie relative alla storia del busto prima del suo ingresso nelle collezioni dell'Ermitage, avvenuto nel 1912 come donazione del conte Pavel Stroganov. Secondo E. Liphart (LIPHART [1912]), che conferma lo scrupolo mostrato dal conte nei suoi acquisti di collezionista, il busto del Fauno sarebbe stato acquistato in occasione di una vendita all'asta nel palazzo Giustiniani a Roma, probabilmente alla fine dell'Ottocento. La provenienza Giustiniani del pezzo potrebbe essere confermata dal fatto che almeno altri due pezzi, oggi conservati presso la Reverenda Fabbrica di S. Pietro, sembrano avere compiuto un simile passaggio di proprietà. Si tratta dei due frammenti di affresco, rappresentanti i SS. Pietro e Paolo, menzionati già nell'inventario dei beni del cardinale Benedetto Giustiniani (1621), provenienti dai resti dell'antica Basilica di S. Pietro (DANESI SQUARZINA [1999a], con bibliografia). Nel 1913 i due pezzi furono segnalati dal Muñoz in collezione Stroganov, da dove poi passarono nelle raccolte del Museo Petriano (MUÑOZ [1913]). Va precisato che, alla metà dell'Ottocento, palazzo Giustiniani era divenuto sede della Legazione russa a Roma: nel 1845 vi soggiornò anche lo zar Nicola I (cfr. MAZZITELLI [2000]). È possibile che ciò abbia in qualche modo agevolato l'acquisto di alcuni pezzi superstiti della raccolta da parte di collezionisti russi. Infine, va segnalato che secondo quanto riferito da LIPHART [1902], p. 40 anche il dipinto, rappresentante un Ritratto di Doge e ora attribuito a Giovanni Bernardo Carbone (Museo dell'Ermitage, inv. 2474), fu acquistato alla vendita Giustiniani dal conte Grigorij Stroganov che nel 1893 lo donò a suo fratello Pavel (LENINGRAD [1976], p. 98). (Sergej Androssov)

IL TEMA DELL’ANTICO:

LA COLLEZIONE DI STATUE NELLE TESTIMONIANZE DEI CONTEMPORANEI

Rilievo con Cavaliere - Artista greco di ambiente fidiaco
Il barbato cavaliere, vestito con chitone e clamide, monta senza sella il suo focoso cavallo. L'artista ha reso con grande efficacia l'anatomia del corpo del cavaliere sotto il leggero chitone, il gioco di muscoli, vene e tendini sul braccio e sulla mano. Il volto è impassibile, immagine di serenità e consapevolezza. Il cavallo dal fiero portamento mostra, con la tensione dei muscoli, la sua irrequietezza. Il fascino della raffigurazione è proprio nel contrasto fra l'olimpica serenità del cavaliere e l'irrequieto animale. Lo stile del rilievo è sicuramente dipendente dal fregio del Partenone, tanto che nel periodo 1811-1880 circa si propose, da parte di vari autori, la sua appartenenza al fregio stesso (vedi il saggio di Luisa Capoduro, in questo stesso catalogo). Una volta chiarito che, per la diversità del materiale, questo non era possibile (KÖRTE [1879], p. 273, n.1), gli studiosi sono comunque stati concordi nell'evidenziare la presenza nel rilievo di un'aura fidiaca, dovuta probabilmente ad un maestro che aveva lavorato al cantiere del Partenone (RODENWALDT [1913], pp. 330-331; SCHILD-XENIDOU [1972], pp. 17-18, n. 17, con ulteriore bibliografia); lo Schefold (SCHEFOLD [1960], pp. 83-84, tav. 249) pensa ad un artista fortemente influenzato da Alkamenes; ritiene inoltre che il rilievo, che reca traccia della presenza di almeno un altro cavaliere, doveva fare parte di un monumento funerario pubblico voluto da una città della Beozia in onore dei caduti nella Guerra del Peloponneso; LANGENFASS-VUDUROGLU ([1973], p. 52) ritiene che, pur mancando prove per l'ipotesi formulata dallo Schefold, tuttavia si deve tener conto del fatto che raffigurazioni di due cavalieri, in Beozia come in Attica, sono note solo su rilievi votivi. Il recente ritrovamento ad Atene di una stele con un rilievo raffigurante cavalieri che combattono con soldati a piedi e con un'epigrafe, che elenca i nomi di cavalieri ateniesi caduti nella Guerra del Peloponneso, avvalora l'ipotesi che il rilievo vaticano facesse parte di un monumento analogo. (La stele è stata rinvenuta nel 1995, durante gli scavi per la realizzazione della metropolitana di Atene ed è stata esposta alla mostra The City beneath the City. Finds from Excavations for the Metropolitan Railway of Athens (ATHINA [2000]). Per l'ipotesi che i Giustiniani abbiano portato il pezzo direttamente dalla Grecia, vedi il saggio di chi scrive, in questo catalogo. (Luisa Capoduro)


Segmenta nobilium signorum et statuarum que temporis dentem invidum evaserunt Francois Perrier
Tra i volumi di incisioni di statuaria antica comparsi a Roma nella prima metà del Seicento, la cui edizione fu promossa nell’ambito di quei circoli antiquari che avevano come punto di riferimento personaggi come il marchese Vincenzo Giustiniani e Cassiano del Pozzo, uno dei più importanti fu sicuramente quello ideato e realizzato dal pittore e incisore francese François Perrier. Stampato a Roma e a Parigi nel 1638, esso fu significativamente intitolato dall’artista Segmenta nobilium signorum et statuarum que temporis dentem invidum evaserunt, a sottolineare che queste opere, anche grazie alla loro riproduzione, venivano in qualche modo sottratte al tempo che tutto divora, un concetto ribadito dall’artista anche nella scelta simbolica dell’immagine del Tempus vorax posta nel frontespizio. Attraverso queste raccolte di antichità si intendeva fornire agli artisti un repertorio di modelli dai quali trarre ispirazione per sostentare invenzioni formali e figurative (PICOZZI [2000], pp. 29-35) e il volume di Perrier soddisfaceva in pieno questa esigenza, tanto da essere ancora usato nelle Accademie nell’Ottocento (HASKELL-PENNY [1984], pp. 27-28); in esso erano contenute, infatti, cento stampe che riproducevano, spesso da più punti di vista, ottantatré statue antiche scelte tra i migliori esemplari conservati a Roma nelle principali collezioni di antichità. La sequenza delle incisioni forniva una scelta di modelli maschili (tavv. 1-53) - tra i quali compariva anche il Mosè di Michelangelo, unica opera moderna inserita nella raccolta - seguita da una scelta di modelli femminili (tavv. 54-86); vi erano poi illustrati i principali gruppi scultorei conosciuti all’epoca, ovvero il gruppo del Laocoonte, che apriva il volume, con un ruolo di dichiarazione programmatica verso il pathos (tav. 1), il gruppo della Niobe con i figli di Villa Medici (tav. 87) e, a conclusione dell’opera, il cosiddetto Toro Farnese (tav. 100). Dodici tavole erano infine dedicate alla tipologia della figura sdraiata (tavv. 88-99), che aveva il suo miglior modello nel tipo dell’Ermafrodito Borghese, una statua ellenistica che, venuta alla luce nel 1619 durante alcuni scavi nel giardino della chiesa di S. Maria della Vittoria, aveva subito suscitato grande scalpore e ammirazione. Della collezione Borghese erano riprodotte in tutto venti sculture, tra le quali comparivano il cosiddetto Seneca morente (tav. 14), la Zingara (tav. 67) e il Gladiatore (tav. 26), esempi tra i più studiati e copiati dell’epoca - si pensi solo ai molti disegni che Rubens trasse dalla statua del Seneca - dodici statue provenivano poi dalla collezione Ludovisi e gran parte delle altre dalla collezione Medici e da quella Farnese. Dalla collezione Giustiniani, che il Perrier ben conosceva per aver partecipato, come disegnatore, alla realizzazione del corpus della Galleria Giustiniana, furono tratte invece solamente tre sculture, il Faunus meditans (tav. 45) (fig. 1), la Minerva sospitatrix (tav. 54) (fig. 2) e la Vestalis (tav. 72) (fig. 3). Il Faunus riproduceva il tipo prassitelico del Satiro in riposo noto da molti esemplari, tra i quali quello del Museo Torlonia potrebbe verosimilmente identificarsi con uno di quelli appartenuti ai Giustiniani (GASPARRI [1980]), mentre la Minerva era la statua emersa nel corso di alcuni scavi condotti presso la chiesa di S. Maria sopra Minerva ed entrata in possesso del marchese Vincenzo che la considerava uno dei suoi pezzi più pregiati, tanto da utilizzarla come immagine di apertura della Galleria Giustiniana (Rausa in ROMA [2000a], vol. II, pp.193-194). La Vestalis o Hestia era, infine, un pregiatissimo pezzo in marmo pario, particolarmente apprezzato come modello del tipo femminile della peplophoros classica, tanto da essere riprodotto anche nel Museo Cartaceo di Cassiano del Pozzo (vedi scheda in catalogo). Alla statua guardarono molti artisti dell’epoca tra i quali Nicolas Poussin che, nel 1647 circa, la riprodusse nel foglio con Mosè che difende le figlie di Ietro, oggi conservato al Museo del Louvre di Parigi, e Pietro Testa, che la inserì, insieme alla Minerva, nell’acquaforte raffigurante il Liceo della Pittura, databile intorno al 1638. Se la scelta di riprodurre le due più importanti statue femminili della collezione serviva in un certo senso a sottolinearne la rilevanza nel contesto romano, la scelta del Faunus potrebbe essere letta come un omaggio al suo maestro Giovanni Lanfranco che proprio di questa scultura aveva eseguito il disegno preparatorio per l’incisione della Galleria Giustiniana. La raccolta di incisioni del Perrier si distingue dalle altre coeve soprattutto per una precisa scelta dell’artista di riprodurre le statue da un punto di vista non solo formale ma soprattutto pittorico; significativa appare, infatti, la scelta di inserire quasi tutte le sculture in uno sfondo paesaggistico o, addirittura, come avviene nel caso del gruppo dei Niobidi, di collocarle in un contesto ricreato ad arte per suggerire lo svolgersi di una narrazione mitologica in cui le sculture prendono letteralmente vita. Questo modo di reinterpretare il mondo classico in senso naturalistico il Perrier sicuramente lo aveva appreso, in un primo tempo, nella bottega del Lanfranco, con il quale aveva collaborato tra il 1625 e il 1629 agli affreschi della chiesa di S. Andrea della Valle (SCHLEIER [1968]), e successivamente nell’atelier di Simon Vouet, con il quale lavorò a Parigi nel 1631-1632 e delle cui opere fu anche un eccellente traduttore (ROMA [1991], pp. 41-42, 63-64). Importanza fondamentale nella formazione dell’artista ebbe poi la frequentazione di palazzo Giustiniani e la collaborazione con gli artisti francesi e fiamminghi che, sotto la guida del Sandrart, avevano partecipato, negli anni Trenta, all’edizione della Galleria Giustiniana; per questa impresa, il Perrier eseguì i disegni di otto teste antiche e di due Madonne, quella di Luca Cambiaso e quella di Ludovico Carracci, per i quali venne pagato il 19 gennaio 1637 (GALLOTTINI [1998a], p. 268). In relazione diretta con lo studio dell’antico in casa Giustiniani deve essere posto, infine, anche uno dei due dipinti che l’artista eseguì a Roma per il marchese Vincenzo, raffigurante la Morte di Cicerone, oggi conservato a Bad Homburg, ma che, in origine, era collocato nella "quinta Stanza Grande [...] che entra alla Lumaca" del palazzo di S. Luigi dei Francesi, che ospitava anche la Morte di Seneca di Joachim von Sandrart e la Morte di Socrate di Giusto Fiammingo (vedi scheda ###).
(Loredana Lorizzo)


JOACHIM VONN SANDRART

Marsia - Joachim von Sandrart
Il disegno non è vicino né all’incisione della Galleria Giustiniana di Cornelis Bloemaert (vol. I, tav. 60, fig. 5; il pagamento del rame della lastra è del 24 marzo 1634, cfr. GALLOTTINI [1998a], p. 257, n. 111) che si basa su Sandrart, né alla raffigurazione (fig. 6) incisa da Georg Waldreich, nella Teutsche Academie utilizzata due volte (Teutsche Academie I, 2, tav. B e II, 3, tav. m, cfr. SPONSEL [1896], p. 172, n. 72. Sandrart stesso parla della capacità di Waldreich proprio nella resa dell’"Anatomia" (Marsia): SANDRART [1675, ed. 1925], p. 254). Rispetto a queste incisioni la sanguigna di Sandrart non mostra correttamente né la gamba sinistra del satiro scorticato nella sua posizione piegata, né le due gambe legate al tronco; inoltre non è perfettamente visibile come il corpo è connesso con il tronco. Sandrart cerca di trovare la sua figura con numerosi e più volte ripetuti segni; sul foglio originale non gli riesce il braccio sinistro sollevato sulla testa e legato al tronco dell’albero ed ha incollato in questo punto un pezzo di carta, che mostra una versione più corretta. Il plinto, sul quale poggiano sia la figura che il tronco, è stato completamente tralasciato, ma a destra è visibile un pezzo di terreno coperto di erba. Il disegno suggerisce perciò non la raffigurazione di una scultura ma di una figura reale nella natura. L’incisione di Waldreich per la Teutsche Academie si avvicina molto, nella resa della figura, alla lastra di Sandrart per la Galleria Giustiniana; è però in controparte e sviluppa le indicazioni di paesaggio del disegno di Dresda aggiungendovi il plinto. Klemm vide uno stretto rapporto tra il disegno di Dresda e la presentazione della stessa scultura nel Sculpturae veteris admiranda di Sandrart del 1680, dove l’incisore era Richard Collin, questa volta a Bruxelles. I frammenti di testo cancellati sul pezzo di carta incollato fanno riferimento a questioni artistiche (è leggibile in alto a sinistra che tratta di controluce, "le jour contraire", in alto a sinistra e di altezza e proporzioni, "En la huteur et Proport[ion] in alto a destra); si tratta di comunicazioni tra il disegnatore e l’incisore. In ogni caso Sandrart aveva perfetta padronanza del francese, come lui stesso dichiara nella sua autobiografia (SANDRART [1675, ed. 1925], p. 27, dove asserisce che parlava bene anche il nederlandese e l’italiano). Il foglio per il formato appartiene al gruppo "dei disegni da taccuino", anche se sembrerebbe essere stato creato più tardi per la libertà del disegno e per il segno pittorico. Lascia qualche dubbio l’insicurezza nella resa della posa corretta; ci si domanda se il disegno sia stato realizzato alla fine del soggiorno romano, magari in fretta prima della partenza, oppure dopo, sulla scorta del ricordo. (Sybille Ebert Schifferer)

Sileno con l’otre di vino - Joachim von Sandrart
Il formato del foglio, l'inserimento in una nicchia e la combinazione di tratteggi interni relativamente precisi con un tratto molto libero nella resa della nicchia, del cane e del ceppo collocano questo disegno all'interno dei "disegni da taccuino". Sandrart qui rimane fedele per il suo disegno preparatorio all'incisione di Johan Comin nella Galleria Giustiniana (vol. I, tav. 138), ma riduce il formato e completa il gruppo con uno spazio architettonico, questa volta una nicchia (cfr. cat. F4.2). (Sandrart doveva inviare il suo disegno per l'incisione per la Galleria all'incisore a Napoli; il 27 aprile 1633 ottenne il denaro per pagarlo, GALLOTTINI [1998a], p. 245, p. 253, n. 49.) Il disegno di Dresda venne utilizzato per la tavola "n" della Teutsche Academie incisa da Richard Collin (fig. 4). (Sybille Ebert Schifferer)

Apollo con la pelle di Marsia - Joachim von Sandrart
Sandrart aveva eseguito il disegno, preparatorio per l’incisione di Theodor Matham della Galleria Giustiniana (vol. I, tav. 59), pagata il 28 dicembre 1633 (GALLOTTINI [1998a], p. 256, n. 90), rappresentante la statuetta, oggi conservata a Villa Albani (?) e la raffigura di nuovo su questo foglio, scegliendo lo stesso punto di vista e gli stessi effetti di luce e di ombra, ma senza il plinto. Così come per il disegno F4.7 ha accennato un contesto paesaggistico e ha completato la statua con requisiti scenici, come la lira di Apollo. Come nel caso del disegno della scheda F4.4, la tavola I nel terzo libro della seconda parte della Teutsche Academie segue fedelmente l’incisione della Galleria Giustiniana e di conseguenza un disegno perduto di Sandrart, la riduce di formato e completa con elementi, che suggeriscono un ambiente naturale, come indicati nel disegno. La carta è quella raffinata dei "disegn da taccuino"; il foglio mostra una filigrana con una corona, che però non risulta identificabile. (Sybille Ebert Schifferer)

Polimnia ("Sabina") - Joachim von Sandrart
Il foglio è stato palesemente tagliato in un secondo momento e incorniciato con inchiostro nero, infatti sono visibili al margine destro cinque righe di testo, probabilmente di mano di Sandrart. Servì come originale per la tavola "u" della seconda parte della Teutsche Academie, che non è contenuta in tutti gli esemplari e reca l'indicazione "Sabina nel Palazzo del principe Giustiniani". Il foglio di Dresda si attiene strettamente ad un'incisione realizzata da Claude Mellan presumibilmente da un disegno di sua mano (Galleria Giustiniana, vol. I, tav. 73), ne condivide infatti sia il punto di vista che gli effetti luministici (Ficacci in ROMA [1989a], n. 95). Il plinto è così sfumato che sembra parte del terreno circostante, su cui, dal portico di un maestoso tempio a destra, esce la figura femminile, sullo sfondo di un arco di trionfo in rovina. Il rapporto di Sandrart con Mellan è difficile da chiarire. Sandrart, nella sua biografia su Mellan, ha sostenuto che questi ha, senza eccezioni, inciso da suoi originali ("Vincentii Justiniani Galleria zu Rom, die ich meist auf Papyr samt allen Statuen in folio gezeichnet, deren viel er [Mellan] zu Kupfer gebracht". In italiano: La Galleria di Vincenzo Giustiniani, che io ho disegnato in folio su carta con tutte le statue, delle quali molte egli [Mellan] ha portato su rame: SANDRART [1675, ed. 1925], p. 260. Cfr. su questo EBERT SCHIFFERER [1994], p. 104), cosa questa negata energicamente già da Mariette (Ficacci in ROMA [1989a], p. 39). Le più recenti ricerche su Mellan hanno rovesciato il rapporto, presupponendo però un ingresso di Sandrart nella cerchia Giustiniani posteriore a quanto attesta il Busto di Omero (Ficacci in ROMA [1989a], p. 116). A ciò si può obiettare che Sandrart, sin dagli inizi del suo soggiorno romano, intratteneva stretti rapporti con il gruppo degli artisti stranieri che vivevano nei dintorni di via Margutta, a cui anche Mellan apparteneva (EBERT SCHIFFERER [1994], p. 97). Finora i primi pagamenti noti per incisioni su rame a Mellan sono del 1631 e non risulta da altri pagamenti ricevuti che egli abbia inciso da disegni preparatori di altri artisti (GALLOTTINI [1998a], p. 238, p. 240, p. 250, n. 3. I diversi pagamenti a Mellan, verificabili sino al 1636, che Gallottini pubblica, si riferiscono unicamente a incisioni su rame e solo raramente dicono qualcosa sugli autori dei disegni preparatori). Proprio la lodata capacità di Mellan di trasformare l'antico "in una sembianza vivente e sensibile" (ROMA [1989a]) è in contrasto con le incisioni un po' compassate di Sandrart, ma non con i suoi disegni, dove è evidente la preoccupazione di suggerire effetti pittorici. È inoltre chiaro che la Polimnia di Mellan si distingue dalla maggior parte delle sue incisioni per la Galleria Giustiniana per una resa del capo meno tozza, per la rinuncia alle occhiaie compatte per lui così caratteristiche e per una tecnica di tratteggio incrociato molto raffinata (questo aspetto risulta particolarmente evidente se si confrontano le illustrazioni di particolari della Polimnia di Mellan e del suo Ercole in ROMA [1989a], pp. 40, 41), per cui questa incisione è stilisticamente vicina al foglio di Sandrart. Infatti questo disegno, che coerentemente va inserito nel gruppo di quelli qui presentati, fa pensare ad una possibile influenza di Sandrart su Mellan. In ogni caso nell'incisione per l'Academie Sandrart ha indicato se stesso come disegnatore. (Sybille Ebert-Schifferer)

Erma di Omero - Joachim von Sandrart
Per il formato, lo stile e il tipo di carta utilizzata, il disegno appartiene al gruppo dei cosiddetti "disegni preparatori per incisioni" (vedi saggio di Ebert Schifferer infra) ed è probabilmente l’unico conservato a Dresda di quelli che vennero realizzati per la Galleria. Va certamente collocato nella prima fase di elaborazione, poiché riprodotto nello stesso formato avrebbe riempito l’intera pagina. Soltanto in una seconda fase di realizzazione della Galleria, infatti, si dovette decidere di disporre i busti ritratti su un’unica pagina in coppie e dunque di ridurne la grandezza, sicché il disegno di Sandrart divenne inutilizzabile e fu possibile per l’artista tenerlo con sé. L’Omero nella Galleria Giustiniana venne disegnato e inciso da Anna Maria Vaiani insieme ad un altro busto, posto in basso sulla medesima pagina (vol. II, tav. 33,1). Per questo incarico l’autrice venne pagata il 28 giugno 1632 (GALLOTTINI [1998a], p. 250, n. 12). L’interpretazione della Vaiani si avvicina talmente al disegno di Sandrart da far supporre che ella se ne sia ispirata direttamente. La scultura rappresentata è probabilmente identica al Ritratto di Omero oggi conservato nella Stanza dei Filosofi dei Musei Capitolini (PICOZZI [1995], p. 99; PICOZZI [1996], p. 62 e nota 14). Insieme con il busto di Sofocle (vedi ROMA [2000a], vol. II, p. 612, n. 2), noto nel XVII secolo come Pindaro Giustiniani, la testa venne più volte riprodotta in bronzo in età barocca, probabilmente quando ancora si trovava nella collezione di Vincenzo Giustiniani (PICOZZI [1995], in part. p. 106 e PICOZZI [1996], p. 64). Per la datazione, oggi purtroppo non più chiaramente leggibile, il disegno di Dresda deve considerarsi un’opera chiave per comprendere l’accessibilità della collezione Giustiniani e per collocare cronologicamente il rapporto di Joachim von Sandrart con il suo mecenate. La datazione "1629", riportata da Sponsel, non è oggi più verificabile; il margine del foglio è tagliato e l’ultima cifra sembra uno 0 o un 6. Poiché il 1626 in ogni caso non va neanche preso in considerazione in quanto è dimostrato che Sandrart è a Roma solo dal 1629, e il 1630 è fuori discussione in quanto la penultima cifra è chiaramente un 2, non resta per il momento che fidarsi del fatto che l’ultima cifra fosse molto meglio leggibile prima della fine del secolo, quando Sponsel la vide. Sandrart fece incidere la Testa di Omero per la Teutsche Academie (vol. I, 3, tav. 107) da Bartholomäus Kilian in un formato più piccolo e per ciò non direttamente da questo disegno. È probabile che anche in questo caso Sandrart, contrariamente a quanto presuppone Sponsel, abbia approntato un nuovo disegno di dimensioni ridotte. (Sybille Ebert Schifferer)

Le tre Grazie - Joachim von Sandrart. Roma, Chiesa di S. Maria sopra Minerva, cappella Giustiniani
La pala d'altare che decora la cappella Giustiniani era un'opera concordemente datata intorno al 1604, sulla base di quanto riferito dalle fonti. Secondo alcuni storiografi, a cominciare dal Soprani, con questo dipinto il Castello si rese noto ai romani durante il suo primo soggiorno documentato nella città papale (1604-1605) (SOPRANI [1674], p. 122; SOPRANI-RATTI [1768-1769], vol. I, p. 160; BALDINUCCI [1681-1728], vol. V, 1712, p. 288); secondo altri, la pala sarebbe stata inviata da Genova poco prima (BAGLIONE [1642], vol. I, p. 284; TITI [1763], p. 162). Si discostavano da tale cronologia Regina Erbentraut, che attraverso l'analisi stilistica era giunta a collocare l'opera intorno al 1584 (ERBENTRAUT [1989], pp. 69-73), e Silvia Danesi Squarzina (DANESI SQUARZINA [1996], pp. 94-121). Il recente restauro del dipinto (1998), compiuto da Rossano Pizzinelli per la Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Roma, sotto la direzione di Claudio Strinati, ha rivelato l'esattezza di questa datazione - 1584 - scritta in nero con numeri arabi sulla colonna sostenuta dall'angelo in alto a destra (fig. 1). La pala fu dunque eseguita a Genova poco dopo la morte del cardinale Vincenzo Giustiniani (1582), generale dell'Ordine Domenicano presso S. Maria Sopra Minerva, e titolare della cappella. Alla luce della nuova datazione, risulta più probabile che i committenti dell'opera fossero Pietro, Giuseppe e Giorgio, i congiunti del prelato che curarono la sepoltura (vedi epigrafe del monumento funerario sulla parete sinistra della cappella) piuttosto che il cardinale Benedetto Giustiniani, nipote di Vincenzo, come indicavano gli storiografi. Nel dipinto molte delle figure mostrano un chiaro intento ritrattistico: esse rappresentano, con evidenza, i membri della famiglia Giustiniani, tra i quali sono sicuramente anche i committenti; alla Danesi Squarzina si deve l'individuazione di alcuni di essi. La studiosa ha indicato nel volto del prelato in nero, alla destra del santo, la fisionomia del citato cardinale Benedetto, fratello del celebre collezionista Vincenzo; quest'ultimo è forse rappresentato nel giovane in primo piano a sinistra. Un personaggio di più sicura identificazione è il marchese Giuseppe Giustiniani, padre dei due fratelli, poiché il volto in primo piano a destra, dietro l'uomo con l'armatura, è identico al ritratto nel monumento funebre del marchese e alla stampa che reca la medesima effigie nella raccolta di incisioni che costituiscono la Galleria Giustiniana (DANESI SQUARZINA [1995], p. 100). Un'uguale fisionomia è riscontrabile anche in una figura dell'Adorazione dei Pastori di Baltimora (Walters Art Gallery), quadro di Bernardo Castello datato 1582 che, secondo Federico Zeri, è pervenuto alla collezione americana dalla collezione Massarenti. L'ubicazione del ritratto di Giuseppe Giustiniani al margine destro, nel luogo deputato al committente, indica invece che l'opera appartenne alla collezione di quest'ultimo. Essa è stata quindi identificata dalla Danesi Squarzina in una tela, citata al n. 85, nei due inventari inediti del cardinale Benedetto Giustiniani erede di quella collezione, resi noti dalla studiosa (DANESI SQUARZINA [1995], p. 101; DANESI SQUARZINA [1997], pp. 766-791; DANESI SQUARZINA [1998a], pp. 102-118). Bernardo Castello cominciò dunque a lavorare per i Giustiniani fin dal 1582 e, vista l'ampia attività ritrattistica del pittore, per la quale fu particolarmente stimato (SOPRANI [1674], pp. 119-121; SOPRANI-RATTI [1768-1769], vol. I, pp. 156-159), è plausibile la proposta recentemente avanzata dalla stessa studiosa di attribuirgli l'esecuzione di altre opere della cappella gentilizia romana: i due ritratti del cardinale Vincenzo e del marchese Giuseppe inseriti nei rispettivi monumenti funebri (DANESI SQUARZINA [1995], pp. 100-102). Del resto nella collezione del cardinale Benedetto, risulta dagli inventari, figuravano anche altri ritratti eseguiti dallo stesso pittore (DANESI SQUARZINA [1997], pp. 766-791; DANESI SQUARZINA [1998a], pp. 102-118). Vincenzo Giustiniani fece edificare la cappella gentilizia, a lui concessa in seguito alla nomina a cardinale, poco dopo il 1570. Poiché nello stesso luogo preesisteva un altare intitolato al santo domenicano Vincenzo Ferreri, la dedicazione della nuova cappella allo stesso fu quasi ovvia: egli era anche il santo protettore del prelato, che ne portava il nome. Meno ovvio è il soggetto, assai raro, che i committenti chiesero di realizzare nel dipinto, certamente suggerito dal fatto che la biografia del cardinale defunto aveva molte affinità con quella del santo. Vincenzo Ferreri, al centro della figurazione, è in atto di parlare ad un folto gruppo di persone che lo circonda, davanti all'imperatore Sigismondo, al papa Benedetto XIII e ai loro consiglieri. A destra si individuano i laici, a sinistra i religiosi: il pontefice e l'imperatore in primo piano sono le massime autorità che li rappresentano. Sullo sfondo si vedono due quinte architettoniche simmetriche e la facciata di un edificio di alessiana memoria. La scena terrena è sovrastata da un'apparizione divina, cui volge lo sguardo il santo predicatore, costituita dal Cristo giudice e da angeli recanti i simboli della passione. S. Vincenzo si adoperò con tutti i mezzi di cui disponeva e soprattutto con la predicazione, affinché la chiesa, disgregatasi con lo Scisma d'Occidente, tornasse a unificarsi. Durante il concilio di Costanza (1414-1418), convocato allo scopo di eleggere un nuovo e unico capo della Chiesa, il santo spagnolo profuse grande impegno per convincere il papa suo connazionale, Benedetto XIII, a rinunciare al soglio pontificio, come già avevano fatto per libera scelta o per imposizione gli altri papi scismatici Gregorio XII e Giovanni XXIII. A Perpignan si svolse nel 1416 un incontro tra il pontefice renitente, l'imperatore e il re Ferdinando di Castiglia, cui partecipò anche il Ferreri; poiché le trattative non ebbero successo, quest'ultimo pronunciò un discorso, rimasto celebre, davanti a cardinali, principi e allo stesso Benedetto XIII. La Erbentraut ritiene che la scena rappresentata da Bernardo Castello si riferisca a tale episodio (ERBENTRAUT [1989], p. 70). Le vicende biografiche del cardinale Vincenzo Giustiniani coincidono in molti punti con quelle del santo. Egli dedicò molte energie alla ricostituzione dell'unità della Chiesa messa in serio pericolo dalla Riforma protestante, prendendo parte ai lavori del concilio di Trento (1545-1563) nel corso del quale furono dichiarati eretici Lutero, Zwingli e Calvino, in analogia a quanto avvenne durante il concilio di Costanza, con la condanna per eterodossia di Hus, Wyclif e Girolamo da Praga. Come S. Vincenzo combatté l'eresia degli Albigesi e dei Catari attraverso la predicazione, così il cardinale contrastò il protestantesimo e contribuì a diffondere la religione cattolica attraverso l'invio dei missionari nei paesi in cui essa era sconosciuta. Infine, nel soggetto rappresentato dal Castello potrebbe scorgersi un riferimento indiretto ad un altro santo domenicano, Pio V Ghislieri (1566-1572), il pontefice cui il Giustiniani doveva la porpora, il quale ebbe un'impostazione politica assai simile a quella che assunse successivamente il cardinale. Il quadro realizzato da Bernardo Castello ha una figurazione complessa; l'impianto è ancora manieristico, ma anche rigorosamente simmetrico e ordinato, conforme alle tendenze della pittura religiosa di fine Cinquecento aderente allo spirito della Controriforma. Per questi aspetti, la Erbentraut inserisce il dipinto nella corrente artistica definita da Freedberg della Counter Maniera (ERBENTRAUT [1989], pp. 69-73; FREEDBERG [1971]). L'opera del Castello era stata oggetto di giudizi pesantemente negativi da parte della critica poiché, collocata nei primi anni del Seicento, risultava attardata, mentre ora, con una cronologia anticipata di vent'anni, è possibile rivalutarla a pieno. Bernardo si mostra, anzi, pittore aggiornato alla produzione artistica del tempo: a quella di Luca Cambiaso, del quale frequentava in quegli anni la bottega, a quella lombarda (guardando in particolare a Simone Peterzano) e a quella tardo-manieristica romana. Quest'ultimo è l'elemento più nuovo ed interessante emerso dal recente restauro, poiché contribuisce a confermare l'ipotesi di un soggiorno romano del Castello anteriore a quello documentato del 1604. L'intervento di restauro ha portato a un notevole recupero della cromia originale, ed è così riapparsa la ricca decorazione delle vesti del pontefice e dell'imperatore, in passato non visibile a causa delle vaste ridipinture e degli offuscamenti del colore nella parte inferiore del dipinto. La composizione del quadro ha uno schema analogo a quello del Martirio di S. Stefano di Giulio Romano. Bernardo conosceva bene quest'opera genovese poiché, poco prima di realizzare la pala Giustiniani, intorno al 1583, ne dipinse una copia per la chiesa di S. Giorgio dei Genovesi di Palermo. Il nostro pittore ricevette importanti commissioni dalla città siciliana, forse grazie a persone influenti come Sofonisba Anguissola e, in tempi successivi, ad un suo nipote molto ricco e potente, Gregorio, figlio del fratello Giovanni Battista, il miniatore. Secondo i risultati delle ricerche condotte da chi scrive, al conte Gregorio Castello, trasferitosi a Palermo nel primo Seicento, appartenne l'album di disegni oggi a palazzo Abatellis, a lui giunto forse attraverso il padre Giovanni Battista (GRUMO [1995], pp. 46-63). Si tratta di un'importante raccolta poiché in essa è conservata, insieme a numerosi disegni di scuola genovese, la serie, quasi completa, dei disegni preparatori che Bernardo Castello eseguì per l'edizione illustrata della Gerusalemme Liberata, stampata a Genova nel 1590 (BERNINI [1985] pp. 9-12; Bon di Valsassina in GENOVA [1985], n. 51). (Giovanna Grumo)

Minerva Giustiniani - Joachim von Sandrart
La statua, probabilmente la più famosa fra quelle di proprietà di Vincenzo Giustiniani, sia tra i suoi contemporanei che fino al XVIII secolo inoltrato, fu disegnata e incisa da Anna Maria Vaiani (frontalmente) per aprire la serie delle sculture nel primo volume della Galleria Giustiniana (vol. I, tav. 3) (Musei Vaticani, Braccio Nuovo; cfr. HASKELL-PENNY [1982], pp. 269 e ss., n. 63; ROMA [2000a], vol. I, pp.193 e ss., n. 9. SPONSEL [1896], p. 147, n. 61 cita sì le due illustrazioni della Teutsche Academie ma non il disegno di Dresda; l'autore stesso relativizza, p. 75, la sua ipotesi, per altro errata, che si tratti di un'incisione di traduzione più piccola dalla Galleria Giustiniana). La scultura è ripetuta una seconda volta nella tav. 9, questa volta da un disegno di Sandrart inciso da Reiner van Persyn. Il disegno di Dresda appartiene però, per il formato e per lo stile, al gruppo dei "disegni da taccuino". Sandrart utilizzò la statua, incisa da Melchior Küsell (Sandrart cita Melchior Küsell nella sua biografia degli artisti tedeschi e fa riferimento espressamente all'incisione della Minerva: SANDRART [1675, ed. 1925], p. 254) per la tav. "s" del secondo libro della prima parte della Teutsche Academie (fig. 2), e di nuovo, incisa da Richard Collin, per il frontespizio al terzo libro (fig. 3). Se l'incisione di Collin si avvicina moltissimo al disegno nei dettagli come, ad esempio, nella resa lievemente nervosa del panneggio e nel particolare del manico del giavellotto spuntato in basso, quella di Küsell, proprio negli stessi particolari, semplifica ampiamente, in qualche caso addirittura rettificandone la linea. Infatti sembra che Küsell utilizzò, per realizzare la sua incisione, la stampa di Collin e non il disegno di Sandrart, perché se quest'ultimo fosse stato poi il diretto originale, sarebbe stato reso eccezionalmente non in controparte. È significativo che Sandrart abbia inserito l'incisione più dispendiosa realizzata ad Anversa per il frontespizio di una parte del trattato per lui particolarmente importante, e cioè il libro sulla pittura. Egli rinuncia a inventare o ad utilizzare un'allegoria della pittura, come sarebbe stato ovvio, e sceglie come personificazione dell'arte del dipingere proprio una celeberrima statua del suo patron di un tempo, il marchese Giustiniani. Fatto questo che dimostra tanto la sua aspirazione a superare il "paragone" tra scultura e pittura attraverso il passaggio della plastica nella pittura quanto, nella perciò provata venerazione ai Giustiniani, l'impronta durevole nella sua concezione artistica lasciata dagli anni trascorsi a contatto con la collezione. Altrettanto egli fa per il frontespizio della parte sulla scultura per la quale utilizza una Venere della collezione Giustiniani tratta dalla riproduzione di Mellan nella Galleria Giustiniana (vol. I, tav. 37).
(Sybille Ebert-Schifferer)



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