LA COLLEZIONE GIUSTINIANI
Carità - Luca Cambiaso
Cristo davanti a Caifa - Luca Cambiaso
Cristo davanti a Caifa - Gerrit van Honthorst
Cristo sostenuto dagli angeli - Paolo Caliari
Ritratto di giovane con un uffiziuolo in mano - Lorenzo Lotto
Sacra Famiglia - Girolamo Marchesi
L'Imperatore Augusto e la Sibilla Tiburtina - Benvenuto Tisi
Madonna col Bambino e S. Giovannino - Francesco Francia
Venere e amorini nel paesaggio - Battista Luteri
Ratto di Ganimede - Ignoto artista nordico
Testa di Cristo - Giuseppe Cesari (Cavalier d'Arpino)
Carità - Luca Cambiaso
Gli inventari della collezione Giustiniani menzionano ben dieci dipinti del grande pittore
genovese; inizialmente essi erano collocati nelle stanze private di Benedetto (DANESI
SQUARZINA [1997]) e confluirono poi, con Vincenzo, nella prestigiosa "stanza grande
dei quadri antichi" (SALERNO [1960]). Cinque opere sono già menzionate
nell'inventario della "Guardarobba", la cui redazione iniziò il 1° aprile 1600
subito dopo la morte del padre Giuseppe: pertanto, possiamo ritenere che si trattasse di
beni di famiglia verso i quali vi era un particolare rispetto. Indubbiamente i fratelli
Giustiniani erano consapevoli del ruolo chiave dell'artista ligure nel manierismo
internazionale, della sua capacità di sommare esperienza venete e lombarde, e di fornire,
in alternativa al michelangiolismo e al raffaellismo, un approfondimento delle eredità di
Leonardo in termini di scienza ottica e studio dell'incidenza dell'atmosfera sui contorni,
di costruzione dello spazio, di struttura della composizione; per Caravaggio e poi per
Honthorst furono certo importanti l'uso sperimentale delle fonti di luce e la
raffigurazione degli eventi sacri spogliati da qualsiasi retorica (DANESI SQUARZINA
[1994]; DANESI SQUARZINA [1995], pp. 98-99). La giovane Madonna del Riposo della Fuga in
Egitto (Roma, Galleria Doria Pamphilij), esile e dolcemente ripiegata su se stessa, mostra
che il Merisi prese come modello proprio la Carità di Luca Cambiaso qui esaminata
(sull'importanza del dipinto vedi SUIDA MANNING-SUIDA [1958], p. 154). Se un interesse per
Cambiaso si legge in Caravaggio, esso si nutriva certo della sua personale intelligenza
artistica ma anche dell'aura, vale a dire dell'importanza che al pittore di Moneglia
veniva attribuita dai Giustiniani, che avevano visto da lui decorata la villa Cambiaso
Giustiniani, appartenente al ramo genovese, e che lo tenevano in grande evidenza nella
quadreria romana. La composizione ricalca la descrizione della Carità offerta Ripa (RIPA
[1603], p. 64): "Donna vestita di rosso, che in cima del capo habbia una fiamma di
fuoco ardente, terrà nel braccio destro un fanciullo, al quale dia il latte, & due
altri gli staranno scherzando à piedi, uno d'essi terrà alla detta figura abbracciata la
sinistra mano". Benché l'opera di Berlino sia senza possibilità di dubbio
proveniente dalla collezione Giustiniani, Magnani esprime delle perplessità sulla sua
provenienza basandosi sul presupposto che le repliche eseguite da Bernardo Strozzi nel
Seicento dovettero essere realizzate a Genova, e che dunque a Genova l'opera doveva
trovarsi in quegli anni (MAGNANI [1995], p. 280 e nota 42, p. 285). Della Carità del
Cambiaso, in effetti, lo Strozzi eseguì di sicuro almeno tre copie, delle quali la prima
sarebbe la tela oggi conservata in palazzo Rosso a Genova (cfr. GENOVA [1995], n. 11, p.
118). Ad ogni modo, l'opera è non solo nei due inventari dei beni del cardinale Benedetto
(1600 e 1621) ma risulta anche ben descritta in un codicillo del suo testamento, con il
quale il prelato disponeva di lasciare al cardinale Ubaldino "
il mio quadro
della Carità di Luca Cambiago da Genova". La disposizione testamentaria venne
disattesa dal marchese Vincenzo che diede all'Ubaldino "il mio quadro tondo di Giulio
Romano" e conservò per sé la Carità di Cambiaso, dimostrando la sua considerazione
per l'opera fino a spingersi a una manomissione delle volontà testamentarie del fratello
(cfr. DANESI SQUARZINA [1994], pp. 384-385; DANESI SQUARZINA [1996], pp. 98-99, p. 108 e
note nn. 35 e 36, in cui si dà anche bibliografia sull'influenza del Cambiaso su
Caravaggio; il testamento è in DANESI SQUARZINA [1998], pp. 114-115). Il dipinto riappare
descritto in tutti gli inventari successivi e viene persino copiato da David in occasione
di una delle sue visite a palazzo Giustiniani, compiute tra il 1775 ed il 1780 (vedi il
saggio di Pierre Rosenberg in questo stesso catalogo). Pertanto, il quadro presente nel
1818 presso i Doria (POLEGGI [1974], p. 212) a cui fa riferimento il Magnani ("La
Vergine che allatta il bambino, ricavata appresso Correggio"), poteva essere una
replica o persino un altro dipinto. Fra l'altro, Strozzi può aver visto il quadro presso
i Giustiniani a Roma, dato che si ipotizza un suo soggiorno romano alla fine del primo
quarto del Seicento (vedi, in proposito, M.L. Galassi in GENOVA [1995], pp. 44-45 e,
soprattutto, GALASSI [1992], che collega ad una diretta frequentazione della collezione
Giustiniani anche l'esecuzione dell'Incredulità di S. Tommaso di Strozzi, chiaramente
derivata dal prototipo caravaggesco menzionato nell'inventario del 1638). Un'ulteriore
conferma che la Carità di Cambiaso rimase fino al secolo XIX presso i Giustiniani viene
dalla viaggiatrice Marianne Kraus che nel 1791 "in dem Palast Giustiniani"
descrive "Luca Cambiaso: eine Mutter mit drei Kindern" (cfr. BROSCH [1996], p.
106). (Silvia Danesi Squarzina)
Cristo davanti a Caifa - Luca Cambiaso
Definito "il più grande notturno del Cinquecento in Italia" fu preso ad esempio per le sue qualità luministiche dagli artisti olandesi che la frequentarono nel XVII secolo, costituisce un insuperabile esempio di quella produzione “a lume di notte” che conobbe una notevole diffusione nella seconda metà del Cinquecento. Il notturno, in cui l’oscurità è rischiarata dalla fede, è una simbologia che testimonia l’accostamento dell’artista alla religione riformata.
L'identificazione dell'opera con quella documentata in collezione Giustiniani fu proposta
già dal Salerno (SALERNO [1960]) e può trovare una conferma significativa nel fatto che
un dipinto di identica iconografia venga menzionato anche nell'"Entrata della
Guardarobba" del cardinale Benedetto (inv. 1600, n. 22, ove viene descritto
precisamente come composto da nove figure). È possibile, dunque, che esso sia
appartenuto, insieme ad altri quattro dipinti di Cambiaso, già a Giuseppe Giustiniani
(cfr. scheda ###). A questi elementi va aggiunta la notizia che insieme alla tela qui
esposta l'Accademia Ligustica, fondata nel 1751, annovera fra i suoi beni una replica in
gesso della Minerva Giustiniani nonché una copia della Galleria Giustiniana (entrambi
provenienti da lasciti). La rilevanza di tali circostanze sembra così legittimare
l'identificazione del pezzo Giustiniani con il bel dipinto oggi conservato a Genova. È da
ritenersi superata, pertanto, l'ipotesi avanzata da Suida Manning e Suida che il dipinto
fosse identificabile con il "quadro di Christo avanti Pilato" descritto da C.G.
Ratti (RATTI [1780], p. 130) nel palazzo genovese di Giacomo Gentili (SUIDA MANNING-SUIDA
[1958], p. 64). L'eccezionale qualità pittorica fa di questo dipinto uno dei pezzi più
significativi della raccolta dei cosiddetti "quadri antichi" della collezione;
l'affascinante ambientazione notturna dell'episodio di Cristo condotto dinanzi al Gran
Sacerdote suscitò senza dubbio l'interesse di quei pittori caravaggisti, e soprattutto di
Gerrit van Honthorst, che nel frequentare il palazzo ebbero l'occasione di studiarne
l'effetto luministico. La presenza di tante opere del maestro genovese nella collezione
Giustiniani testimonia i percorsi concreti ed evidenti dell'influsso di Cambiaso sulla
pittura successiva. Peraltro, va anche sottolineata la dimensione non locale di questo
pittore, i cui dipinti sono presenti in importanti raccolte di corte come quelle di
Filippo II di Spagna e di Rodolfo II d'Asburgo. Databile dopo il 1570, il Cristo davanti a
Caifa va considerato come uno dei più suggestivi esempi di quella produzione di quadri
"a lume di notte" che proprio durante la seconda metà del Cinquecento sembra
diffondersi come nuovo genere pittorico (SUIDA MANNING [1952] definisce il dipinto come il
più grande notturno italiano). Si tratta di quel modo di dipingere classificato dal
Lomazzo con la denominazione di "terzo lume primario", che caratterizzato da
"fuochi, lucerne, facelle, fornaci e simili nasce, mostrando intorno una certa
quantità di lume alle genti, secondo la forza del foco
"; proprio come nel
dipinto qui esposto, "in diversi misteri di Cristo questo lume primario va
rappresentato di notte, come quando è preso, constituito innanzi ad Erode, Anna e Pilato;
e quando è flagellato, incoronato e schernito
" (LOMAZZO [1590???, ed. 1973],
vol. II, Libro IV, pp. 194, 195). La diretta corrispondenza tra il dipinto della Ligustica
e questo passo del "Libro dei lumi" di Giovan Paolo Lomazzo (ma non si
dimentichi che già Leonardo, nel Trattato della pittura affrontava il problema di
"come si deve figurare una notte"), documenta il consolidamento acquisito dalla
rappresentazione di scene notturne nella produzione pittorica di fine secolo, lasciando
peraltro trasparire i contenuti teologici che di fatto vi sottendono e che ne
accentueranno la fortuna nel secolo successivo. Sono proprio le complesse trasformazioni
politico-religiose determinate dalla Riforma protestante e quindi dalla Controriforma a
sollecitare una nuova definizione della notte, non solo in senso metaforico come oscurità
che la fede può rischiarare, ma anche in senso temporale, come momento adatto alla
meditazione ed al raccoglimento (cfr. CORRAIN [1991]; DEL BRAVO [1985]). L'eterna
contrapposizione tra luce e ombra intesa come lotta tra il bene e il male, peraltro, viene
espressa con chiarezza dalle parole di Gesù, che nel dialogo con Nicodemo afferma che
"chiunque fa il male odia la luce e non viene alla luce, perché le sue opere non
siano smascherate. Colui invece che fa la verità viene alla luce perché si riveli che le
sue opere sono operate in Dio" (Giov., 3, 20). Il significato teologico assunto
dall'uso della luce artificiale nella pittura del tardo Cinquecento è stato richiamato in
più occasioni anche nel caso specifico di Cambiaso, a proposito del quale si è potuto
parlare persino di "precaravaggismo" (MAGNANI [1995], p. 278). La Profumo
Müller, che ha riconosciuto nella produzione tarda dell'artista forti influenze della
pittura tedesca, ha ipotizzato un'adesione del pittore, intorno al 1570, alla religiosità
protestante (PROFUMO MÜLLER [1970], p. 37); a sua volta, Magnani si è dichiarato più
propenso a collegare la spiritualità meditativa e raccolta ricorrente nei dipinti più
maturi di Cambiaso al clima della riforma cattolica pre-conciliare sviluppatosi negli
ambienti della Chiesa genovese, nonché al diffondersi dell'insegnamento di Ignazio di
Loyola e dei suoi Esercizi spirituali (MAGNANI [1978]; MAGNANI [1995], pp. 223-224, nota
8). Non vi è dubbio, comunque, che l'emergere del notturnismo di Cambiaso, caratteristico
di questi anni più tardi, vada ricollegato in qualche modo ad un diverso accostamento al
divino, caratterizzato da una partecipazione interiore e diretta. Il dipinto della
Ligustica si caratterizza, inoltre, per il forte geometrismo: una tendenza astrattizzante,
rilevabile in numerosi altri dipinti del grande pittore ligure, sulla cui origine gli
studiosi hanno elaborato interpretazione divergenti (PROFUMO MÜLLER [1970] la considera -
al pari del notturnismo - frutto dell'adesione alla spiritualità protestante e tende
comunque a identificarla soprattutto nella produzione più tarda; mentre MAGNANI [1978] la
ritiene un'acquisizione di precedente e comunque diversa derivazione rispetto al luminismo
tenebroso dell'ottavo decennio). Sta di fatto, che nel Cristo davanti a Caifa i personaggi
sono costruiti attraverso una giustapposizione di volumi (sfere, cilindri,
parallelepipedi) che sembra accentuare l'intensità dell'episodio, riducendo ai minimi
termini la complessità della rappresentazione e conferendo al dipinto un carattere
mistico e privato, adatto alla contemplazione e alla meditazione del singolo fedele (per
la PROFUMO MÜLLER [1970], p. 37, "il vuoto cilindrico antistante al corpo di Cristo
diviene così l'immagine stessa della morte"). La brutalità dell'evento è
accentuata dal forte contrasto tra il volto dolce e rassegnato di Gesù e la fisionomia
dei suoi persecutori, talmente animalesca e greve da sfiorare il grottesco (in questo,
l'idea di accostare il dipinto a certi esempi nordici, anche di area fiammingo-olandese,
appare piuttosto convincente). I dipinti a "lume di notte" presenti in
collezione Giustiniani erano numerosi: oltre a quelli di Cambiaso (che comprendono, in
aggiunta al Cristo davanti a Caifa, una "Madonna che tiene Christo bambino in grembo
S. Giuseppe, e S. Elisabetta al lume di candela", inv. 1638, II, n. 127, ed una
" Madonna che dà il Latte à Christo bambino et un' Angelo dipinto di notte con una
Lucerna accesa", inv. 1638, II, 65), l'inventario del 1638 elenca opere di Bassano il
Vecchio, Alessandro Turchi, Antonietto fiammingo, Annibale Carracci, Joachim von Sandrart,
e naturalmente Gerrit van Honthorst. Le descrizioni di queste opere sfruttano appieno la
terminologia che abbiamo riscontrato nel Lomazzo: si parla di "lumi di candela",
"facelle", quadri "finti di notte", "torce",
"candelieri" e si è tentati a considerare tali denominazioni come
corrispondenti ad un preciso lessico iconografico che distingue tra la luce artificiale
impiegata nelle scene di genere (così 1638, II, n. 251: "Un quadro di figurine
picciole finto di notte [maniera antica] in tavola alta palmi 2. larga 1.? incirca con
cornice rabescata di varij colori") e quella funzionale a sottolineare una epifania
religiosa, corrispondente al "divin lume" (o secondo lume primario) di cui parla
il Lomazzo. Una collazione tra gli inventari del cardinale Benedetto e quello del marchese
Vincenzo Giustiniani rivela a colpo d'occhio quanto i quadri a "lume di notte"
fossero numerosi nella raccolta del primo. Sappiamo, dal Malvasia, quanto il cardinale
amasse la pittura "tenebrosa" (ne è una chiara testimonianza, oltretutto, la
sua predilezione per la pittura del Garbieri), ma non andrà neppure omesso il fatto che,
tra i caratteri che distinguono il buon pittore, Vincenzo loda in particolare,
nell'"undecimo modo" di dipingere (quello "di dipignere con avere gli
oggetti naturali davanti"), la capacità di misurare la luce, distinguendo "le
parti oscure, e le illuminate, in modo che l'occhio resti soddisfatto dell'unione del
chiaro e scuro" (GIUSTINIANI [s.d., ed. 1981], pp. 43-44). Del dipinto, si conserva
una buona versione a Locko Park (segnalazione di Mary Newcome, riportata da MAGNANI
[1995], p. 227 nota 25). (Irene Baldriga - Silvia Danesi Squarzina)
Cristo davanti a Caifa - Gerrit Van Honthorst
Il dipinto, che si impone allosservatore con le dimensioni di una pala
daltare, può essere considerato come lespressione del più maturo stile
caravaggesco del pittore di Utrecht Gerrit van Honthorst. Lincontro dei due
protagonisti viene qui interpretato in modo estremamente drammatico, riducendo
lambientazione a pochi elementi essenziali ed illuminando i due personaggi con un
semplice lume di candela. In merito alla identificazione del soggetto rappresentato, sono
state avanzate numerose interpretazioni. Il dipinto viene descritto da Joachim von
Sandrart, allievo di Honthorst a partire dal 1625 circa, nella sua Teutsche Academie
(SANDRART [1675], vol. II, p. 303). Sandrart visitò Roma nel 1628 e vide il dipinto in
palazzo Giustiniani. Egli identifica il dipinto come un "Cristo davanti a
Pilato" ed afferma che questa grande scena notturna fu dipinta per Vincenzo
Giustiniani, presso il quale Honthorst aveva soggiornato. Tuttavia, nellinventario
dei beni di Vincenzo Giustiniani, stilato nel 1638, il dipinto viene descritto come un
"Cristo davanti a Caifa". Il racconto evangelico precisa chiaramente che Cristo
fu condotto davanti a Pilato durante il giorno e tre evangelisti - Matteo, Marco e
Giovanni - annotano che lincontro con il Gran Sacerdote avvenne di notte. Pertanto,
sembra che lepisodio raffigurato sia quello di "Cristo davanti a Caifa".
È probabile che Honthorst abbia seguito il Vangelo di S. Marco (26, 57-66; 27, 1-14) ove
sono menzionati i due falsi testimoni che accusarono Cristo di fronte al Gran Sacerdote.
È così che andrebbero interpretati i due personaggi rappresentati in posizione
appartata, dietro Caifa. Non vi è alcuna notizia documentaria certa in merito
allarrivo di Honthorst a Roma; tuttavia, sembra che il pittore olandese si sia
stabilito in città intorno al 1610. Qui rimase fino al 1619; nellottobre
dellanno successivo era comunque rientrato a Utrecht. Il Cristo davanti a Caifa va
datato allultima fase del suo soggiorno romano: Judson (JUDSON-EKKART [1999]) lo ha
datato al 1617 circa, ovvero poco prima della esecuzione della Decollazione di S. Giovanni
Battista di S. Maria della Scala, dipinto nel 1618 (vedi scheda n. ##). PAPI ([2000], pp.
136-137) ha proposto una datazione intorno al 1615 ed ha ipotizzato che il dipinto abbia
costituito un importante modello per il Cristo che appare alla Madonna di Bartolomeo
Manfredi (1621-1622), anchesso proveniente dalla collezione Giustiniani (vedi scheda
n. ##). Non vi è dubbio che il dipinto esercitò una grande influenza sullambiente
artistico contemporaneo e che divenne molto famoso quando lartista era ancora in
vita. Ne furono tratte numerose copie già da artisti contemporanei - due delle più
importanti sono oggi nella Sacrestia di S. Croce in Gerusalemme ed in S. Andrea della
Valle a Roma - ma ne sono note almeno altre quattro. Nel catalogo dellartista
pubblicato recentemente da Judson ed Ekkart si elencano non meno di ventotto copie,
dipinte, disegnate o tradotte a stampa (JUDSON-EKKART [1999], p. 81). Esiste anche una
copia con varianti eseguita da Matthias Stom, oggi conservata presso lo Ackland Art Museum
(Chapel Hill, North Carolina, fig. 1). Benché il dipinto sia fortemente influenzato da
Caravaggio, Judson ed Ekkart vi rilevano anche un debito nei confronti della pittura
veneziana, specialmente nei confronti del Cristo davanti a Pilato eseguito da Tintoretto
per la Scuola di S. Rocco. I due studiosi avanzano anche linteressante ipotesi che
Honthorst abbia studiato la luce artificiale utilizzata da Luca Cambiaso nel suo Cristo
davanti a Caifa (vedi scheda n. ##), ricordato nel 1600 nella "Entrata della
Guardarobba" di palazzo Giustiniani (DANESI SQUARZINA [1997], p. 779, n. 22).
Nonostante le numerose differenze ravvisabili nella composizione, entrambi i dipinti
mostrano figure intere illuminate da un lume di candela che focalizza lattenzione
dellosservatore sulle espressioni dei protagonisti. Cambiaso era un artista molto
amato da Benedetto Giustiniani e potrebbe essere stato raccomandato al giovane pittore
olandese come modello degno di studio. (Christopher Brown)
Cristo morto sostenuto dagli angeli - Paolo Caliari
La pubblicazione degli inventari della collezione del cardinale Benedetto ha stabilito con
certezza che quest'opera di Veronese, destinata alla devozione privata, entrò in palazzo
Giustiniani prima dell'anno 1621 (DANESI SQUARZINA [1997]). Ereditato dal marchese
Vincenzo, il dipinto è menzionato nell'inventario del 1638 e rimase di proprietà della
famiglia fino alla sua acquisizione da parte del re di Prussia nel 1815. Benché i
Giustiniani considerassero la tela un'opera autografa del maestro, agli inizi del XX
secolo l'attribuzione a Veronese fu messa in discussione da Fiocco e da altri specialisti
che ritennero più opportuno classificarla come "opera di bottega". Tuttavia,
più recentemente, le persuasive argomentazioni di Terisio Pignatti sembrano avere
chiarito che, con ogni probabilità, il dipinto è frutto di una collaborazione tra Paolo
Veronese, al quale si deve l'invenzione della composizione e la raffigurazione del Cristo,
e suo figlio Carletto, probabile autore dei due angeli. L'artista si interessò al tema
del "Cristo morto tra due angeli" soprattutto durante l'ultima fase della sua
carriera elaborandone molteplici versioni (con uno o più angeli, la Madonna o un
donatore) e destinandole tanto a commissioni pubbliche che private (PIGNATTI [1995], pp.
324-326). Sul verso di un disegno a penna, databile al 1573, oggi conservato a Stoccarda,
Veronese fece due schizzi quasi identici di un gruppo a tre figure composto da Cristo
sostenuto da due angeli. Contrariamente all'ipotesi proposta da Deusch e Cocke i due
schizzi non possono essere considerati come preparatori al dipinto di Berlino, e vanno
piuttosto ritenuti studi sul tema precedenti all'opera qui presa in esame. Nel dipinto di
Berlino, infatti, Veronese modifica gli studi di Stoccarda, riducendo il formato dalla
figura intera ai tre quarti e trasformando la posizione del corpo di Cristo e la sua
relazione con gli angeli, che nel disegno tradivano una insolita, esplicita, imitazione
della Pietà di Michelangelo, oggi nel Duomo di Firenze. La composizione e lo spirito che
caratterizzano il quadro di Berlino riflettono più direttamente il capolavoro di Veronese
oggi conservato a San Pietroburgo, ed anche la sua datazione sembra collegabile a questo
momento della carriera del maestro, ovvero tra gli anni 1580 e 1582. Come hanno rivelato
le analisi ai raggi X, anche nel caso della tela dell'Ermitage l'invenzione originaria del
pittore prevedeva l'inserimento di un secondo angelo. Piuttosto peculiare,
nell'iconografia del dipinto berlinese, è l'annullamento di ogni riferimento narrativo
all'episodio della Deposizione. Inquadrando i personaggi in modo così ravvicinato,
Veronese pone la figura di Cristo in primissimo piano, con il risultato che il suo corpo,
così come la mano dell'angelo sulla sinistra, sembra spingersi espressivamente verso
l'osservatore. Inoltre, l'artista accentua il pathos della rappresentazione giustapponendo
la testa di Cristo, misteriosamente illuminata come da una luce sovrannaturale, e quella
dell'angelo, raggiante ed animata dalla massa di riccioli color rame. Memore della
tradizione artistica veneziana, e soprattutto delle numerose versioni del soggetto dipinte
da Giovanni Bellini, l'enfasi visiva conferita da Veronese al corpo di Cristo come simbolo
del sacrificio eucaristico riflette direttamente la spiritualità religiosa veneziana
all'indomani del Concilio di Trento (REARICK [1988], pp. 140, 195) ed il voto offerto
dalla Serenissima a Cristo Redentore in seguito alla cessazione della devastante peste del
1575-1577. Non vi è dubbio che l'acquisto del dipinto di Veronese da parte del cardinale
Benedetto fu certamente influenzato dal carattere sacro della sua iconografia. La
collezione del cardinale, infatti, era composta prevalentemente da immagini di carattere
devozionale: immagini della Madonna col bambino, Crocifissioni e ben altri cinque dipinti
rappresentanti la Pietà. Che Benedetto non fosse, comunque, insensibile alla qualità
pittorica del dipinto è dimostrato dal fatto che esso fosse collocato nella
"Galleria Grande" di palazzo Giustiniani. Poiché il cardinale aveva
precedentemente acquistato un altro dipinto di Veronese (un "Adamo ed Eva con molti
animali e paesi", menzionato al n. 80 dell'inventario della Guardarobba e non ancora
rintracciato), appare suggestiva l'ipotesi che durante il suo soggiorno a Bologna come
legato pontificio egli non si fosse limitato a coltivare un particolare interesse per la
pittura bolognese e che avesse sviluppato un certo gusto anche per la scuola veneziana,
come elemento fondamentale della riforma pittorica elaborata dai Carracci. Forse fu anche
l'incisione eseguita da Agostino Carracci dalla Pietà di Veronese oggi a San Pietroburgo
ad influenzare il suo acquisto di un altro dipinto del maestro rappresentante lo stesso
soggetto. Questa ipotesi trova sostegno nel fatto che l'inventario dei beni di Vincenzo
Giustiniani menziona "la Madonna e Christo morto e due Angeli [
] di mano, si
crede, di Paolo Veronese" (inv. 1638, II, n. 86), ovvero un dipinto che possiamo
considerare come una replica, in formato ridotto, della tela dell'Ermitage. La presenza di
questo dipinto nella collezione suggerisce un gusto particolare di Vincenzo per la pittura
di Veronese, un gusto che oltretutto ben si accorda con l'incredibile aumento di
popolarità subito dall'opera del maestro presso i collezionisti romani negli anni intorno
al 1630 (questo è il tema di un saggio di chi scrive, in collaborazione con William
Barcham, in corso di pubblicazione). L'apprezzamento del Cristo morto di Berlino da parte
di Vincenzo è peraltro testimoniato dal suo trasferimento, dopo la morte di Benedetto,
nella "Stanza Grande dei Quadri Antichi", il luogo ove erano conservati i
dipinti di maggior pregio (DANESI SQUARZINA [1998a], pp. 107-110). Qui, in accordo con le
sue preoccupazioni di conoscitore, egli collocò il Cristo morto con l'Adamo ed Eva di
Veronese, già nella collezione di Benedetto, e con un'altra opera autografa della sua
propria raccolta, "una mezza figura piccola di S.ta Giustina martire" (inv.
1638, II, n. 35). (Catherine R. Puglisi)
Ritratto di giovane con un uffiziolo in mano - Lorenzo Lotto
Il quadro fu elencato per la prima volta nellinventario steso nel 1638 dopo la morte
di Vincenzo Giustiniani e descritto quale autoritratto del Lotto: (39) "Un altro
quadro con un ritratto vestito allantica con un offitiolo in mano con una portiera
rossa ritratto di Lorenzo Lotti fatto da se stesso in tela alta pal. 3 lar. pal. 2 H con
cornice nera" (SALERNO [1960], p. 137). Il Salerno aveva notato una certa discrepanza
tra le misure indicate nellinventario e quelle che il quadro ebbe dal tempo dei
cataloghi di Parigi (1812) fino a prima dellultimo restauro del 1999: cm 48,8 ´
40,3 versus cm 66,9 ´ 55,7, se prendiamo le indicazioni dellinventario
letteralmente. Ma né il Salerno né altri autori successivi si erano meravigliati
dellindicazione "con un offitiolo in mano", cioè un libro che contiene il
mattutino e le altre preghiere in onore della Vergine (vedi SCHLEIER [2000], pp. ?). Nel
dipinto, come lo conoscevamo fino al 1999, mancavano infatti la mano e il libro.
Ovviamente il ritratto fu drasticamente decurtato, soprattutto in basso e ai lati,
probabilmente poco prima della vendita parigina, forse perché era danneggiato ai bordi,
ma probabilmente anche perché si volevano adattare le sue misure a quelle notevolmente
inferiori di un altro presunto autoritratto di un pittore (si credeva nellinventario
del 1638 e ancora nei cataloghi parigini e nei primi cataloghi berlinesi che fosse di
Andrea Schiavone, mentre era anchesso opera di Lorenzo Lotto, cat. 182). Il Landon
(Galerie Giustiniani, Catalogue figuré des tableaux de cette célèbre Galerie
by Galerie Giustiniani Paris, France; London, Charles Paul, 1760-1826)
infatti ritenne che i due quadri fossero dei pendants e li riprodusse uno accanto
allaltro. Anche questo quadro subì una leggera decurtazione, ma era più piccolo
fino dallinizio e certamente lo era già nel 1638 ("tela da testa"; misure
attuali: cm 48,4 ´ 40). Durante il recente restauro del quadro cat. 320 con la portiera
rossa e la veduta di mare e il porto (la laguna, il molo di Venezia, come già sospettato
da BERENSON [1895] e da altri), effettuato nel 1999 a Los Angeles nel J. Paul Getty Museum
da Mark Leonard, il dipinto fu tolto dal telaio che era stato probabilmente realizzato a
Parigi. La tela originale dipinta era stata piegata su tre lati di questo telaio, in basso
e ai lati, e queste strisce dellepidermide pittorica erano state in parte ridipinte.
La tela fu messa su di un nuovo telaio, più largo: due strisce di 1,7 cm di larghezza
della superficie originale furono recuperate ai lati e in basso una striscia di 1,7 cm di
altezza. A destra lestensione della veduta della laguna e il molo con i battelli che
si vede dietro il muro è ormai notevolmente allargata. In essa si distinguono una nave
grande senza vele e due battelli con vele bianche. Il muro con ledera che si
arrampica si estende più verso destra. In basso la pulitura ha rivelato una parte
dellindice e lunghia del pollice della mano destra, che teneva il libro. Manca
sempre una striscia di circa 16 cm di altezza in basso, su cui era dipinta la mano con il
libro. Non è facile immaginare la posa della mano che teneva il libretto, mentre
lindice puntava in alto. Il restauro ha restituito in parte lequilibrio tra
figura e fondo che il quadro possedeva in origine. Ciononostante lantico equilibrio
rimane purtroppo per sempre sensibilmente turbato. Dopo il restauro anche il vestito
grigio-nero ha riacquisito più corposità e volume e il suo disegno "interno",
la sua struttura, è diventato meglio leggibile: le strisce verticali e applicate in parte
con i bottoni si stagliano più nettamente dal fondo e danno un rilievo più ricco e
movimentato. Sopra il vestito luomo porta una specie di cappa o manto, che copre la
spalla sinistra, ma non quella destra. Il quadro viene generalmente datato intorno al 1526
circa, cioè subito dopo il rientro del Lotto a Venezia da Bergamo nel dicembre del 1525.
Il Berenson (BERENSON [1895] e [1901]) e la critica successiva lo accostarono al Ritratto
di un monaco domenicano a Treviso (Museo Civico, f.d. 1526) e al Giovane col libro
(Milano, Castello Sforzesco; su tavola, molto più piccolo). Lidea che fosse un
autoritratto (inventario del 1638, LANDON [1812], presente nei cataloghi berlinesi fino al
1878, CROWE-CAVALCASELLE [1876]) fu già respinta dal Morelli (LERMOLIEFF [1880]), dal
Berenson ([1895], [1901] rist. [1956-1957]) e dalla critica successiva (ad eccezione di
KUNZE [1931]), anche perché al tempo della probabile esecuzione del dipinto il Lotto
aveva unetà maggiore del giovane raffigurato in questo ritratto, che il Berenson
giudicò trentenne. Nellopera del Lotto i ritratti a mezzo busto sono pochi e per la
maggior parte limitati ai primi anni di attività del pittore. La maggior parte dei
ritratti maschili, specialmente quelli degli anni Trenta e Quaranta, sono dei ritratti a
tre quarti di figura, con il viso più o meno ritratto frontalmente, con formati che
andavano dai 78 ai 115 cm di altezza. Fra i ritratti a mezza figura, quelli che per taglio
e misure sono vagamente paragonabili a quello Giustiniani sono il Ritratto di gentiluomo
in pelliccia (collezione privata) del 1532-1534 (?), il Ritratto di gentiluomo con rosario
(Nivagaard, coll. Haage) del 1521-1523 circa e il Ritratto di Giovanni Maria Pizoni (?)
del 1538 circa (collezione privata). Sul telaio realizzato nel 1812 circa, ora rimosso, si
trovavano un sigillo Giustiniani, un sigillo del ministro prussiano delle Finanze
(applicato allingresso a Berlino nel 1815), il sigillo del Museo di Berlino,
applicato nel 1878, il numero 57 dipinto in rosso (corrispondente a quello indicato dal
Landon). Sempre degne di nota sono le parole con cui il Berenson (citate anche dal
Bianconi 1955), ignaro del fatto che il giovane in origine teneva un uffiziolo nella mano,
ha caratterizzato questo ritratto: "This portrait may be called Lottos Homme au
Gant. It has the masterly directness and simplicity of that great Titian, but is not so
impersonal, is more sensitive, more intellectual - an Italian of the first half of the
sixteenth century, who belongs to neither of the varieties catalogued by Stendhal [...]
The young man before us is neither cut-throat nor artist". Il confronto con il
celebre ritratto si impone per leleganza e nobile distanza del personaggio, anche se
le differenze sono notevoli, ma si è rivelato quasi profetico in quanto il Berenson ha
scelto per confronto proprio un ritratto in cui le mani assumono un ruolo tanto
importante. (Erich Schleier)
Sacra Famiglia - Girolamo Marchesi
Lopera è in buone condizioni di conservazione, nonostante sia interessata, a circa
metà dellaltezza, da una fessurazione del supporto ligneo in senso orizzontale, e
si osservino, in particolare nella zona del gomito della Vergine, una serie di piccole
cadute di colore integrate da un vecchio restauro. Sul libro tenuto in mano da S.
Giuseppe, e che la Madonna sta leggendo, si leggono in lettere ebraiche i versetti
iniziali del cantico: "Magnificat Anima Mea Dominum". Il dipinto fu
probabilmente acquistato dal cardinale Benedetto Giustiniani nel periodo in cui si trovava
a Bologna in qualità di Legato, perché non risulta nellEntrata della Guardarobba
del 1600, stesa prima di ottenere quella carica (DANESI SQUARZINA [1997]); appare invece
nellinventario del 1621 come "Una Madonna in tavola con nostro Signore in
braccio che dorme e San Gioseppe che guarda il libro della Madonna" (DANESI SQUARZINA
[1997], p. 789). Solo nellinventario del 1638 appare anche la dicitura "fatto
nella scuola de Correggi" (SALERNO [1960], p. 138). Il riferimento emiliano si
tramutò dapprima in lombardo, con lassegnazione a Bernardino Luini fatta da
DELAROCHE [1812], seguito da LANDON [1812] e dai primi cataloghi del Museo berlinese
(VERZEICHNISS [1826]), e poi in ligure, fin da quando CROWE-CAVALCASELLE ([1871], vol. II,
p. 72) lo attribuirono a Bernardino Fasolo, con unopinione condivisa successivamente
da Adolfo Venturi (VENTURI [1901-1939], 1915, vol. VII, p. 1094), da tutte le guide e i
cataloghi del Museo di Berlino e dalla Cataldi Gallo (in DIZIONARIO BIOGRAFICO DEGLI
ITALIANI [1960-], vol. 45, 1995). Roberto Longhi, con un parere orale dato alla Galleria
nel 1929, era tuttavia nettamente contrario al nome del Fasolo ed alla collocazione ligure
del quadro, che preferiva pensare di area cremonese; parimenti il Castelnovi (CASTELNOVI
[1970] e [1987a]) negava ogni connessione dellopera con Bernardino, preferendo un
riferimento genericamente lombardo, e la Fontanarossa (proposta subito accettata da DANESI
SQUARZINA [1998a], p. 118) rilevava che togliere questopera dal catalogo di
Bernardino Fasolo significava rimuovere linciampo di una sua evoluzione in senso
leonardesco, che da sempre aveva condizionato lo studio dellartista (FONTANAROSSA
[1998]). Secondo Crowe e Cavalcaselle, il dipinto manca di chiarezza e di luce, mentre le
figure sono secche e fiacche, ma trattate tuttavia liberamente come in Pierfrancesco
Sacchi; opinione basata evidentemente sulla mancanza di simmetrie compositive interne di
matrice classica, che non poteva piacere al gusto accademicamente, se non puristicamente,
educato dei due autori; e su un senso del movimento in cui già traspare qualche sentore
della Maniera moderna, o almeno del versante più emotivamente mosso del gusto di primo
Cinquecento. Anche Adolfo Venturi, del resto, parlava di un tentativo "di muovere a
vortici i grossi ruvidi panneggi"; tornando tuttavia a dare, dellopera, una
collocazione "antico-moderna", col suggerire contemporaneamente richiami, per me
affatto inesistenti, ad Alvise Vivarini e ad Andrea Solario. La tavola è stata restituita
a Girolamo Marchesi da Cotignola, su mio suggerimento, da Raffaella Fontanarossa
(FONTANAROSSA [1994-1995] e [1998]); né ho mai trovato successivamente argomenti per
mutare opinione. Il volto della Vergine, in effetti, appare quasi sovrapponibile a quello
della sua omonima nella pala oggi al Museo di Forlì, riferita già da Ferdinando Bologna
(BOLOGNA [1971]) ad una data di pochissimo precedente alla pala olivetana di S. Michele in
Bosco, nella città felsinea, ed oggi nella Gemäldegalerie di Berlino, commissionata nel
1525 e conclusa nel 1526, come esplicita la data iscrittavi. Ma altri confronti, parimenti
probanti, si potranno istituire anche con i vari profili femminili, spesso in controparte,
nella pala con lo Sposalizio della Vergine nella Pinacoteca bolognese, databile, sempre
secondo il Bologna, al 1523 circa, o col profilo del santo di destra nella pala
dellIstituto bolognese dei Bastardini, dove porta tuttora il nome incongruo di
Biagio Pupini, che spetta (sulla base della somiglianza con la pala già a Lugo di
Romagna) al 1528-1530 circa; mentre il tipo del S. Giuseppe si ritrova nel probabile
Giuseppe dArimatea della Deposizione di Cristo della Pinacoteca di Brera a Milano,
cui meglio conviene, a mio avviso, per i maturi caratteri di stile, una data nei
primissimi anni Venti, piuttosto che quella, consuetamente ripetuta, al 1516-1518. Quanto
al paesaggio, simili dettagli di edifici rustici stagliati contro le montagne e il cielo,
e accompagnati da magri e flessuosi alberini, ricorrono, ad esempio, nella pala olivetana
di Berlino, del 1526, o nellaltra, firmata e datata 1528, già in S. Francesco a
Lugo di Romagna, e nel 1991 presso la Walpole Gallery di Londra; per non dire che è
tipicamente del Marchesi, rilevabile in quasi tutte le sue opere post 1520, quella certa
idea di varietà che gli fa giustapporre, nei volti, profilo a perfetta frontalità e a
tre quarti, come nella tavola in discussione. In forza di quanto sin qui osservato,
lopera andrà collocata, nel percorso dellartista, ad una data attorno al
1525. Ma si deve anche affermare che il dipinto in questione costituisce uno dei
raggiungimenti qualitativi più alti del Marchesi, che molto spesso, nella produzione di
piccole operette da camera come queste, sa essere alquanto corsivo; mentre, nella bella
idea del bimbo abbandonato nel sonno in braccio alla madre sembra avvertibile persino,
più ancora che la stregata fantasia del Genga (col quale lartista vantava antichi
sodalizi lavorativi), un qualche sentore di idee lottesche, come quelle della Madonna del
latte nel Museo Pu¹kin di Mosca. Per quali vie queste gli siano pervenute, è difficile
dire; ma, dato che il dipinto moscovita, collocabile attorno al 1520, appartiene al
periodo bergamasco del Lotto, non si può escludere che quellimmagine, in una
versione a noi ignota, sia transitata per le Romagne dentro la borsa di uno dei tanti
mercanti orobici che avevano interessi commerciali nelle Marche, e facevano perciò la
spola fra le due località.
(Mauro Lucco)
Limperatore Augusto e la Sibilla tiburtina - Benvenuto Tisi
Nellinventario della collezione Giustiniani del 1638, II, n. 83, redatto alla morte
del marchese Vincenzo, compare al n. 83 un dipinto il cui soggetto e le cui misure
corrispondono al dipinto oggi al Wallraf-Richartz-Museum: "un quadro con
lhistoria della Sibilla che mostra in Gloria Christo nato con diverse figurine
depinto in tavola. Alt. Pal. 3 lar. 1, Þ in circa di mano si crede di Benvenuto da
Garofalo con cornice nera" (cfr. SALERNO [1960]). Un palmo romano equivale a cm
22,325; quindi laltezza del quadro terminante in un arco a tutto sesto corrisponde
quasi perfettamente a quella del dipinto. Oltre al dipinto di Colonia sono note altre due
versioni del medesimo soggetto: la prima conservata a palazzo Pitti a Firenze presenta una
medesima redazione e misure quasi identiche (CIPRIANI [1966], p. 86), la seconda, datata
1544, compositivamente diversa e di formato rettangolare è oggi nella Pinacoteca Vaticana
(NEPPI [1959], p. 54). Questultima raffigura, davanti a un palazzo sullo sfondo a
sinistra e a tre figure maschili, limperatore Augusto, coperto da un mantello di
ermellino e con la corona in capo, posto alla stessa altezza della Sibilla. La profetessa
tiburtina, alle cui spalle troneggia un albero di alloro, solleva la mano sinistra per
indicare lapparizione in cielo della Madonna con il Bambino; a partire dal primo
piano a destra si dispiega un variegato paesaggio fluviale e collinare che si conclude con
una veduta di città sullo sfondo (fig. 1). Lopera, quindi, differisce in modo
significativo dalle due versioni tra di loro identiche di Colonia e di Firenze. In esse
Augusto è rappresentato seduto mentre scherma con la mano sinistra gli occhi, come per
farsi ombra e seguire lindice della Sibilla, in piedi dietro di lui, che lo scruta
con espressione severa. Limperatore non porta la corona, che è ai suoi piedi in
primo piano, e tre figure maschili, poste davanti ad alte basi di colonne, seguono la
scena con lo sguardo e con i gesti. I contorni appaiono precisi da un punto di vista
disegnativo e i corpi sono resi plasticamente. Il mantello, la camicia e la veste di
Augusto sono giallo intenso, verde e blu; la Sibilla porta sulla sottoveste blu una tunica
verde e un mantello rosso e ha sulla testa un turbante arancione scuro. I motivi
architettonici che fanno da contorno sono molto armoniosi e in posizione di dominio
appaiono i due protagonisti, dietro ai quali lo sguardo spazia verso un paesaggio con
caratteristiche quasi nordiche. La Madonna con il Bambino sulle nuvole tocca quasi il dito
della Sibilla, la cui figura è rappresentata esageratamente allungata con un gusto che si
rivela già manierista. Inoltre il ritmo compositivo del dipinto segue una curva ad esse
che parte dalla gamba appoggiata di Augusto e prosegue lungo il braccio e la spalla destra
di questultimo, il braccio sinistro, la spalla e il braccio destro della profetessa
sino al dito indice che si congiunge al Bambin Gesù con una ben consapevole retorica dei
mezzi pittorici ai fini del messaggio insito nel dipinto. Il tema rappresentato è la
profezia della nascita di Cristo che la Sibilla tiburtina espresse allimperatore
Augusto. Augusto era Cesare e Pontefice massimo di Roma e al suo impero si collega la
"pax augusta", il più lungo periodo di pace dellimpero romano. La
profezia divenne il punto di congiunzione tra lAntico e il Cristianesimo; infatti, a
seguito del primo censimento della popolazione, che era stato ordinato da Augusto (Luca
2,1), venne riferita, così come era stato profetizzato, anche la nascita di Cristo in una
stalla a Betlemme. Già prima della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, decisiva per il
Medioevo e per letà moderna, che il domenicano poi arcivescovo di Genova cominciò
a scrivere dal 1263, già Virgilio, nella quarta Egloga, aveva richiamato
lattenzione sulla venuta di un bambino in terra. Le leggende successive su Augusto
tesero a trasfigurare la figura dellimperatore, che rinunciava alla propria
somiglianza con Dio, e legarono la profezia del Campidoglio, dove limperatore aveva
fatto erigere un grande altare in onore del "bambino giudeo venuto dal cielo", a
un tema prettamente mariologico: la fondazione della chiesa S. Maria in Aracoeli. Di
questo successivo retroscena politico-ecclesiastico, di cui Jacopo informa, non vi è,
tuttavia, alcuna traccia nel quadro di Garofalo. Le costruzioni cubiche e il palazzo
potrebbero designare il colle romano, ma non la chiesa, inoltre il cerchio di sole dorato
della Legenda Aurea circonda solo la Madonna con il Bambino. Tuttavia il divino imperatore
è caduto in ginocchio ed è completamente in balia della profetessa, che in rigorosa
verticale indica imperiosamente verso lalto. Linterpretazione di Garofalo si
discosta quindi dai prototipi antichi, da Cavallini a Ghirlandaio, e si rifà molto
chiaramente ad alcune esperienze romane. La maestosa figura della Sibilla, evidentemente
antichizzata, è forse riconducibile a Raffaello (affresco rappresentante la Sibilla in S.
Maria della Pace; Disputa nelle Stanze Vaticane) e ricorda nel gesto imperioso del braccio
sollevato il modo antichizzante di rendere le figure di Baldassare Peruzzi, così come è
possibile vedere nellaffresco per la chiesa S. Maria in Fontegiusta a Siena, datato
al 1530 da Frommel, opera in cui, nella figura principale, è possibile rintracciare
stringenti somiglianze. Garofalo, la cui bottega aveva sede a Ferrara, ottemperava a
imponenti commissioni per affreschi e pale daltare tra Roma e Bologna e doveva
certamente aver saputo della fuga di Peruzzi a Siena a causa del Sacco di Roma del 1527.
Questultimo morì un anno prima dellesecuzione del dipinto di Colonia e
laffresco di Fontegiusta era uno dei suoi lavori più importanti per il riferimento
alla Madonna di Foligno di Raffaello, che aveva, anche per Garofalo, valore esemplare.
Lapparizione della Madonna con il Bambino e il gesto dellindice in quanto tale
erano però già da tempo componenti fisse delliconografia. Garofalo, quindi, portò
a una sintesi una collaudata tradizione pittorica. Altrettanto si può dire
dellimpostazione stilistica, debitrice delle tendenze e degli influssi della pittura
a Roma e a Ferrara. Del giorgionismo veneziano dei primi anni non vi è più alcuna
traccia. Il linguaggio formale del disegno si riallaccia, da un lato, alla tradizione
ferrarese di Ercole de Roberti e Lorenzo Costa sino a Dosso Dossi, Ludovico
Mazzolino e Girolamo da Carpi, con i quali Garofalo è in uno stretto rapporto di
contemporaneità oltre che di lavoro; dallaltro il colorismo intenso e brillante e
la plasticità delle figure, accentuata dagli effetti luministici, vanno ben oltre Ferrara
e derivano, sebbene anche Francesco Francia e Bologna abbiano la propria parte, da
influenze romane e raffaellesche nel senso di un classicismo ispirato. Come insegna il
paragone con Peruzzi, Garofalo introduce senzaltro già elementi manieristi. Per
quanto si tratti di altri temi, si avverte nelle composizioni delle opere originali di
Garofalo - e si ricordi il quadro della Gemäldegalerie di Dresda rappresentante Poseidone
e Atena - una preformulazione nel tema e nellinterpretazione già antichizzante per
quel tempo. Un "classicismo romano" si rintraccia anche nellAdorazione dei
Magi del Rijksmuseum di Amsterdam, che contiene altrettanti elementi paragonabili nel
linguaggio figurativo ed è databile al terzo decennio. Ancora in questopera si
ritrova il gesto di indicare verso il cielo formulato da Raffaello. Così come per i suoi
contemporanei già citati, il repertorio di Garofalo, in considerazione anche delle
numerose commissioni, si distingue per il lungo perdurare di motivi ricorrenti e di
ripetizioni, il che spiega le due ulteriori versioni del tema oggi a Firenze e a Roma.
(Ekkehard Mai)
Madonna con bambino e S. Giovannino - Francesco Francia
Il dipinto viene considerato unanimemente opera della bottega di Francesco Francia: la
sola figura della Vergine sembra ascrivibile, in parte, all'intervento diretto del maestro
(NEGRO-ROIO [1998], p. 232, n. 137). Come in tutta la produzione tarda del Francia,
risulta molto difficile riuscire a distinguere le responsabilità degli eventuali
collaboratori: osservazioni di carattere morelliano possono legittimare confronti con
altre opere note della cerchia operante nella bottega durante gli ultimi anni di attività
del maestro: confronti plausibili sono stati proposti dalla Roio con la tavola già in
collezione Lord James Stuart (NEGRO-ROIO [1998], p. 136, n. 232). Già Crowe e
Cavalcaselle consideravano il dipinto come una copia di un allievo del Francia
(CROWE-CAVALCASELLE [1912], vol. II, p. 277, nota 2). Non vi è dubbio, peraltro, che
l'opera sia articolata su un lessico manierato, privo di qualsiasi brio inventivo. Essa si
colloca nell'ambito dell'abbondante produzione di dipinti devozionali elaborata,
soprattutto durante il secondo decennio del secolo, dalla bottega del Francia. Il forte
divario di qualità stilistica riscontrabile in tale produzione si manifesta spesso
all'interno di uno stesso dipinto, ove a volte un intervento diretto del Maestro può
essere riconosciuto in piccole porzioni della composizione. Tale pratica di bottega
conduce spesso ad un risultato freddo e artificiale, ove le figure si dispongono quasi
paratatticamente, giustapponendosi su sfondi paesaggistici di pura fantasia in uno schema
iconografico tradizionale e privo di inventiva. È questo l'effetto suscitato dalla tavola
di Berlino, nella quale i personaggi appaiono isolati, come incapaci di dialogare fra
loro. L'interesse di Benedetto Giustiniani per la pittura del Francia è ben documentata
dai resoconti del Malvasia, che nelle Vite dei pittori bolognesi riferisce numerosi
aneddoti relativi alla passione collezionistica del cardinale. Come noto, Benedetto fu
legato pontificio a Bologna dal 1606 al 1611; durante gli anni del suo mandato, egli ebbe
occasione di stringere rapporti con molti pittori locali, tra i quali Lorenzo Garbieri, al
quale commissionò la decorazione della chiesa di S. Paolo (BROGI [1989]), ed Alessandro
Tiarini. Sembra che a quest'ultimo, in particolare, il cardinale fosse solito chiedere di
"aggiustare" i dipinti del Francia da lui acquistati: "Comprando tutto il
dì questo eminentissimo Madonne di Francesco Francia e di Pietro Perugino, allora pure in
tanta stima, e facendoli a lui aggiustare a suo capriccio: fa torto, gli venne detto un
giorno, V.S. Illustrissima a due in un istesso tempo: a questi antichi maestri così
bravi, stimandoli degni di correzione; a me, che per servir Lei, son forzato ad esser
così temerario, e a fare un tal mancamento in porvi le mani
" (MALVASIA
[1678-1769], p. 139). D'altronde, sappiamo che la passione collezionistica del Giustiniani
fu tale da indurlo a compiere atti di autentica frode: è ancora il Malvasia a narrare
come Benedetto fece sostituire di nascosto il S. Sebastiano del Francia conservato nella
cappella Pandolfi da Casio presso il monastero della chiesa di S. Maria della Misericordia
presso Bologna con una copia ("
non potendone ottenerne l'acquisto da que'
religiosi per qual si fosse gran prezzo offerto loro, facendone ricavare almeno una copia,
questa ben anche cattiva e mal fatta riposta nella stessa cornice, vi restò, come
anch'oggi si vede, in luogo dell'originale", MALVASIA [1678-1769], vol. I, p. 49).
Gli inventari della collezione di Benedetto Giustiniani confermano in pieno le indicazioni
del Malvasia (cfr. DANESI SQUARZINA [1997]): l'inventario del 1621 menziona ben nove
dipinti attribuiti al Francia (nove, se vogliamo riconoscere nel "San Sebastiano
frezzato" corrispondente al n. 82 quello del Monastero della Misericordia); tutte
queste opere furono comprate con ogni probabilità durante o dopo il soggiorno bolognese,
poiché nessuna di esse è presente nell'"Inventario della Guardarobba" stilato
nell'anno 1600. (Irene Baldriga)
Venere e amorini nel paesaggio - Battista Luteri
In buone condizioni di conservazione, il dipinto è stato di recente radiografato presso
il Gabinetto di Restauro del Museo (un ringraziamento a Erich Schleier che ha fornito le
radiografie). Le immagini ottenute evidenziano una serie di cambiamenti apportati
allimmagine in corso dopera, mutamenti progettuali originariamente non
previsti. Così, ad esempio, in basso a sinistra, il secondo amorino in ombra che regge il
canestro coi gioielli appare essere di stesura molto più fluida e leggera rispetto
allaltro vicino, e probabilmente unaggiunta dellultimo minuto;
lamorino con larco, nelle immediate vicinanze, mostrava anche una gamba
ripiegata, come se stesse salendo dal basso, anziché solo il busto come ora si vede;
lalbero su cui sta arrampicato un altro amorino che passa i frutti a quello più in
basso aveva un grosso ramo che si apriva verso sinistra, in corrispondenza al ramo
tagliato presso la faccia del putto che attualmente si vede: evidentemente la composizione
è stata corretta semplicemente troncando il ramo presso al tronco. Un altro amorino stava
seduto sul tronco, con la testa allaltezza dei piedi di quello oggi visibile, ed è
stato completamente ricoperto dalla vegetazione. Il braccio destro di Venere, che sta
togliendo una freccia dalla faretra dellamorino addormentato, era stato inizialmente
previsto più in alto; al centro del dipinto, allorizzonte, originariamente stava
sorgendo il sole, o la luna. Ma, soprattutto, le radiografie hanno rivelato un larghissimo
cretto nei chiari, solo parzialmente visibile sulla superficie del dipinto, e dovuto
probabilmente alleccesso di legante oleoso nel colore; elemento sul quale torneremo
in seguito, ma che, va detto fin da subito, ricorda da vicino quello che appare nel
polittico Costabili di Dosso e Garofalo. Dopo un primo riferimento "alla scuola di
Venetia" nellinventario del 1638, la tavola è stata riferita a Giulio Romano
da Delaroche, Landon (DELAROCHE [1812]; LANDON [1812]) e dalle prime guide del Museo; fu
poi attribuita a Lavinia Fontana. Lassegnazione a Battista Dossi spetta al Berenson,
quando il dipinto si trovava in deposito al Museo di Hildesheim (BERENSON [1932] e
[1936]); tuttavia essa non sembra aver raccolto il consenso degli studiosi, essendo
ignorata nelle monografie di MEZZETTI [1965], GIBBONS [1968] e BALLARIN [1995]. Chi scrive
ha tuttavia proposto (LUCCO [1998]), sulla base di una felice intuizione della Romani (in
BALLARIN [1995]), che la tavola presente possa identificarsi con l"altro
[quadro] picolo dove glie suso una Vener con sei putini cioè amor fato da giuro oltra
mar" citato in un documento di pagamento a Battista Dossi del 6 ottobre 1548, poco
più di un mese prima della sua morte; anche se, a rigore, i puttini sono sette (ma uno è
praticamente quasi del tutto nascosto dietro quello di centro, e tale che, ad uno sguardo
non puntigliosamente attento, sembra compenetrarsi col primo, riportando così il numero a
sei). La locuzione "fato da giuro oltra mar" deve intendersi, ovviamente,
"fatto dazzurro oltremare", con riferimento ai pigmenti utilizzati,
soprattutto nel paesaggio lontano. Laltro dipinto rispetto al quale quello di
Berlino in questione viene definito più "piccolo" (e viene di fatto pagato
meno, 54 lire e 15 soldi, equivalenti a 15 ducati doro, rispetto alle 73 lire,
equivalenti a 20 ducati doro, del primo) è la Cleopatra nel paesaggio, già sul
mercato antiquario londinese, identificata a mio avviso giustamente dalla Romani con
quella per Alfonso dEste, figlio di Laura Dianti, che Battista aveva consegnato nel
1546, e per la quale riceveva il pagamento nellottobre del 48, qualche mese
prima di morire. Sulla stessa idea concordava anche Tumidei (TUMIDEI [1996], p. 157, nota
95). Benché il documento estense, pubblicato dal Venturi, parli di quattro tele (VENTURI
[1882], nota 1, p. 20), e il dipinto di Berlino sia su tavola, e per di più in verticale,
anziché in orizzontale come nella Cleopatra già a Londra, luso non sempre esatto
dei termini tela e tavola nei documenti estensi, e la coincidenza dellaltezza,
praticamente identica per entrambe (65 contro 66 cm), può far pensare alla provenienza da
un identico complesso decorativo, garantita peraltro soprattutto dalla coincidenza
stilistica; al quale apparteneva anche un S. Girolamo nel paesaggio, pagato esattamente
lidentica somma della Cleopatra (20 ducati doro, pari a 73 lire), e perciò
probabilmente di misure identiche, e una Fortuna nel paesaggio, dalle dimensioni
nettamente più piccole, perché pagata 7 ducati doro (25 lire e 11 soldi).
Sfortunatamente, questultima è andata perduta, e il S. Girolamo, come ha già
osservato la Romani (in BALLARIN [1995]), non può identificarsi con quello attualmente al
Museo del Louvre, a lungo considerato un autorevole candidato al riconoscimento, essendo
questultimo di misure sensibilmente maggiori. Se si accetta il riconoscimento della
tela già a Londra e della tavola di Berlino coi dipinti citati nei documenti del 1546 e
del 1548, ci troviamo però di fronte ad unaltra anomalia: a petto di referti
documentali che appaiono inattaccabili, stanno opere che assai difficilmente possono
essere accettate, sic et simpliciter, per prodotti della mano di Battista Dosso. La
contraddizione, ad esempio, è evidente nei modi paesistici, i quali non recano più
alcuna traccia della struttura nordicizzante, patenieriana, che siamo abituati a
riconoscere come caratteristica dellartista; nonostante il punto di vista parimenti
rialzato, a volo duccello, la visione si è fatta più naturalisticamente panoramica
e reale, senza più edifici di fantasia evanescenti nella nebbia, roccioni verticali come
monoliti confitti nel terreno, ma con ondulazioni di fiumi, ponti, boschetti, castelli,
ruderi antichi, colline. Un tipo di sfondo che ricorre, in formule ed esecuzione assai
simili, nel lontano dellAnnunciazione dipinta da Camillo Filippi per la chiesa
ferrarese di S. Maria in Vado, forse negli anni Cinquanta. La definizione poi delle fronde
è del tutto peculiare, minuziosamente e graficamente inseguita quasi foglia per foglia
con ellissi ricadenti di segno, e, soprattutto nel dipinto già a Londra, con una
vegetazione ove abbondano edere e fiori, che mai furono negli orizzonti figurativi di
Battista. Il confronto col paesaggio delle due Allegorie della Pace e della Giustizia di
Dresda, questultima documentata nel 1544, non potrebbe mostrare contrasto più
radicale. Non è tuttavia possibile indicare con certezza dei nomi alternativi, oltre a
quello già avanzato di Camillo Filippi; benché vi sia qualche coincidenza e affinità di
modi del paesaggio della Cleopatra già a Londra e della nostra Venere con la veduta
boschiva dietro il S. Girolamo firmato da Giacomone da Faenza, oggi disperso, reso noto
dal BODMER [1938], è certo che la mano di Giacomone non può essere individuata nella
tavola di Berlino, né nella tela londinese, se non altro perché il citato S. Girolamo è
sicuramente posteriore al soggiorno a Roma dellartista fra il 1545 ed il 1551. Ciò
esclude, ovviamente, ogni sua possibile collaborazione a opere compiute a Ferrara fra il
1546 ed il 1548. Nemmeno le figure nel nostro dipinto, peraltro, anche se indubbiamente
più in linea con la tarda operosità di Battista Dossi (si veda, ad esempio,
laffinità del volto della nostra Venere con quello dellAllegoria della Pace
di Dresda appena citata), possono dirsi con assoluta certezza sue. Ciò significherà,
probabilmente, che nei suoi ultimi anni la logica della distribuzione dei compiti
allinterno della bottega doveva far sì che su una sola opera lavorassero, in
maniera strettamente interconnessa, più aiutanti; con la risultante di un omologato
"stile dimpresa", più che di uno stile altamente personalizzato e
immediatamente riconoscibile. A giudicare dal risultato radiografico, ad esempio, il volto
della nostra Venere si direbbe più in linea con gli esiti di Girolamo da Carpi nella
Venere sulla conchiglia, o Galatea, di Dresda, pagata nel 1544. Nello stesso giro
danni, del resto, i due artisti sono impiegati in imprese tanto strettamente
contigue, da avere in più occasioni sollecitato il riconoscimento della mano di Girolamo
da Carpi entro dipinti documentatamente pagati a Battista Dossi. Quanto poi agli amorini,
essi si rivedono con grande frequenza nelle opere autonome di Camillo Filippi, come la
paletta nella Sala Capitolare del convento di S. Antonio in Polesine, a Ferrara, o
lAdorazione dei pastori dellEstense di Modena, dove la figura del Gesù
bambino dormiente si approssima assai da vicino alle caratterizzazioni dei putti
berlinesi. È da dire inoltre che coincidenze tra le più forti e stupefacenti si
registrano anche con un frammento di arazzo del Museo Poldi Pezzoli di Milano, tessuto
forse da Giovanni o Nicola Karcher, che a Ferrara si erano avvalsi di cartoni di Battista
Dosso e di Camillo Filippi, e di altri. Si ricordi che proprio gli anni relativi al
dipinto berlinese, il 1546 e/o il 1548, sono quelli nei quali con più frequenza il nome
di Camillo Filippi è associato a quello di Battista Dossi nei documenti della
contabilità estense, quale assiduo collaboratore di bottega. Benché, dunque, non si
voglia, né in questa fase sia possibile, con le conoscenze attuali, precisare minutamente
le responsabilità di Battista Dosso, di Camillo Filippi, e di altri membri della bottega,
o di Girolamo da Carpi, nelle varie parti del nostro dipinto, riteniamo che il riferimento
a questo pool di artisti debba darsi per acquisito. Ma un altro dettaglio merita di essere
adeguatamente commentato, e cioè la larga crettatura visibile in radiografia e a occhio
nudo, molto simile a quella visibile nel polittico Costabili della Pinacoteca di Ferrara.
Come è noto, dopo la pubblicazione di alcuni documenti di pagamento del 1513, da parte
del FRANCESCHINI [1995], pur di tener fede allopinione di uno storico
autorevolissimo come il BALLARIN [1995], che ritiene lopera del 1523 circa, si è
voluto comunque portare in campo largomento di una esecuzione assai protratta nel
tempo (idea contraddetta dal fatto che i documenti parlano specificamente di due artisti
coinvolti contemporaneamente nellimpresa, col chiaro scopo di guadagnare tempo).
Cardine di tale idea è il fatto che vi sono tracce di pittura originale dentro e sopra il
larghissimo cretto, verificabile anche ad occhio nudo, nelle tavole che compongono il
polittico: ciò significherebbe che un artista, Dosso, sarebbe reintervenuto da solo, fra
gli otto e i dieci anni dopo il 1513 di cui parlano i documenti, per rammodernare quel
testo pittorico compiuto a due mani. Se ciò si configuri come uninfrazione
delletica professionale nei riguardi di un collega, lascio giudicare a chi crede. Il
presupposto tecnico, invece, sarebbe che ci vogliono anni perché il colore si ritiri,
formando un cretto largo a questo modo. Questa affermazione ambisce evidentemente al
crisma delloggettività scientifica, alla validità assoluta che è replicabile e
verificabile tutte le volte che ricorrano le identiche condizioni; ma se è così, allora
tutti i dipinti che presentino una simile larga screpolatura devono essere stati compiuti
in un arco di tempo più o meno decennale. Ora, come si vede soprattutto sul volto della
nostra Venere, Battista Dosso, o chi per lui, è tornato con delle pennellate sopra un
largo cretto già formato; dovremmo dunque pensare, in base alle considerazioni
precedenti, che la tavola di Berlino è stata dipinta allincirca fra il 1538 ed il
1548. Ma una simile soluzione apparirebbe ridicola a ogni persona di buon senso, non solo
perché contrasta con lo stile di Dosso, di Battista, e di Dosso e Battista insieme nel
corso dei tardi anni Trenta, come è verificabile, ad esempio, per il primo dai SS.
Giovanni Battista e Giorgio di Brera, già a Portomaggiore, per lappunto del 1538
circa; per il secondo dal Riposo nella fuga in Egitto Cini; e per entrambi da una nutrita
serie di opere in collaborazione, dalle due pale votive già a Reggio, alla Disputa
sullImmacolata già a Dresda, distrutta nel 1945, ai due dipinti, sempre a Dresda,
col S. Michele e S. Giorgio, pagati nel 1540; ma perché i documenti stessi non consentono
che una minima oscillazione, fra il 1546 ed il 1548. Dunque, un dettaglio come la larga
crettatura, indice di mai abbandonate preferenze tecniche nella bottega dossesca, prossima
al suo finire, consente di fare qualche maggior luce su un problema critico legato agli
inizi di quella bottega stessa. (Mauro Lucco)
Ratto di Ganimede - Ignoto artista nordico
L'iconografia del dipinto ricalca una stampa di Nicolas Beatrizet tratta dal noto disegno,
rappresentante il Ratto di Ganimede, eseguito da Michelangelo per Tommaso de' Cavalieri,
con varianti nel paesaggio, trasformato da marino in montuoso, punteggiato da edifici
antichi. La particolare resa dello sfondo naturalistico, lievemente sfumato in lontananza,
è caratterizzata da tonalità digradanti che probabilmente una pulitura delle vernici
ingiallite rivelerebbe azzurrine e innevate; come già suggeriva il Landon, è possibile
collocare l'opera nell'ambito della produzione di un artista nordico, a nostro avviso di
cultura italianizzante. L'uso delle incisioni di Beatricetto come modelli si riscontra ad
esempio nel pittore olandese Lambert van Noort (Amersfoort 1520 circa - Anversa 1570/71),
che compie forse un viaggio di studio in Italia prima del 1549; un'opera con firma
latinizzata ("Lambertus Nortensis"), nell'Oratorio della SS. Annunziata a
Ferrara, un tempo sull'altar maggiore di S. Maria di Mortara, è l'unica prova della sua
presenza nella penisola (DACOS [1980], p. 177; GIOVANNUCCI VIGI [1985], pp. 75-76; Dacos
in BRUXELLES -ROMA [1995], p. 216); una tavola oggi conservata presso la Galleria Borghese
rappresentante Psiche trasportata all'Olimpo (Ilaria Miarelli Mariani in LECCE [1996], pp.
182-184, n. 34) attribuita al Van Noort da Nicole Dacos (DACOS [1995], p. 27) e derivata
appunto da una stampa del Beatrizet, presenta un paesaggio trattato in modo molto affine e
un formato quasi identico al nostro. Peraltro, anche sul piano stilistico e nella
struttura compositiva, con le quinte erbose e una zona d'ombra in primo piano, le due
opere manifestano delle forti affinità, solo in parte dovute alla comune fonte incisoria.
Nella collezione Giustiniani Il Ratto di Ganimede era esposto nella "terza stanza dei
quadri antichi" come pendant di una Venere con Amorino, oggi a Celle, Bomann Museum
(fig. 1), inv. 1638, II, n. 208: "Un quadro d'una Venere ignuda che abbraccia et
bagia un Amorino ignudo con panni sopra un' arbore e paese dipinto [maniera antica] in
tela alta palmi 4. larga 3.H incirca con sua cornice bianca", che appare di mano
molto simile e che recava lo stesso tipo di incorniciatura ("sua cornice
bianca"). Il soggetto di Giove che si trasforma in aquila per rapire Ganimede è
ispirato a Ovidio (Metamorfosi, X, 152 e ss.) e si presta ad una allegoria morale in senso
neoplatonico, amore che eleva l'anima dalla sfera fisica a quella spirituale; a causa di
questi contenuti e grazie al nome di Michelangelo, il dipinto Giustiniani ebbe grande
fortuna nelle guide e nelle memorie dei viaggiatori, come dimostra il disegno di
Jean-Honoré Fragonard battuto all'asta Christie's di Londra il 24marzo 1961, n.20 (fig.1)
(SAINT NON [1759-1761, ed. 1986]). Un esemplare su tavola di pioppo, di analogo formato
(cm 96,5 ¥ 75,3) è conservato a Vienna, Kunsthistorisches Museum, inv. 1609, con qualche
differenza nel paesaggio, più elaborato, con edifici antichi (rovine del Tempio di Nerva
riprese da un disegno di Heemskerck e piccole figure); l'opera è nell'inventario
dell'Ertzherog Leopoldo Guglielmo del 1659, n. 400, e infatti la troviamo riprodotta nel
Cabinet d'amateur di David Teniers II (in quattro diverse versioni presso Bayerische
Staatsgemäldesammlungen, Dresda) raffigurante l'Arciduca Leopoldo Guglielmo nella sua
Galleria di Bruxelles, appeso alla parete gremita di dipinti. La circolazione in Olanda
del mito del coppiere degli dei sia attraverso Van Mander, sia in forma di dipinto, quale
quello di collezione Giustiniani, può avere acceso l'immaginazione di Rembrandt per il
suo incomparabile Ratto di Ganimede (DANESI SQUARZINA [1993], pp. 29-36). Secondo A. Wied
(WIEN [1997], n. IV, 9, p. 329), che ne segnala altri due esemplari a Hampton Court e al
Getty Museum di Malibu (SHERMAN [1983], n. 156; FREDERICKSEN [1972], inv. 77), l'esemplare
del Kunsthistorisches Museum è da attribuire ad artista nordico attivo in Italia intorno
al 1580.
(Silvia Danesi Squarzina)
Testa di Cristo - Giuseppe Cesari
Citato per la prima volta nell'inventario post mortem del cardinal Benedetto, compilato
nel 1621, e successivamente in quello di Vincenzo del 1638, ove è menzionato come opera
"di mano di Gioseppe Darpina", il piccolo quadro risulta essere l'unica opera
della collezione Giustiniani riferita al Cavalier d'Arpino o alla sua bottega. Il mediocre
stato di conservazione e la povertà del pigmento, probabilmente affievolito da un incauto
restauro, tale da rendere quasi monocroma l'immagine, lasciano incerto il giudizio sulla
qualità dell'opera ed in particolare sulla sua autografia. Nei cataloghi ottocenteschi
relativi alla vendita di Parigi il quadro viene curiosamente elencato come Correggio. Già
attribuito al Cavalier d'Arpino da Pouncey e Pepper (comunicazione verbale), e
identificato come tale con "Un quadro alto palmi dui in circa con le figie di nostro
Signore, con cornicie negre" nell'inventario di Benedetto Giustiniani da Silvia
Danesi Squarzina, l'opera ha avuto una diversa attribuzione a Cesare Rossetti in occasione
della mostra dedicata all'arpinate nel 1973 (RÖTTGEN [1973], p. 162). Punto di partenza
per l'esame di questa Testa di Cristo è un cartone conservato al Musée Granet di
Aix-en-Provence di uguale soggetto, realizzato dal Cesari in preparazione del grande
affresco raffigurante l'Ascensione, da lui compiuto per il Giubileo del 1600 nel transetto
di S. Giovanni in Laterano. Sebbene la vicinanza tra il disegno e il dipinto Giustiniani
sia stringente sul piano formale, essi sono in realtà distanti qualitativamente e, pur
tenendo conto della resa necessariamente diversa derivante dalle differenti tecniche
impiegate, appare evidente il divario: al vigoroso chiaroscuro che dà risalto plastico e
vitale alla figura del cartone di Aix si sovrappone l'immagine appiattita e
dall'espressione indefinita di Potsdam. È possibile che dopo un primo abbozzo del
Cavalier d'Arpino l'opera sia stata completata nell'ambito della bottega, sulla base di un
modello del Maestro, modello che poteva riferirsi all'affresco lateranense come a quello
con la Resurrezione della cappella Olgiati in S. Prassede, dove il tipo di testa del
Cristo è lo stesso; nell'inventario del 1638, infatti, il nostro quadro viene indicato
come "Un quadro con la testa di Christo resurgente
" (SALERNO [1960], p.
97). La testa qui raffigurata, in effetti, rappresenta un topos ricorrente nella
produzione arpinesca e trae origine da un'idea che il pittore ha elaborato e reiterato in
occasioni diverse, idea desunta dal testo raffaellesco della Trasfigurazione di S. Pietro
in Montorio, ora in Vaticano, pala che il Cesari copiò (DEBENEDETTI [1999], p. 1204) e
studiò, come ci viene confermato dal fatto che tra le opere presenti nella sua bottega
nel 1607, al momento del noto sequestro, vi erano tre disegni relativi ad altrettante
parti della pala di Raffaello (DE RINALDIS [1936], p. 116). La leggera inclinazione della
testa, i capelli svolazzanti, la barba inanellata a ciocche, vengono ripresi dal pittore
con poche varianti in contesti diversi, particolarmente in opere realizzate negli ultimi
anni del secolo: il Cristo risorto della cappella Olgiati, i cui tratti sono apprezzabili
anche nel disegno del Gabinetto dei Disegni e Stampe degli Uffizi, il Cristo morto
sorretto da quattro angeli della collezione Lodi di Monaco, il Cristo deriso di S. Carlo
ai Catinari e il Cristo dell'Ascensione del transetto del Laterano, che è forse il più
importante contributo all'ideale classico della pittura romana in questi anni (Röttgen in
ROMA [1973], p. 162); una ripresa tarda della stessa tipologia è nel Cristo deriso di
Capodimonte, opera tipica dell'ultimo stile del pittore, dove l'impostazione iconica e
secca illustra l'enorme distanza che la separa, anche sul piano stilistico, dagli anni del
pontificato di Clemente VIII. Nella visione artistica che si va delineando nel corso
dell'ultimo decennio del secolo il Cavalier d'Arpino è protagonista della svolta
culturale in cui si affermano ideali di chiarezza e semplificazione compositiva delle
immagini, perseguiti anche mediante la rivalutazione ed il recupero del raffaellismo,
praticato alla luce delle nuove istanze culturali. Sono gli anni in cui il Cesari mette a
fuoco ed elabora le problematiche della nascente cultura accademica con la sua forte
connotazione teoretica, quale interprete ed esponente emblematico della dialettica
figurativa affiancata ai circoli più avanzati della curia romana (WAZBINSKI [1992]). Tra
questi, Benedetto Giustiniani rivestì una carica pubblica di riguardo come quella di
tesoriere, proprio nei tempi in cui fervevano i lavori per il Giubileo, e dunque non gli
mancarono occasioni per incontrare il Cavalier d'Arpino ed acquistare o ricevere in dono
qualche suo quadro. Il soggetto, in questo caso, appare del tutto confacente al gusto di
Benedetto, che collezionava opere di tema religioso ricercandovi in particolare la forza
comunicativa e la valenza simbolica più che l'originalità o l'autografia (DANESI
SQUARZINA [1998a], p. 109). (Morena Costantini)
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