LA COLLEZIONE GIUSTINIANI
I quadri antichi


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Carità - Luca Cambiaso
Cristo davanti a Caifa - Luca Cambiaso
Cristo davanti a Caifa - Gerrit van Honthorst
Cristo sostenuto dagli angeli - Paolo Caliari
Ritratto di giovane con un uffiziuolo in mano - Lorenzo Lotto
Sacra Famiglia - Girolamo Marchesi
L'Imperatore Augusto e la Sibilla Tiburtina - Benvenuto Tisi
Madonna col Bambino e S. Giovannino - Francesco Francia
Venere e amorini nel paesaggio - Battista Luteri
Ratto di Ganimede - Ignoto artista nordico
Testa di Cristo - Giuseppe Cesari (Cavalier d'Arpino)

Carità - Luca Cambiaso
Gli inventari della collezione Giustiniani menzionano ben dieci dipinti del grande pittore genovese; inizialmente essi erano collocati nelle stanze private di Benedetto (DANESI SQUARZINA [1997]) e confluirono poi, con Vincenzo, nella prestigiosa "stanza grande dei quadri antichi" (SALERNO [1960]). Cinque opere sono già menzionate nell'inventario della "Guardarobba", la cui redazione iniziò il 1° aprile 1600 subito dopo la morte del padre Giuseppe: pertanto, possiamo ritenere che si trattasse di beni di famiglia verso i quali vi era un particolare rispetto. Indubbiamente i fratelli Giustiniani erano consapevoli del ruolo chiave dell'artista ligure nel manierismo internazionale, della sua capacità di sommare esperienza venete e lombarde, e di fornire, in alternativa al michelangiolismo e al raffaellismo, un approfondimento delle eredità di Leonardo in termini di scienza ottica e studio dell'incidenza dell'atmosfera sui contorni, di costruzione dello spazio, di struttura della composizione; per Caravaggio e poi per Honthorst furono certo importanti l'uso sperimentale delle fonti di luce e la raffigurazione degli eventi sacri spogliati da qualsiasi retorica (DANESI SQUARZINA [1994]; DANESI SQUARZINA [1995], pp. 98-99). La giovane Madonna del Riposo della Fuga in Egitto (Roma, Galleria Doria Pamphilij), esile e dolcemente ripiegata su se stessa, mostra che il Merisi prese come modello proprio la Carità di Luca Cambiaso qui esaminata (sull'importanza del dipinto vedi SUIDA MANNING-SUIDA [1958], p. 154). Se un interesse per Cambiaso si legge in Caravaggio, esso si nutriva certo della sua personale intelligenza artistica ma anche dell'aura, vale a dire dell'importanza che al pittore di Moneglia veniva attribuita dai Giustiniani, che avevano visto da lui decorata la villa Cambiaso Giustiniani, appartenente al ramo genovese, e che lo tenevano in grande evidenza nella quadreria romana. La composizione ricalca la descrizione della Carità offerta Ripa (RIPA [1603], p. 64): "Donna vestita di rosso, che in cima del capo habbia una fiamma di fuoco ardente, terrà nel braccio destro un fanciullo, al quale dia il latte, & due altri gli staranno scherzando à piedi, uno d'essi terrà alla detta figura abbracciata la sinistra mano". Benché l'opera di Berlino sia senza possibilità di dubbio proveniente dalla collezione Giustiniani, Magnani esprime delle perplessità sulla sua provenienza basandosi sul presupposto che le repliche eseguite da Bernardo Strozzi nel Seicento dovettero essere realizzate a Genova, e che dunque a Genova l'opera doveva trovarsi in quegli anni (MAGNANI [1995], p. 280 e nota 42, p. 285). Della Carità del Cambiaso, in effetti, lo Strozzi eseguì di sicuro almeno tre copie, delle quali la prima sarebbe la tela oggi conservata in palazzo Rosso a Genova (cfr. GENOVA [1995], n. 11, p. 118). Ad ogni modo, l'opera è non solo nei due inventari dei beni del cardinale Benedetto (1600 e 1621) ma risulta anche ben descritta in un codicillo del suo testamento, con il quale il prelato disponeva di lasciare al cardinale Ubaldino "…il mio quadro della Carità di Luca Cambiago da Genova". La disposizione testamentaria venne disattesa dal marchese Vincenzo che diede all'Ubaldino "il mio quadro tondo di Giulio Romano" e conservò per sé la Carità di Cambiaso, dimostrando la sua considerazione per l'opera fino a spingersi a una manomissione delle volontà testamentarie del fratello (cfr. DANESI SQUARZINA [1994], pp. 384-385; DANESI SQUARZINA [1996], pp. 98-99, p. 108 e note nn. 35 e 36, in cui si dà anche bibliografia sull'influenza del Cambiaso su Caravaggio; il testamento è in DANESI SQUARZINA [1998], pp. 114-115). Il dipinto riappare descritto in tutti gli inventari successivi e viene persino copiato da David in occasione di una delle sue visite a palazzo Giustiniani, compiute tra il 1775 ed il 1780 (vedi il saggio di Pierre Rosenberg in questo stesso catalogo). Pertanto, il quadro presente nel 1818 presso i Doria (POLEGGI [1974], p. 212) a cui fa riferimento il Magnani ("La Vergine che allatta il bambino, ricavata appresso Correggio"), poteva essere una replica o persino un altro dipinto. Fra l'altro, Strozzi può aver visto il quadro presso i Giustiniani a Roma, dato che si ipotizza un suo soggiorno romano alla fine del primo quarto del Seicento (vedi, in proposito, M.L. Galassi in GENOVA [1995], pp. 44-45 e, soprattutto, GALASSI [1992], che collega ad una diretta frequentazione della collezione Giustiniani anche l'esecuzione dell'Incredulità di S. Tommaso di Strozzi, chiaramente derivata dal prototipo caravaggesco menzionato nell'inventario del 1638). Un'ulteriore conferma che la Carità di Cambiaso rimase fino al secolo XIX presso i Giustiniani viene dalla viaggiatrice Marianne Kraus che nel 1791 "in dem Palast Giustiniani" descrive "Luca Cambiaso: eine Mutter mit drei Kindern" (cfr. BROSCH [1996], p. 106). (Silvia Danesi Squarzina)

la tua fotoCristo davanti a Caifa - Luca Cambiaso
Definito "il più grande notturno del Cinquecento in Italia" fu preso ad esempio per le sue qualità luministiche dagli artisti olandesi che la frequentarono nel XVII secolo, costituisce un insuperabile esempio di quella produzione “a lume di notte” che conobbe una notevole diffusione nella seconda metà del Cinquecento. Il notturno, in cui l’oscurità è rischiarata dalla fede, è una simbologia che testimonia l’accostamento dell’artista alla religione riformata.
L'identificazione dell'opera con quella documentata in collezione Giustiniani fu proposta già dal Salerno (SALERNO [1960]) e può trovare una conferma significativa nel fatto che un dipinto di identica iconografia venga menzionato anche nell'"Entrata della Guardarobba" del cardinale Benedetto (inv. 1600, n. 22, ove viene descritto precisamente come composto da nove figure). È possibile, dunque, che esso sia appartenuto, insieme ad altri quattro dipinti di Cambiaso, già a Giuseppe Giustiniani (cfr. scheda ###). A questi elementi va aggiunta la notizia che insieme alla tela qui esposta l'Accademia Ligustica, fondata nel 1751, annovera fra i suoi beni una replica in gesso della Minerva Giustiniani nonché una copia della Galleria Giustiniana (entrambi provenienti da lasciti). La rilevanza di tali circostanze sembra così legittimare l'identificazione del pezzo Giustiniani con il bel dipinto oggi conservato a Genova. È da ritenersi superata, pertanto, l'ipotesi avanzata da Suida Manning e Suida che il dipinto fosse identificabile con il "quadro di Christo avanti Pilato" descritto da C.G. Ratti (RATTI [1780], p. 130) nel palazzo genovese di Giacomo Gentili (SUIDA MANNING-SUIDA [1958], p. 64). L'eccezionale qualità pittorica fa di questo dipinto uno dei pezzi più significativi della raccolta dei cosiddetti "quadri antichi" della collezione; l'affascinante ambientazione notturna dell'episodio di Cristo condotto dinanzi al Gran Sacerdote suscitò senza dubbio l'interesse di quei pittori caravaggisti, e soprattutto di Gerrit van Honthorst, che nel frequentare il palazzo ebbero l'occasione di studiarne l'effetto luministico. La presenza di tante opere del maestro genovese nella collezione Giustiniani testimonia i percorsi concreti ed evidenti dell'influsso di Cambiaso sulla pittura successiva. Peraltro, va anche sottolineata la dimensione non locale di questo pittore, i cui dipinti sono presenti in importanti raccolte di corte come quelle di Filippo II di Spagna e di Rodolfo II d'Asburgo. Databile dopo il 1570, il Cristo davanti a Caifa va considerato come uno dei più suggestivi esempi di quella produzione di quadri "a lume di notte" che proprio durante la seconda metà del Cinquecento sembra diffondersi come nuovo genere pittorico (SUIDA MANNING [1952] definisce il dipinto come il più grande notturno italiano). Si tratta di quel modo di dipingere classificato dal Lomazzo con la denominazione di "terzo lume primario", che caratterizzato da "fuochi, lucerne, facelle, fornaci e simili nasce, mostrando intorno una certa quantità di lume alle genti, secondo la forza del foco…"; proprio come nel dipinto qui esposto, "in diversi misteri di Cristo questo lume primario va rappresentato di notte, come quando è preso, constituito innanzi ad Erode, Anna e Pilato; e quando è flagellato, incoronato e schernito…" (LOMAZZO [1590???, ed. 1973], vol. II, Libro IV, pp. 194, 195). La diretta corrispondenza tra il dipinto della Ligustica e questo passo del "Libro dei lumi" di Giovan Paolo Lomazzo (ma non si dimentichi che già Leonardo, nel Trattato della pittura affrontava il problema di "come si deve figurare una notte"), documenta il consolidamento acquisito dalla rappresentazione di scene notturne nella produzione pittorica di fine secolo, lasciando peraltro trasparire i contenuti teologici che di fatto vi sottendono e che ne accentueranno la fortuna nel secolo successivo. Sono proprio le complesse trasformazioni politico-religiose determinate dalla Riforma protestante e quindi dalla Controriforma a sollecitare una nuova definizione della notte, non solo in senso metaforico come oscurità che la fede può rischiarare, ma anche in senso temporale, come momento adatto alla meditazione ed al raccoglimento (cfr. CORRAIN [1991]; DEL BRAVO [1985]). L'eterna contrapposizione tra luce e ombra intesa come lotta tra il bene e il male, peraltro, viene espressa con chiarezza dalle parole di Gesù, che nel dialogo con Nicodemo afferma che "chiunque fa il male odia la luce e non viene alla luce, perché le sue opere non siano smascherate. Colui invece che fa la verità viene alla luce perché si riveli che le sue opere sono operate in Dio" (Giov., 3, 20). Il significato teologico assunto dall'uso della luce artificiale nella pittura del tardo Cinquecento è stato richiamato in più occasioni anche nel caso specifico di Cambiaso, a proposito del quale si è potuto parlare persino di "precaravaggismo" (MAGNANI [1995], p. 278). La Profumo Müller, che ha riconosciuto nella produzione tarda dell'artista forti influenze della pittura tedesca, ha ipotizzato un'adesione del pittore, intorno al 1570, alla religiosità protestante (PROFUMO MÜLLER [1970], p. 37); a sua volta, Magnani si è dichiarato più propenso a collegare la spiritualità meditativa e raccolta ricorrente nei dipinti più maturi di Cambiaso al clima della riforma cattolica pre-conciliare sviluppatosi negli ambienti della Chiesa genovese, nonché al diffondersi dell'insegnamento di Ignazio di Loyola e dei suoi Esercizi spirituali (MAGNANI [1978]; MAGNANI [1995], pp. 223-224, nota 8). Non vi è dubbio, comunque, che l'emergere del notturnismo di Cambiaso, caratteristico di questi anni più tardi, vada ricollegato in qualche modo ad un diverso accostamento al divino, caratterizzato da una partecipazione interiore e diretta. Il dipinto della Ligustica si caratterizza, inoltre, per il forte geometrismo: una tendenza astrattizzante, rilevabile in numerosi altri dipinti del grande pittore ligure, sulla cui origine gli studiosi hanno elaborato interpretazione divergenti (PROFUMO MÜLLER [1970] la considera - al pari del notturnismo - frutto dell'adesione alla spiritualità protestante e tende comunque a identificarla soprattutto nella produzione più tarda; mentre MAGNANI [1978] la ritiene un'acquisizione di precedente e comunque diversa derivazione rispetto al luminismo tenebroso dell'ottavo decennio). Sta di fatto, che nel Cristo davanti a Caifa i personaggi sono costruiti attraverso una giustapposizione di volumi (sfere, cilindri, parallelepipedi) che sembra accentuare l'intensità dell'episodio, riducendo ai minimi termini la complessità della rappresentazione e conferendo al dipinto un carattere mistico e privato, adatto alla contemplazione e alla meditazione del singolo fedele (per la PROFUMO MÜLLER [1970], p. 37, "il vuoto cilindrico antistante al corpo di Cristo diviene così l'immagine stessa della morte"). La brutalità dell'evento è accentuata dal forte contrasto tra il volto dolce e rassegnato di Gesù e la fisionomia dei suoi persecutori, talmente animalesca e greve da sfiorare il grottesco (in questo, l'idea di accostare il dipinto a certi esempi nordici, anche di area fiammingo-olandese, appare piuttosto convincente). I dipinti a "lume di notte" presenti in collezione Giustiniani erano numerosi: oltre a quelli di Cambiaso (che comprendono, in aggiunta al Cristo davanti a Caifa, una "Madonna che tiene Christo bambino in grembo S. Giuseppe, e S. Elisabetta al lume di candela", inv. 1638, II, n. 127, ed una " Madonna che dà il Latte à Christo bambino et un' Angelo dipinto di notte con una Lucerna accesa", inv. 1638, II, 65), l'inventario del 1638 elenca opere di Bassano il Vecchio, Alessandro Turchi, Antonietto fiammingo, Annibale Carracci, Joachim von Sandrart, e naturalmente Gerrit van Honthorst. Le descrizioni di queste opere sfruttano appieno la terminologia che abbiamo riscontrato nel Lomazzo: si parla di "lumi di candela", "facelle", quadri "finti di notte", "torce", "candelieri" e si è tentati a considerare tali denominazioni come corrispondenti ad un preciso lessico iconografico che distingue tra la luce artificiale impiegata nelle scene di genere (così 1638, II, n. 251: "Un quadro di figurine picciole finto di notte [maniera antica] in tavola alta palmi 2. larga 1.? incirca con cornice rabescata di varij colori") e quella funzionale a sottolineare una epifania religiosa, corrispondente al "divin lume" (o secondo lume primario) di cui parla il Lomazzo. Una collazione tra gli inventari del cardinale Benedetto e quello del marchese Vincenzo Giustiniani rivela a colpo d'occhio quanto i quadri a "lume di notte" fossero numerosi nella raccolta del primo. Sappiamo, dal Malvasia, quanto il cardinale amasse la pittura "tenebrosa" (ne è una chiara testimonianza, oltretutto, la sua predilezione per la pittura del Garbieri), ma non andrà neppure omesso il fatto che, tra i caratteri che distinguono il buon pittore, Vincenzo loda in particolare, nell'"undecimo modo" di dipingere (quello "di dipignere con avere gli oggetti naturali davanti"), la capacità di misurare la luce, distinguendo "le parti oscure, e le illuminate, in modo che l'occhio resti soddisfatto dell'unione del chiaro e scuro" (GIUSTINIANI [s.d., ed. 1981], pp. 43-44). Del dipinto, si conserva una buona versione a Locko Park (segnalazione di Mary Newcome, riportata da MAGNANI [1995], p. 227 nota 25). (Irene Baldriga - Silvia Danesi Squarzina)


Cristo davanti a Caifa - Gerrit Van Honthorst
Il dipinto, che si impone all’osservatore con le dimensioni di una pala d’altare, può essere considerato come l’espressione del più maturo stile caravaggesco del pittore di Utrecht Gerrit van Honthorst. L’incontro dei due protagonisti viene qui interpretato in modo estremamente drammatico, riducendo l’ambientazione a pochi elementi essenziali ed illuminando i due personaggi con un semplice lume di candela. In merito alla identificazione del soggetto rappresentato, sono state avanzate numerose interpretazioni. Il dipinto viene descritto da Joachim von Sandrart, allievo di Honthorst a partire dal 1625 circa, nella sua Teutsche Academie (SANDRART [1675], vol. II, p. 303). Sandrart visitò Roma nel 1628 e vide il dipinto in palazzo Giustiniani. Egli identifica il dipinto come un "Cristo davanti a Pilato" ed afferma che questa grande scena notturna fu dipinta per Vincenzo Giustiniani, presso il quale Honthorst aveva soggiornato. Tuttavia, nell’inventario dei beni di Vincenzo Giustiniani, stilato nel 1638, il dipinto viene descritto come un "Cristo davanti a Caifa". Il racconto evangelico precisa chiaramente che Cristo fu condotto davanti a Pilato durante il giorno e tre evangelisti - Matteo, Marco e Giovanni - annotano che l’incontro con il Gran Sacerdote avvenne di notte. Pertanto, sembra che l’episodio raffigurato sia quello di "Cristo davanti a Caifa". È probabile che Honthorst abbia seguito il Vangelo di S. Marco (26, 57-66; 27, 1-14) ove sono menzionati i due falsi testimoni che accusarono Cristo di fronte al Gran Sacerdote. È così che andrebbero interpretati i due personaggi rappresentati in posizione appartata, dietro Caifa. Non vi è alcuna notizia documentaria certa in merito all’arrivo di Honthorst a Roma; tuttavia, sembra che il pittore olandese si sia stabilito in città intorno al 1610. Qui rimase fino al 1619; nell’ottobre dell’anno successivo era comunque rientrato a Utrecht. Il Cristo davanti a Caifa va datato all’ultima fase del suo soggiorno romano: Judson (JUDSON-EKKART [1999]) lo ha datato al 1617 circa, ovvero poco prima della esecuzione della Decollazione di S. Giovanni Battista di S. Maria della Scala, dipinto nel 1618 (vedi scheda n. ##). PAPI ([2000], pp. 136-137) ha proposto una datazione intorno al 1615 ed ha ipotizzato che il dipinto abbia costituito un importante modello per il Cristo che appare alla Madonna di Bartolomeo Manfredi (1621-1622), anch’esso proveniente dalla collezione Giustiniani (vedi scheda n. ##). Non vi è dubbio che il dipinto esercitò una grande influenza sull’ambiente artistico contemporaneo e che divenne molto famoso quando l’artista era ancora in vita. Ne furono tratte numerose copie già da artisti contemporanei - due delle più importanti sono oggi nella Sacrestia di S. Croce in Gerusalemme ed in S. Andrea della Valle a Roma - ma ne sono note almeno altre quattro. Nel catalogo dell’artista pubblicato recentemente da Judson ed Ekkart si elencano non meno di ventotto copie, dipinte, disegnate o tradotte a stampa (JUDSON-EKKART [1999], p. 81). Esiste anche una copia con varianti eseguita da Matthias Stom, oggi conservata presso lo Ackland Art Museum (Chapel Hill, North Carolina, fig. 1). Benché il dipinto sia fortemente influenzato da Caravaggio, Judson ed Ekkart vi rilevano anche un debito nei confronti della pittura veneziana, specialmente nei confronti del Cristo davanti a Pilato eseguito da Tintoretto per la Scuola di S. Rocco. I due studiosi avanzano anche l’interessante ipotesi che Honthorst abbia studiato la luce artificiale utilizzata da Luca Cambiaso nel suo Cristo davanti a Caifa (vedi scheda n. ##), ricordato nel 1600 nella "Entrata della Guardarobba" di palazzo Giustiniani (DANESI SQUARZINA [1997], p. 779, n. 22). Nonostante le numerose differenze ravvisabili nella composizione, entrambi i dipinti mostrano figure intere illuminate da un lume di candela che focalizza l’attenzione dell’osservatore sulle espressioni dei protagonisti. Cambiaso era un artista molto amato da Benedetto Giustiniani e potrebbe essere stato raccomandato al giovane pittore olandese come modello degno di studio. (Christopher Brown)

Cristo morto sostenuto dagli angeli - Paolo Caliari
La pubblicazione degli inventari della collezione del cardinale Benedetto ha stabilito con certezza che quest'opera di Veronese, destinata alla devozione privata, entrò in palazzo Giustiniani prima dell'anno 1621 (DANESI SQUARZINA [1997]). Ereditato dal marchese Vincenzo, il dipinto è menzionato nell'inventario del 1638 e rimase di proprietà della famiglia fino alla sua acquisizione da parte del re di Prussia nel 1815. Benché i Giustiniani considerassero la tela un'opera autografa del maestro, agli inizi del XX secolo l'attribuzione a Veronese fu messa in discussione da Fiocco e da altri specialisti che ritennero più opportuno classificarla come "opera di bottega". Tuttavia, più recentemente, le persuasive argomentazioni di Terisio Pignatti sembrano avere chiarito che, con ogni probabilità, il dipinto è frutto di una collaborazione tra Paolo Veronese, al quale si deve l'invenzione della composizione e la raffigurazione del Cristo, e suo figlio Carletto, probabile autore dei due angeli. L'artista si interessò al tema del "Cristo morto tra due angeli" soprattutto durante l'ultima fase della sua carriera elaborandone molteplici versioni (con uno o più angeli, la Madonna o un donatore) e destinandole tanto a commissioni pubbliche che private (PIGNATTI [1995], pp. 324-326). Sul verso di un disegno a penna, databile al 1573, oggi conservato a Stoccarda, Veronese fece due schizzi quasi identici di un gruppo a tre figure composto da Cristo sostenuto da due angeli. Contrariamente all'ipotesi proposta da Deusch e Cocke i due schizzi non possono essere considerati come preparatori al dipinto di Berlino, e vanno piuttosto ritenuti studi sul tema precedenti all'opera qui presa in esame. Nel dipinto di Berlino, infatti, Veronese modifica gli studi di Stoccarda, riducendo il formato dalla figura intera ai tre quarti e trasformando la posizione del corpo di Cristo e la sua relazione con gli angeli, che nel disegno tradivano una insolita, esplicita, imitazione della Pietà di Michelangelo, oggi nel Duomo di Firenze. La composizione e lo spirito che caratterizzano il quadro di Berlino riflettono più direttamente il capolavoro di Veronese oggi conservato a San Pietroburgo, ed anche la sua datazione sembra collegabile a questo momento della carriera del maestro, ovvero tra gli anni 1580 e 1582. Come hanno rivelato le analisi ai raggi X, anche nel caso della tela dell'Ermitage l'invenzione originaria del pittore prevedeva l'inserimento di un secondo angelo. Piuttosto peculiare, nell'iconografia del dipinto berlinese, è l'annullamento di ogni riferimento narrativo all'episodio della Deposizione. Inquadrando i personaggi in modo così ravvicinato, Veronese pone la figura di Cristo in primissimo piano, con il risultato che il suo corpo, così come la mano dell'angelo sulla sinistra, sembra spingersi espressivamente verso l'osservatore. Inoltre, l'artista accentua il pathos della rappresentazione giustapponendo la testa di Cristo, misteriosamente illuminata come da una luce sovrannaturale, e quella dell'angelo, raggiante ed animata dalla massa di riccioli color rame. Memore della tradizione artistica veneziana, e soprattutto delle numerose versioni del soggetto dipinte da Giovanni Bellini, l'enfasi visiva conferita da Veronese al corpo di Cristo come simbolo del sacrificio eucaristico riflette direttamente la spiritualità religiosa veneziana all'indomani del Concilio di Trento (REARICK [1988], pp. 140, 195) ed il voto offerto dalla Serenissima a Cristo Redentore in seguito alla cessazione della devastante peste del 1575-1577. Non vi è dubbio che l'acquisto del dipinto di Veronese da parte del cardinale Benedetto fu certamente influenzato dal carattere sacro della sua iconografia. La collezione del cardinale, infatti, era composta prevalentemente da immagini di carattere devozionale: immagini della Madonna col bambino, Crocifissioni e ben altri cinque dipinti rappresentanti la Pietà. Che Benedetto non fosse, comunque, insensibile alla qualità pittorica del dipinto è dimostrato dal fatto che esso fosse collocato nella "Galleria Grande" di palazzo Giustiniani. Poiché il cardinale aveva precedentemente acquistato un altro dipinto di Veronese (un "Adamo ed Eva con molti animali e paesi", menzionato al n. 80 dell'inventario della Guardarobba e non ancora rintracciato), appare suggestiva l'ipotesi che durante il suo soggiorno a Bologna come legato pontificio egli non si fosse limitato a coltivare un particolare interesse per la pittura bolognese e che avesse sviluppato un certo gusto anche per la scuola veneziana, come elemento fondamentale della riforma pittorica elaborata dai Carracci. Forse fu anche l'incisione eseguita da Agostino Carracci dalla Pietà di Veronese oggi a San Pietroburgo ad influenzare il suo acquisto di un altro dipinto del maestro rappresentante lo stesso soggetto. Questa ipotesi trova sostegno nel fatto che l'inventario dei beni di Vincenzo Giustiniani menziona "la Madonna e Christo morto e due Angeli […] di mano, si crede, di Paolo Veronese" (inv. 1638, II, n. 86), ovvero un dipinto che possiamo considerare come una replica, in formato ridotto, della tela dell'Ermitage. La presenza di questo dipinto nella collezione suggerisce un gusto particolare di Vincenzo per la pittura di Veronese, un gusto che oltretutto ben si accorda con l'incredibile aumento di popolarità subito dall'opera del maestro presso i collezionisti romani negli anni intorno al 1630 (questo è il tema di un saggio di chi scrive, in collaborazione con William Barcham, in corso di pubblicazione). L'apprezzamento del Cristo morto di Berlino da parte di Vincenzo è peraltro testimoniato dal suo trasferimento, dopo la morte di Benedetto, nella "Stanza Grande dei Quadri Antichi", il luogo ove erano conservati i dipinti di maggior pregio (DANESI SQUARZINA [1998a], pp. 107-110). Qui, in accordo con le sue preoccupazioni di conoscitore, egli collocò il Cristo morto con l'Adamo ed Eva di Veronese, già nella collezione di Benedetto, e con un'altra opera autografa della sua propria raccolta, "una mezza figura piccola di S.ta Giustina martire" (inv. 1638, II, n. 35). (Catherine R. Puglisi)

Ritratto di giovane con un uffiziolo in mano - Lorenzo Lotto
Il quadro fu elencato per la prima volta nell’inventario steso nel 1638 dopo la morte di Vincenzo Giustiniani e descritto quale autoritratto del Lotto: (39) "Un altro quadro con un ritratto vestito all’antica con un offitiolo in mano con una portiera rossa ritratto di Lorenzo Lotti fatto da se stesso in tela alta pal. 3 lar. pal. 2 H con cornice nera" (SALERNO [1960], p. 137). Il Salerno aveva notato una certa discrepanza tra le misure indicate nell’inventario e quelle che il quadro ebbe dal tempo dei cataloghi di Parigi (1812) fino a prima dell’ultimo restauro del 1999: cm 48,8 ´ 40,3 versus cm 66,9 ´ 55,7, se prendiamo le indicazioni dell’inventario letteralmente. Ma né il Salerno né altri autori successivi si erano meravigliati dell’indicazione "con un offitiolo in mano", cioè un libro che contiene il mattutino e le altre preghiere in onore della Vergine (vedi SCHLEIER [2000], pp. ?). Nel dipinto, come lo conoscevamo fino al 1999, mancavano infatti la mano e il libro. Ovviamente il ritratto fu drasticamente decurtato, soprattutto in basso e ai lati, probabilmente poco prima della vendita parigina, forse perché era danneggiato ai bordi, ma probabilmente anche perché si volevano adattare le sue misure a quelle notevolmente inferiori di un altro presunto autoritratto di un pittore (si credeva nell’inventario del 1638 e ancora nei cataloghi parigini e nei primi cataloghi berlinesi che fosse di Andrea Schiavone, mentre era anch’esso opera di Lorenzo Lotto, cat. 182). Il Landon (Galerie Giustiniani, Catalogue figuré des tableaux de cette célèbre Galerie by Galerie Giustiniani Paris, France; London, Charles Paul, 1760-1826) infatti ritenne che i due quadri fossero dei pendants e li riprodusse uno accanto all’altro. Anche questo quadro subì una leggera decurtazione, ma era più piccolo fino dall’inizio e certamente lo era già nel 1638 ("tela da testa"; misure attuali: cm 48,4 ´ 40). Durante il recente restauro del quadro cat. 320 con la portiera rossa e la veduta di mare e il porto (la laguna, il molo di Venezia, come già sospettato da BERENSON [1895] e da altri), effettuato nel 1999 a Los Angeles nel J. Paul Getty Museum da Mark Leonard, il dipinto fu tolto dal telaio che era stato probabilmente realizzato a Parigi. La tela originale dipinta era stata piegata su tre lati di questo telaio, in basso e ai lati, e queste strisce dell’epidermide pittorica erano state in parte ridipinte. La tela fu messa su di un nuovo telaio, più largo: due strisce di 1,7 cm di larghezza della superficie originale furono recuperate ai lati e in basso una striscia di 1,7 cm di altezza. A destra l’estensione della veduta della laguna e il molo con i battelli che si vede dietro il muro è ormai notevolmente allargata. In essa si distinguono una nave grande senza vele e due battelli con vele bianche. Il muro con l’edera che si arrampica si estende più verso destra. In basso la pulitura ha rivelato una parte dell’indice e l’unghia del pollice della mano destra, che teneva il libro. Manca sempre una striscia di circa 16 cm di altezza in basso, su cui era dipinta la mano con il libro. Non è facile immaginare la posa della mano che teneva il libretto, mentre l’indice puntava in alto. Il restauro ha restituito in parte l’equilibrio tra figura e fondo che il quadro possedeva in origine. Ciononostante l’antico equilibrio rimane purtroppo per sempre sensibilmente turbato. Dopo il restauro anche il vestito grigio-nero ha riacquisito più corposità e volume e il suo disegno "interno", la sua struttura, è diventato meglio leggibile: le strisce verticali e applicate in parte con i bottoni si stagliano più nettamente dal fondo e danno un rilievo più ricco e movimentato. Sopra il vestito l’uomo porta una specie di cappa o manto, che copre la spalla sinistra, ma non quella destra. Il quadro viene generalmente datato intorno al 1526 circa, cioè subito dopo il rientro del Lotto a Venezia da Bergamo nel dicembre del 1525. Il Berenson (BERENSON [1895] e [1901]) e la critica successiva lo accostarono al Ritratto di un monaco domenicano a Treviso (Museo Civico, f.d. 1526) e al Giovane col libro (Milano, Castello Sforzesco; su tavola, molto più piccolo). L’idea che fosse un autoritratto (inventario del 1638, LANDON [1812], presente nei cataloghi berlinesi fino al 1878, CROWE-CAVALCASELLE [1876]) fu già respinta dal Morelli (LERMOLIEFF [1880]), dal Berenson ([1895], [1901] rist. [1956-1957]) e dalla critica successiva (ad eccezione di KUNZE [1931]), anche perché al tempo della probabile esecuzione del dipinto il Lotto aveva un’età maggiore del giovane raffigurato in questo ritratto, che il Berenson giudicò trentenne. Nell’opera del Lotto i ritratti a mezzo busto sono pochi e per la maggior parte limitati ai primi anni di attività del pittore. La maggior parte dei ritratti maschili, specialmente quelli degli anni Trenta e Quaranta, sono dei ritratti a tre quarti di figura, con il viso più o meno ritratto frontalmente, con formati che andavano dai 78 ai 115 cm di altezza. Fra i ritratti a mezza figura, quelli che per taglio e misure sono vagamente paragonabili a quello Giustiniani sono il Ritratto di gentiluomo in pelliccia (collezione privata) del 1532-1534 (?), il Ritratto di gentiluomo con rosario (Nivagaard, coll. Haage) del 1521-1523 circa e il Ritratto di Giovanni Maria Pizoni (?) del 1538 circa (collezione privata). Sul telaio realizzato nel 1812 circa, ora rimosso, si trovavano un sigillo Giustiniani, un sigillo del ministro prussiano delle Finanze (applicato all’ingresso a Berlino nel 1815), il sigillo del Museo di Berlino, applicato nel 1878, il numero 57 dipinto in rosso (corrispondente a quello indicato dal Landon). Sempre degne di nota sono le parole con cui il Berenson (citate anche dal Bianconi 1955), ignaro del fatto che il giovane in origine teneva un uffiziolo nella mano, ha caratterizzato questo ritratto: "This portrait may be called Lotto’s Homme au Gant. It has the masterly directness and simplicity of that great Titian, but is not so impersonal, is more sensitive, more intellectual - an Italian of the first half of the sixteenth century, who belongs to neither of the varieties catalogued by Stendhal [...] The young man before us is neither cut-throat nor artist". Il confronto con il celebre ritratto si impone per l’eleganza e nobile distanza del personaggio, anche se le differenze sono notevoli, ma si è rivelato quasi profetico in quanto il Berenson ha scelto per confronto proprio un ritratto in cui le mani assumono un ruolo tanto importante. (Erich Schleier)

Sacra Famiglia - Girolamo Marchesi
L’opera è in buone condizioni di conservazione, nonostante sia interessata, a circa metà dell’altezza, da una fessurazione del supporto ligneo in senso orizzontale, e si osservino, in particolare nella zona del gomito della Vergine, una serie di piccole cadute di colore integrate da un vecchio restauro. Sul libro tenuto in mano da S. Giuseppe, e che la Madonna sta leggendo, si leggono in lettere ebraiche i versetti iniziali del cantico: "Magnificat Anima Mea Dominum". Il dipinto fu probabilmente acquistato dal cardinale Benedetto Giustiniani nel periodo in cui si trovava a Bologna in qualità di Legato, perché non risulta nell’Entrata della Guardarobba del 1600, stesa prima di ottenere quella carica (DANESI SQUARZINA [1997]); appare invece nell’inventario del 1621 come "Una Madonna in tavola con nostro Signore in braccio che dorme e San Gioseppe che guarda il libro della Madonna" (DANESI SQUARZINA [1997], p. 789). Solo nell’inventario del 1638 appare anche la dicitura "fatto nella scuola de’ Correggi" (SALERNO [1960], p. 138). Il riferimento emiliano si tramutò dapprima in lombardo, con l’assegnazione a Bernardino Luini fatta da DELAROCHE [1812], seguito da LANDON [1812] e dai primi cataloghi del Museo berlinese (VERZEICHNISS [1826]), e poi in ligure, fin da quando CROWE-CAVALCASELLE ([1871], vol. II, p. 72) lo attribuirono a Bernardino Fasolo, con un’opinione condivisa successivamente da Adolfo Venturi (VENTURI [1901-1939], 1915, vol. VII, p. 1094), da tutte le guide e i cataloghi del Museo di Berlino e dalla Cataldi Gallo (in DIZIONARIO BIOGRAFICO DEGLI ITALIANI [1960-], vol. 45, 1995). Roberto Longhi, con un parere orale dato alla Galleria nel 1929, era tuttavia nettamente contrario al nome del Fasolo ed alla collocazione ligure del quadro, che preferiva pensare di area cremonese; parimenti il Castelnovi (CASTELNOVI [1970] e [1987a]) negava ogni connessione dell’opera con Bernardino, preferendo un riferimento genericamente lombardo, e la Fontanarossa (proposta subito accettata da DANESI SQUARZINA [1998a], p. 118) rilevava che togliere quest’opera dal catalogo di Bernardino Fasolo significava rimuovere l’inciampo di una sua evoluzione in senso leonardesco, che da sempre aveva condizionato lo studio dell’artista (FONTANAROSSA [1998]). Secondo Crowe e Cavalcaselle, il dipinto manca di chiarezza e di luce, mentre le figure sono secche e fiacche, ma trattate tuttavia liberamente come in Pierfrancesco Sacchi; opinione basata evidentemente sulla mancanza di simmetrie compositive interne di matrice classica, che non poteva piacere al gusto accademicamente, se non puristicamente, educato dei due autori; e su un senso del movimento in cui già traspare qualche sentore della Maniera moderna, o almeno del versante più emotivamente mosso del gusto di primo Cinquecento. Anche Adolfo Venturi, del resto, parlava di un tentativo "di muovere a vortici i grossi ruvidi panneggi"; tornando tuttavia a dare, dell’opera, una collocazione "antico-moderna", col suggerire contemporaneamente richiami, per me affatto inesistenti, ad Alvise Vivarini e ad Andrea Solario. La tavola è stata restituita a Girolamo Marchesi da Cotignola, su mio suggerimento, da Raffaella Fontanarossa (FONTANAROSSA [1994-1995] e [1998]); né ho mai trovato successivamente argomenti per mutare opinione. Il volto della Vergine, in effetti, appare quasi sovrapponibile a quello della sua omonima nella pala oggi al Museo di Forlì, riferita già da Ferdinando Bologna (BOLOGNA [1971]) ad una data di pochissimo precedente alla pala olivetana di S. Michele in Bosco, nella città felsinea, ed oggi nella Gemäldegalerie di Berlino, commissionata nel 1525 e conclusa nel 1526, come esplicita la data iscrittavi. Ma altri confronti, parimenti probanti, si potranno istituire anche con i vari profili femminili, spesso in controparte, nella pala con lo Sposalizio della Vergine nella Pinacoteca bolognese, databile, sempre secondo il Bologna, al 1523 circa, o col profilo del santo di destra nella pala dell’Istituto bolognese dei Bastardini, dove porta tuttora il nome incongruo di Biagio Pupini, che spetta (sulla base della somiglianza con la pala già a Lugo di Romagna) al 1528-1530 circa; mentre il tipo del S. Giuseppe si ritrova nel probabile Giuseppe d’Arimatea della Deposizione di Cristo della Pinacoteca di Brera a Milano, cui meglio conviene, a mio avviso, per i maturi caratteri di stile, una data nei primissimi anni Venti, piuttosto che quella, consuetamente ripetuta, al 1516-1518. Quanto al paesaggio, simili dettagli di edifici rustici stagliati contro le montagne e il cielo, e accompagnati da magri e flessuosi alberini, ricorrono, ad esempio, nella pala olivetana di Berlino, del 1526, o nell’altra, firmata e datata 1528, già in S. Francesco a Lugo di Romagna, e nel 1991 presso la Walpole Gallery di Londra; per non dire che è tipicamente del Marchesi, rilevabile in quasi tutte le sue opere post 1520, quella certa idea di varietà che gli fa giustapporre, nei volti, profilo a perfetta frontalità e a tre quarti, come nella tavola in discussione. In forza di quanto sin qui osservato, l’opera andrà collocata, nel percorso dell’artista, ad una data attorno al 1525. Ma si deve anche affermare che il dipinto in questione costituisce uno dei raggiungimenti qualitativi più alti del Marchesi, che molto spesso, nella produzione di piccole operette da camera come queste, sa essere alquanto corsivo; mentre, nella bella idea del bimbo abbandonato nel sonno in braccio alla madre sembra avvertibile persino, più ancora che la stregata fantasia del Genga (col quale l’artista vantava antichi sodalizi lavorativi), un qualche sentore di idee lottesche, come quelle della Madonna del latte nel Museo Pu¹kin di Mosca. Per quali vie queste gli siano pervenute, è difficile dire; ma, dato che il dipinto moscovita, collocabile attorno al 1520, appartiene al periodo bergamasco del Lotto, non si può escludere che quell’immagine, in una versione a noi ignota, sia transitata per le Romagne dentro la borsa di uno dei tanti mercanti orobici che avevano interessi commerciali nelle Marche, e facevano perciò la spola fra le due località.
(Mauro Lucco)

L’imperatore Augusto e la Sibilla tiburtina - Benvenuto Tisi
Nell’inventario della collezione Giustiniani del 1638, II, n. 83, redatto alla morte del marchese Vincenzo, compare al n. 83 un dipinto il cui soggetto e le cui misure corrispondono al dipinto oggi al Wallraf-Richartz-Museum: "un quadro con l’historia della Sibilla che mostra in Gloria Christo nato con diverse figurine depinto in tavola. Alt. Pal. 3 lar. 1, Þ in circa di mano si crede di Benvenuto da Garofalo con cornice nera" (cfr. SALERNO [1960]). Un palmo romano equivale a cm 22,325; quindi l’altezza del quadro terminante in un arco a tutto sesto corrisponde quasi perfettamente a quella del dipinto. Oltre al dipinto di Colonia sono note altre due versioni del medesimo soggetto: la prima conservata a palazzo Pitti a Firenze presenta una medesima redazione e misure quasi identiche (CIPRIANI [1966], p. 86), la seconda, datata 1544, compositivamente diversa e di formato rettangolare è oggi nella Pinacoteca Vaticana (NEPPI [1959], p. 54). Quest’ultima raffigura, davanti a un palazzo sullo sfondo a sinistra e a tre figure maschili, l’imperatore Augusto, coperto da un mantello di ermellino e con la corona in capo, posto alla stessa altezza della Sibilla. La profetessa tiburtina, alle cui spalle troneggia un albero di alloro, solleva la mano sinistra per indicare l’apparizione in cielo della Madonna con il Bambino; a partire dal primo piano a destra si dispiega un variegato paesaggio fluviale e collinare che si conclude con una veduta di città sullo sfondo (fig. 1). L’opera, quindi, differisce in modo significativo dalle due versioni tra di loro identiche di Colonia e di Firenze. In esse Augusto è rappresentato seduto mentre scherma con la mano sinistra gli occhi, come per farsi ombra e seguire l’indice della Sibilla, in piedi dietro di lui, che lo scruta con espressione severa. L’imperatore non porta la corona, che è ai suoi piedi in primo piano, e tre figure maschili, poste davanti ad alte basi di colonne, seguono la scena con lo sguardo e con i gesti. I contorni appaiono precisi da un punto di vista disegnativo e i corpi sono resi plasticamente. Il mantello, la camicia e la veste di Augusto sono giallo intenso, verde e blu; la Sibilla porta sulla sottoveste blu una tunica verde e un mantello rosso e ha sulla testa un turbante arancione scuro. I motivi architettonici che fanno da contorno sono molto armoniosi e in posizione di dominio appaiono i due protagonisti, dietro ai quali lo sguardo spazia verso un paesaggio con caratteristiche quasi nordiche. La Madonna con il Bambino sulle nuvole tocca quasi il dito della Sibilla, la cui figura è rappresentata esageratamente allungata con un gusto che si rivela già manierista. Inoltre il ritmo compositivo del dipinto segue una curva ad esse che parte dalla gamba appoggiata di Augusto e prosegue lungo il braccio e la spalla destra di quest’ultimo, il braccio sinistro, la spalla e il braccio destro della profetessa sino al dito indice che si congiunge al Bambin Gesù con una ben consapevole retorica dei mezzi pittorici ai fini del messaggio insito nel dipinto. Il tema rappresentato è la profezia della nascita di Cristo che la Sibilla tiburtina espresse all’imperatore Augusto. Augusto era Cesare e Pontefice massimo di Roma e al suo impero si collega la "pax augusta", il più lungo periodo di pace dell’impero romano. La profezia divenne il punto di congiunzione tra l’Antico e il Cristianesimo; infatti, a seguito del primo censimento della popolazione, che era stato ordinato da Augusto (Luca 2,1), venne riferita, così come era stato profetizzato, anche la nascita di Cristo in una stalla a Betlemme. Già prima della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, decisiva per il Medioevo e per l’età moderna, che il domenicano poi arcivescovo di Genova cominciò a scrivere dal 1263, già Virgilio, nella quarta Egloga, aveva richiamato l’attenzione sulla venuta di un bambino in terra. Le leggende successive su Augusto tesero a trasfigurare la figura dell’imperatore, che rinunciava alla propria somiglianza con Dio, e legarono la profezia del Campidoglio, dove l’imperatore aveva fatto erigere un grande altare in onore del "bambino giudeo venuto dal cielo", a un tema prettamente mariologico: la fondazione della chiesa S. Maria in Aracoeli. Di questo successivo retroscena politico-ecclesiastico, di cui Jacopo informa, non vi è, tuttavia, alcuna traccia nel quadro di Garofalo. Le costruzioni cubiche e il palazzo potrebbero designare il colle romano, ma non la chiesa, inoltre il cerchio di sole dorato della Legenda Aurea circonda solo la Madonna con il Bambino. Tuttavia il divino imperatore è caduto in ginocchio ed è completamente in balia della profetessa, che in rigorosa verticale indica imperiosamente verso l’alto. L’interpretazione di Garofalo si discosta quindi dai prototipi antichi, da Cavallini a Ghirlandaio, e si rifà molto chiaramente ad alcune esperienze romane. La maestosa figura della Sibilla, evidentemente antichizzata, è forse riconducibile a Raffaello (affresco rappresentante la Sibilla in S. Maria della Pace; Disputa nelle Stanze Vaticane) e ricorda nel gesto imperioso del braccio sollevato il modo antichizzante di rendere le figure di Baldassare Peruzzi, così come è possibile vedere nell’affresco per la chiesa S. Maria in Fontegiusta a Siena, datato al 1530 da Frommel, opera in cui, nella figura principale, è possibile rintracciare stringenti somiglianze. Garofalo, la cui bottega aveva sede a Ferrara, ottemperava a imponenti commissioni per affreschi e pale d’altare tra Roma e Bologna e doveva certamente aver saputo della fuga di Peruzzi a Siena a causa del Sacco di Roma del 1527. Quest’ultimo morì un anno prima dell’esecuzione del dipinto di Colonia e l’affresco di Fontegiusta era uno dei suoi lavori più importanti per il riferimento alla Madonna di Foligno di Raffaello, che aveva, anche per Garofalo, valore esemplare. L’apparizione della Madonna con il Bambino e il gesto dell’indice in quanto tale erano però già da tempo componenti fisse dell’iconografia. Garofalo, quindi, portò a una sintesi una collaudata tradizione pittorica. Altrettanto si può dire dell’impostazione stilistica, debitrice delle tendenze e degli influssi della pittura a Roma e a Ferrara. Del giorgionismo veneziano dei primi anni non vi è più alcuna traccia. Il linguaggio formale del disegno si riallaccia, da un lato, alla tradizione ferrarese di Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa sino a Dosso Dossi, Ludovico Mazzolino e Girolamo da Carpi, con i quali Garofalo è in uno stretto rapporto di contemporaneità oltre che di lavoro; dall’altro il colorismo intenso e brillante e la plasticità delle figure, accentuata dagli effetti luministici, vanno ben oltre Ferrara e derivano, sebbene anche Francesco Francia e Bologna abbiano la propria parte, da influenze romane e raffaellesche nel senso di un classicismo ispirato. Come insegna il paragone con Peruzzi, Garofalo introduce senz’altro già elementi manieristi. Per quanto si tratti di altri temi, si avverte nelle composizioni delle opere originali di Garofalo - e si ricordi il quadro della Gemäldegalerie di Dresda rappresentante Poseidone e Atena - una preformulazione nel tema e nell’interpretazione già antichizzante per quel tempo. Un "classicismo romano" si rintraccia anche nell’Adorazione dei Magi del Rijksmuseum di Amsterdam, che contiene altrettanti elementi paragonabili nel linguaggio figurativo ed è databile al terzo decennio. Ancora in quest’opera si ritrova il gesto di indicare verso il cielo formulato da Raffaello. Così come per i suoi contemporanei già citati, il repertorio di Garofalo, in considerazione anche delle numerose commissioni, si distingue per il lungo perdurare di motivi ricorrenti e di ripetizioni, il che spiega le due ulteriori versioni del tema oggi a Firenze e a Roma. (Ekkehard Mai)

Madonna con bambino e S. Giovannino - Francesco Francia
Il dipinto viene considerato unanimemente opera della bottega di Francesco Francia: la sola figura della Vergine sembra ascrivibile, in parte, all'intervento diretto del maestro (NEGRO-ROIO [1998], p. 232, n. 137). Come in tutta la produzione tarda del Francia, risulta molto difficile riuscire a distinguere le responsabilità degli eventuali collaboratori: osservazioni di carattere morelliano possono legittimare confronti con altre opere note della cerchia operante nella bottega durante gli ultimi anni di attività del maestro: confronti plausibili sono stati proposti dalla Roio con la tavola già in collezione Lord James Stuart (NEGRO-ROIO [1998], p. 136, n. 232). Già Crowe e Cavalcaselle consideravano il dipinto come una copia di un allievo del Francia (CROWE-CAVALCASELLE [1912], vol. II, p. 277, nota 2). Non vi è dubbio, peraltro, che l'opera sia articolata su un lessico manierato, privo di qualsiasi brio inventivo. Essa si colloca nell'ambito dell'abbondante produzione di dipinti devozionali elaborata, soprattutto durante il secondo decennio del secolo, dalla bottega del Francia. Il forte divario di qualità stilistica riscontrabile in tale produzione si manifesta spesso all'interno di uno stesso dipinto, ove a volte un intervento diretto del Maestro può essere riconosciuto in piccole porzioni della composizione. Tale pratica di bottega conduce spesso ad un risultato freddo e artificiale, ove le figure si dispongono quasi paratatticamente, giustapponendosi su sfondi paesaggistici di pura fantasia in uno schema iconografico tradizionale e privo di inventiva. È questo l'effetto suscitato dalla tavola di Berlino, nella quale i personaggi appaiono isolati, come incapaci di dialogare fra loro. L'interesse di Benedetto Giustiniani per la pittura del Francia è ben documentata dai resoconti del Malvasia, che nelle Vite dei pittori bolognesi riferisce numerosi aneddoti relativi alla passione collezionistica del cardinale. Come noto, Benedetto fu legato pontificio a Bologna dal 1606 al 1611; durante gli anni del suo mandato, egli ebbe occasione di stringere rapporti con molti pittori locali, tra i quali Lorenzo Garbieri, al quale commissionò la decorazione della chiesa di S. Paolo (BROGI [1989]), ed Alessandro Tiarini. Sembra che a quest'ultimo, in particolare, il cardinale fosse solito chiedere di "aggiustare" i dipinti del Francia da lui acquistati: "Comprando tutto il dì questo eminentissimo Madonne di Francesco Francia e di Pietro Perugino, allora pure in tanta stima, e facendoli a lui aggiustare a suo capriccio: fa torto, gli venne detto un giorno, V.S. Illustrissima a due in un istesso tempo: a questi antichi maestri così bravi, stimandoli degni di correzione; a me, che per servir Lei, son forzato ad esser così temerario, e a fare un tal mancamento in porvi le mani…" (MALVASIA [1678-1769], p. 139). D'altronde, sappiamo che la passione collezionistica del Giustiniani fu tale da indurlo a compiere atti di autentica frode: è ancora il Malvasia a narrare come Benedetto fece sostituire di nascosto il S. Sebastiano del Francia conservato nella cappella Pandolfi da Casio presso il monastero della chiesa di S. Maria della Misericordia presso Bologna con una copia ("…non potendone ottenerne l'acquisto da que' religiosi per qual si fosse gran prezzo offerto loro, facendone ricavare almeno una copia, questa ben anche cattiva e mal fatta riposta nella stessa cornice, vi restò, come anch'oggi si vede, in luogo dell'originale", MALVASIA [1678-1769], vol. I, p. 49). Gli inventari della collezione di Benedetto Giustiniani confermano in pieno le indicazioni del Malvasia (cfr. DANESI SQUARZINA [1997]): l'inventario del 1621 menziona ben nove dipinti attribuiti al Francia (nove, se vogliamo riconoscere nel "San Sebastiano frezzato" corrispondente al n. 82 quello del Monastero della Misericordia); tutte queste opere furono comprate con ogni probabilità durante o dopo il soggiorno bolognese, poiché nessuna di esse è presente nell'"Inventario della Guardarobba" stilato nell'anno 1600. (Irene Baldriga)
Venere e amorini nel paesaggio - Battista Luteri
In buone condizioni di conservazione, il dipinto è stato di recente radiografato presso il Gabinetto di Restauro del Museo (un ringraziamento a Erich Schleier che ha fornito le radiografie). Le immagini ottenute evidenziano una serie di cambiamenti apportati all’immagine in corso d’opera, mutamenti progettuali originariamente non previsti. Così, ad esempio, in basso a sinistra, il secondo amorino in ombra che regge il canestro coi gioielli appare essere di stesura molto più fluida e leggera rispetto all’altro vicino, e probabilmente un’aggiunta dell’ultimo minuto; l’amorino con l’arco, nelle immediate vicinanze, mostrava anche una gamba ripiegata, come se stesse salendo dal basso, anziché solo il busto come ora si vede; l’albero su cui sta arrampicato un altro amorino che passa i frutti a quello più in basso aveva un grosso ramo che si apriva verso sinistra, in corrispondenza al ramo tagliato presso la faccia del putto che attualmente si vede: evidentemente la composizione è stata corretta semplicemente troncando il ramo presso al tronco. Un altro amorino stava seduto sul tronco, con la testa all’altezza dei piedi di quello oggi visibile, ed è stato completamente ricoperto dalla vegetazione. Il braccio destro di Venere, che sta togliendo una freccia dalla faretra dell’amorino addormentato, era stato inizialmente previsto più in alto; al centro del dipinto, all’orizzonte, originariamente stava sorgendo il sole, o la luna. Ma, soprattutto, le radiografie hanno rivelato un larghissimo cretto nei chiari, solo parzialmente visibile sulla superficie del dipinto, e dovuto probabilmente all’eccesso di legante oleoso nel colore; elemento sul quale torneremo in seguito, ma che, va detto fin da subito, ricorda da vicino quello che appare nel polittico Costabili di Dosso e Garofalo. Dopo un primo riferimento "alla scuola di Venetia" nell’inventario del 1638, la tavola è stata riferita a Giulio Romano da Delaroche, Landon (DELAROCHE [1812]; LANDON [1812]) e dalle prime guide del Museo; fu poi attribuita a Lavinia Fontana. L’assegnazione a Battista Dossi spetta al Berenson, quando il dipinto si trovava in deposito al Museo di Hildesheim (BERENSON [1932] e [1936]); tuttavia essa non sembra aver raccolto il consenso degli studiosi, essendo ignorata nelle monografie di MEZZETTI [1965], GIBBONS [1968] e BALLARIN [1995]. Chi scrive ha tuttavia proposto (LUCCO [1998]), sulla base di una felice intuizione della Romani (in BALLARIN [1995]), che la tavola presente possa identificarsi con l’"altro [quadro] picolo dove glie suso una Vener con sei putini cioè amor fato da giuro oltra mar" citato in un documento di pagamento a Battista Dossi del 6 ottobre 1548, poco più di un mese prima della sua morte; anche se, a rigore, i puttini sono sette (ma uno è praticamente quasi del tutto nascosto dietro quello di centro, e tale che, ad uno sguardo non puntigliosamente attento, sembra compenetrarsi col primo, riportando così il numero a sei). La locuzione "fato da giuro oltra mar" deve intendersi, ovviamente, "fatto d’azzurro oltremare", con riferimento ai pigmenti utilizzati, soprattutto nel paesaggio lontano. L’altro dipinto rispetto al quale quello di Berlino in questione viene definito più "piccolo" (e viene di fatto pagato meno, 54 lire e 15 soldi, equivalenti a 15 ducati d’oro, rispetto alle 73 lire, equivalenti a 20 ducati d’oro, del primo) è la Cleopatra nel paesaggio, già sul mercato antiquario londinese, identificata a mio avviso giustamente dalla Romani con quella per Alfonso d’Este, figlio di Laura Dianti, che Battista aveva consegnato nel 1546, e per la quale riceveva il pagamento nell’ottobre del ’48, qualche mese prima di morire. Sulla stessa idea concordava anche Tumidei (TUMIDEI [1996], p. 157, nota 95). Benché il documento estense, pubblicato dal Venturi, parli di quattro tele (VENTURI [1882], nota 1, p. 20), e il dipinto di Berlino sia su tavola, e per di più in verticale, anziché in orizzontale come nella Cleopatra già a Londra, l’uso non sempre esatto dei termini tela e tavola nei documenti estensi, e la coincidenza dell’altezza, praticamente identica per entrambe (65 contro 66 cm), può far pensare alla provenienza da un identico complesso decorativo, garantita peraltro soprattutto dalla coincidenza stilistica; al quale apparteneva anche un S. Girolamo nel paesaggio, pagato esattamente l’identica somma della Cleopatra (20 ducati d’oro, pari a 73 lire), e perciò probabilmente di misure identiche, e una Fortuna nel paesaggio, dalle dimensioni nettamente più piccole, perché pagata 7 ducati d’oro (25 lire e 11 soldi). Sfortunatamente, quest’ultima è andata perduta, e il S. Girolamo, come ha già osservato la Romani (in BALLARIN [1995]), non può identificarsi con quello attualmente al Museo del Louvre, a lungo considerato un autorevole candidato al riconoscimento, essendo quest’ultimo di misure sensibilmente maggiori. Se si accetta il riconoscimento della tela già a Londra e della tavola di Berlino coi dipinti citati nei documenti del 1546 e del 1548, ci troviamo però di fronte ad un’altra anomalia: a petto di referti documentali che appaiono inattaccabili, stanno opere che assai difficilmente possono essere accettate, sic et simpliciter, per prodotti della mano di Battista Dosso. La contraddizione, ad esempio, è evidente nei modi paesistici, i quali non recano più alcuna traccia della struttura nordicizzante, patenieriana, che siamo abituati a riconoscere come caratteristica dell’artista; nonostante il punto di vista parimenti rialzato, a volo d’uccello, la visione si è fatta più naturalisticamente panoramica e reale, senza più edifici di fantasia evanescenti nella nebbia, roccioni verticali come monoliti confitti nel terreno, ma con ondulazioni di fiumi, ponti, boschetti, castelli, ruderi antichi, colline. Un tipo di sfondo che ricorre, in formule ed esecuzione assai simili, nel lontano dell’Annunciazione dipinta da Camillo Filippi per la chiesa ferrarese di S. Maria in Vado, forse negli anni Cinquanta. La definizione poi delle fronde è del tutto peculiare, minuziosamente e graficamente inseguita quasi foglia per foglia con ellissi ricadenti di segno, e, soprattutto nel dipinto già a Londra, con una vegetazione ove abbondano edere e fiori, che mai furono negli orizzonti figurativi di Battista. Il confronto col paesaggio delle due Allegorie della Pace e della Giustizia di Dresda, quest’ultima documentata nel 1544, non potrebbe mostrare contrasto più radicale. Non è tuttavia possibile indicare con certezza dei nomi alternativi, oltre a quello già avanzato di Camillo Filippi; benché vi sia qualche coincidenza e affinità di modi del paesaggio della Cleopatra già a Londra e della nostra Venere con la veduta boschiva dietro il S. Girolamo firmato da Giacomone da Faenza, oggi disperso, reso noto dal BODMER [1938], è certo che la mano di Giacomone non può essere individuata nella tavola di Berlino, né nella tela londinese, se non altro perché il citato S. Girolamo è sicuramente posteriore al soggiorno a Roma dell’artista fra il 1545 ed il 1551. Ciò esclude, ovviamente, ogni sua possibile collaborazione a opere compiute a Ferrara fra il 1546 ed il 1548. Nemmeno le figure nel nostro dipinto, peraltro, anche se indubbiamente più in linea con la tarda operosità di Battista Dossi (si veda, ad esempio, l’affinità del volto della nostra Venere con quello dell’Allegoria della Pace di Dresda appena citata), possono dirsi con assoluta certezza sue. Ciò significherà, probabilmente, che nei suoi ultimi anni la logica della distribuzione dei compiti all’interno della bottega doveva far sì che su una sola opera lavorassero, in maniera strettamente interconnessa, più aiutanti; con la risultante di un omologato "stile d’impresa", più che di uno stile altamente personalizzato e immediatamente riconoscibile. A giudicare dal risultato radiografico, ad esempio, il volto della nostra Venere si direbbe più in linea con gli esiti di Girolamo da Carpi nella Venere sulla conchiglia, o Galatea, di Dresda, pagata nel 1544. Nello stesso giro d’anni, del resto, i due artisti sono impiegati in imprese tanto strettamente contigue, da avere in più occasioni sollecitato il riconoscimento della mano di Girolamo da Carpi entro dipinti documentatamente pagati a Battista Dossi. Quanto poi agli amorini, essi si rivedono con grande frequenza nelle opere autonome di Camillo Filippi, come la paletta nella Sala Capitolare del convento di S. Antonio in Polesine, a Ferrara, o l’Adorazione dei pastori dell’Estense di Modena, dove la figura del Gesù bambino dormiente si approssima assai da vicino alle caratterizzazioni dei putti berlinesi. È da dire inoltre che coincidenze tra le più forti e stupefacenti si registrano anche con un frammento di arazzo del Museo Poldi Pezzoli di Milano, tessuto forse da Giovanni o Nicola Karcher, che a Ferrara si erano avvalsi di cartoni di Battista Dosso e di Camillo Filippi, e di altri. Si ricordi che proprio gli anni relativi al dipinto berlinese, il 1546 e/o il 1548, sono quelli nei quali con più frequenza il nome di Camillo Filippi è associato a quello di Battista Dossi nei documenti della contabilità estense, quale assiduo collaboratore di bottega. Benché, dunque, non si voglia, né in questa fase sia possibile, con le conoscenze attuali, precisare minutamente le responsabilità di Battista Dosso, di Camillo Filippi, e di altri membri della bottega, o di Girolamo da Carpi, nelle varie parti del nostro dipinto, riteniamo che il riferimento a questo pool di artisti debba darsi per acquisito. Ma un altro dettaglio merita di essere adeguatamente commentato, e cioè la larga crettatura visibile in radiografia e a occhio nudo, molto simile a quella visibile nel polittico Costabili della Pinacoteca di Ferrara. Come è noto, dopo la pubblicazione di alcuni documenti di pagamento del 1513, da parte del FRANCESCHINI [1995], pur di tener fede all’opinione di uno storico autorevolissimo come il BALLARIN [1995], che ritiene l’opera del 1523 circa, si è voluto comunque portare in campo l’argomento di una esecuzione assai protratta nel tempo (idea contraddetta dal fatto che i documenti parlano specificamente di due artisti coinvolti contemporaneamente nell’impresa, col chiaro scopo di guadagnare tempo). Cardine di tale idea è il fatto che vi sono tracce di pittura originale dentro e sopra il larghissimo cretto, verificabile anche ad occhio nudo, nelle tavole che compongono il polittico: ciò significherebbe che un artista, Dosso, sarebbe reintervenuto da solo, fra gli otto e i dieci anni dopo il 1513 di cui parlano i documenti, per rammodernare quel testo pittorico compiuto a due mani. Se ciò si configuri come un’infrazione dell’etica professionale nei riguardi di un collega, lascio giudicare a chi crede. Il presupposto tecnico, invece, sarebbe che ci vogliono anni perché il colore si ritiri, formando un cretto largo a questo modo. Questa affermazione ambisce evidentemente al crisma dell’oggettività scientifica, alla validità assoluta che è replicabile e verificabile tutte le volte che ricorrano le identiche condizioni; ma se è così, allora tutti i dipinti che presentino una simile larga screpolatura devono essere stati compiuti in un arco di tempo più o meno decennale. Ora, come si vede soprattutto sul volto della nostra Venere, Battista Dosso, o chi per lui, è tornato con delle pennellate sopra un largo cretto già formato; dovremmo dunque pensare, in base alle considerazioni precedenti, che la tavola di Berlino è stata dipinta all’incirca fra il 1538 ed il 1548. Ma una simile soluzione apparirebbe ridicola a ogni persona di buon senso, non solo perché contrasta con lo stile di Dosso, di Battista, e di Dosso e Battista insieme nel corso dei tardi anni Trenta, come è verificabile, ad esempio, per il primo dai SS. Giovanni Battista e Giorgio di Brera, già a Portomaggiore, per l’appunto del 1538 circa; per il secondo dal Riposo nella fuga in Egitto Cini; e per entrambi da una nutrita serie di opere in collaborazione, dalle due pale votive già a Reggio, alla Disputa sull’Immacolata già a Dresda, distrutta nel 1945, ai due dipinti, sempre a Dresda, col S. Michele e S. Giorgio, pagati nel 1540; ma perché i documenti stessi non consentono che una minima oscillazione, fra il 1546 ed il 1548. Dunque, un dettaglio come la larga crettatura, indice di mai abbandonate preferenze tecniche nella bottega dossesca, prossima al suo finire, consente di fare qualche maggior luce su un problema critico legato agli inizi di quella bottega stessa. (Mauro Lucco)

Ratto di Ganimede - Ignoto artista nordico
L'iconografia del dipinto ricalca una stampa di Nicolas Beatrizet tratta dal noto disegno, rappresentante il Ratto di Ganimede, eseguito da Michelangelo per Tommaso de' Cavalieri, con varianti nel paesaggio, trasformato da marino in montuoso, punteggiato da edifici antichi. La particolare resa dello sfondo naturalistico, lievemente sfumato in lontananza, è caratterizzata da tonalità digradanti che probabilmente una pulitura delle vernici ingiallite rivelerebbe azzurrine e innevate; come già suggeriva il Landon, è possibile collocare l'opera nell'ambito della produzione di un artista nordico, a nostro avviso di cultura italianizzante. L'uso delle incisioni di Beatricetto come modelli si riscontra ad esempio nel pittore olandese Lambert van Noort (Amersfoort 1520 circa - Anversa 1570/71), che compie forse un viaggio di studio in Italia prima del 1549; un'opera con firma latinizzata ("Lambertus Nortensis"), nell'Oratorio della SS. Annunziata a Ferrara, un tempo sull'altar maggiore di S. Maria di Mortara, è l'unica prova della sua presenza nella penisola (DACOS [1980], p. 177; GIOVANNUCCI VIGI [1985], pp. 75-76; Dacos in BRUXELLES -ROMA [1995], p. 216); una tavola oggi conservata presso la Galleria Borghese rappresentante Psiche trasportata all'Olimpo (Ilaria Miarelli Mariani in LECCE [1996], pp. 182-184, n. 34) attribuita al Van Noort da Nicole Dacos (DACOS [1995], p. 27) e derivata appunto da una stampa del Beatrizet, presenta un paesaggio trattato in modo molto affine e un formato quasi identico al nostro. Peraltro, anche sul piano stilistico e nella struttura compositiva, con le quinte erbose e una zona d'ombra in primo piano, le due opere manifestano delle forti affinità, solo in parte dovute alla comune fonte incisoria. Nella collezione Giustiniani Il Ratto di Ganimede era esposto nella "terza stanza dei quadri antichi" come pendant di una Venere con Amorino, oggi a Celle, Bomann Museum (fig. 1), inv. 1638, II, n. 208: "Un quadro d'una Venere ignuda che abbraccia et bagia un Amorino ignudo con panni sopra un' arbore e paese dipinto [maniera antica] in tela alta palmi 4. larga 3.H incirca con sua cornice bianca", che appare di mano molto simile e che recava lo stesso tipo di incorniciatura ("sua cornice bianca"). Il soggetto di Giove che si trasforma in aquila per rapire Ganimede è ispirato a Ovidio (Metamorfosi, X, 152 e ss.) e si presta ad una allegoria morale in senso neoplatonico, amore che eleva l'anima dalla sfera fisica a quella spirituale; a causa di questi contenuti e grazie al nome di Michelangelo, il dipinto Giustiniani ebbe grande fortuna nelle guide e nelle memorie dei viaggiatori, come dimostra il disegno di Jean-Honoré Fragonard battuto all'asta Christie's di Londra il 24marzo 1961, n.20 (fig.1) (SAINT NON [1759-1761, ed. 1986]). Un esemplare su tavola di pioppo, di analogo formato (cm 96,5 ¥ 75,3) è conservato a Vienna, Kunsthistorisches Museum, inv. 1609, con qualche differenza nel paesaggio, più elaborato, con edifici antichi (rovine del Tempio di Nerva riprese da un disegno di Heemskerck e piccole figure); l'opera è nell'inventario dell'Ertzherog Leopoldo Guglielmo del 1659, n. 400, e infatti la troviamo riprodotta nel Cabinet d'amateur di David Teniers II (in quattro diverse versioni presso Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Dresda) raffigurante l'Arciduca Leopoldo Guglielmo nella sua Galleria di Bruxelles, appeso alla parete gremita di dipinti. La circolazione in Olanda del mito del coppiere degli dei sia attraverso Van Mander, sia in forma di dipinto, quale quello di collezione Giustiniani, può avere acceso l'immaginazione di Rembrandt per il suo incomparabile Ratto di Ganimede (DANESI SQUARZINA [1993], pp. 29-36). Secondo A. Wied (WIEN [1997], n. IV, 9, p. 329), che ne segnala altri due esemplari a Hampton Court e al Getty Museum di Malibu (SHERMAN [1983], n. 156; FREDERICKSEN [1972], inv. 77), l'esemplare del Kunsthistorisches Museum è da attribuire ad artista nordico attivo in Italia intorno al 1580.
(Silvia Danesi Squarzina)

Testa di Cristo - Giuseppe Cesari
Citato per la prima volta nell'inventario post mortem del cardinal Benedetto, compilato nel 1621, e successivamente in quello di Vincenzo del 1638, ove è menzionato come opera "di mano di Gioseppe Darpina", il piccolo quadro risulta essere l'unica opera della collezione Giustiniani riferita al Cavalier d'Arpino o alla sua bottega. Il mediocre stato di conservazione e la povertà del pigmento, probabilmente affievolito da un incauto restauro, tale da rendere quasi monocroma l'immagine, lasciano incerto il giudizio sulla qualità dell'opera ed in particolare sulla sua autografia. Nei cataloghi ottocenteschi relativi alla vendita di Parigi il quadro viene curiosamente elencato come Correggio. Già attribuito al Cavalier d'Arpino da Pouncey e Pepper (comunicazione verbale), e identificato come tale con "Un quadro alto palmi dui in circa con le figie di nostro Signore, con cornicie negre" nell'inventario di Benedetto Giustiniani da Silvia Danesi Squarzina, l'opera ha avuto una diversa attribuzione a Cesare Rossetti in occasione della mostra dedicata all'arpinate nel 1973 (RÖTTGEN [1973], p. 162). Punto di partenza per l'esame di questa Testa di Cristo è un cartone conservato al Musée Granet di Aix-en-Provence di uguale soggetto, realizzato dal Cesari in preparazione del grande affresco raffigurante l'Ascensione, da lui compiuto per il Giubileo del 1600 nel transetto di S. Giovanni in Laterano. Sebbene la vicinanza tra il disegno e il dipinto Giustiniani sia stringente sul piano formale, essi sono in realtà distanti qualitativamente e, pur tenendo conto della resa necessariamente diversa derivante dalle differenti tecniche impiegate, appare evidente il divario: al vigoroso chiaroscuro che dà risalto plastico e vitale alla figura del cartone di Aix si sovrappone l'immagine appiattita e dall'espressione indefinita di Potsdam. È possibile che dopo un primo abbozzo del Cavalier d'Arpino l'opera sia stata completata nell'ambito della bottega, sulla base di un modello del Maestro, modello che poteva riferirsi all'affresco lateranense come a quello con la Resurrezione della cappella Olgiati in S. Prassede, dove il tipo di testa del Cristo è lo stesso; nell'inventario del 1638, infatti, il nostro quadro viene indicato come "Un quadro con la testa di Christo resurgente…" (SALERNO [1960], p. 97). La testa qui raffigurata, in effetti, rappresenta un topos ricorrente nella produzione arpinesca e trae origine da un'idea che il pittore ha elaborato e reiterato in occasioni diverse, idea desunta dal testo raffaellesco della Trasfigurazione di S. Pietro in Montorio, ora in Vaticano, pala che il Cesari copiò (DEBENEDETTI [1999], p. 1204) e studiò, come ci viene confermato dal fatto che tra le opere presenti nella sua bottega nel 1607, al momento del noto sequestro, vi erano tre disegni relativi ad altrettante parti della pala di Raffaello (DE RINALDIS [1936], p. 116). La leggera inclinazione della testa, i capelli svolazzanti, la barba inanellata a ciocche, vengono ripresi dal pittore con poche varianti in contesti diversi, particolarmente in opere realizzate negli ultimi anni del secolo: il Cristo risorto della cappella Olgiati, i cui tratti sono apprezzabili anche nel disegno del Gabinetto dei Disegni e Stampe degli Uffizi, il Cristo morto sorretto da quattro angeli della collezione Lodi di Monaco, il Cristo deriso di S. Carlo ai Catinari e il Cristo dell'Ascensione del transetto del Laterano, che è forse il più importante contributo all'ideale classico della pittura romana in questi anni (Röttgen in ROMA [1973], p. 162); una ripresa tarda della stessa tipologia è nel Cristo deriso di Capodimonte, opera tipica dell'ultimo stile del pittore, dove l'impostazione iconica e secca illustra l'enorme distanza che la separa, anche sul piano stilistico, dagli anni del pontificato di Clemente VIII. Nella visione artistica che si va delineando nel corso dell'ultimo decennio del secolo il Cavalier d'Arpino è protagonista della svolta culturale in cui si affermano ideali di chiarezza e semplificazione compositiva delle immagini, perseguiti anche mediante la rivalutazione ed il recupero del raffaellismo, praticato alla luce delle nuove istanze culturali. Sono gli anni in cui il Cesari mette a fuoco ed elabora le problematiche della nascente cultura accademica con la sua forte connotazione teoretica, quale interprete ed esponente emblematico della dialettica figurativa affiancata ai circoli più avanzati della curia romana (WAZBINSKI [1992]). Tra questi, Benedetto Giustiniani rivestì una carica pubblica di riguardo come quella di tesoriere, proprio nei tempi in cui fervevano i lavori per il Giubileo, e dunque non gli mancarono occasioni per incontrare il Cavalier d'Arpino ed acquistare o ricevere in dono qualche suo quadro. Il soggetto, in questo caso, appare del tutto confacente al gusto di Benedetto, che collezionava opere di tema religioso ricercandovi in particolare la forza comunicativa e la valenza simbolica più che l'originalità o l'autografia (DANESI SQUARZINA [1998a], p. 109). (Morena Costantini)


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